Canto XXXIII
Quel peccatore sollevò la bocca dal suo pasto bestiale e la ripulì sui capelli della testa che aveva roso nella parte posteriore. Poi incomincio:
– Tu vuoi che io rinnovi un dolore disperato che mi opprime il cuore solo a pensarci, prima ancora di parlarne. Ma se, in questo modo, potrò infangare ancora di più il nome di questo traditore, allora parlerò e, insieme, piangerò. Io non so chi sei né come sei arrivato fin qui, ma la tua mi sembra la parlata di un fiorentino. Sappi che io sono il conte Ugolino e che questo é l’arcivescovo Ruggieri. –
Ugolino della Gherardesca, discendente di una grande famiglia ghibellina, poi avvicinatosi alla parte guelfa, era stato podestà di Pisa, finché, dodici anni prima, i Ghibellini, sotto la guida dell’arcivescovo Ruggieri, erano riusciti ad avere la meglio su di lui. Il conte era stato rinchiuso, insieme ai suoi due figli e a due suoi nipoti, nella Torre dei Gualandi che, dopo la sua morte, tutti chiamavano la Torre della Fame.
– Ti spiegherò – proseguì – perché sono tanto feroce con il mio compagno di pena. Sei di Firenze e certo conosci la mia storia. Non c’é bisogno, quindi, che ti dica che fu la sua perfidia a far sì che io, che pure mi fidavo di lui, fossi imprigionato e fatto morire. Però non puoi sapere quanto sia stata crudele la mia morte ed è questo che voglio dirti, perché tu possa giudicare se ho ragione di odiarlo. Attraverso una stretta feritoia della torre, che ancora servirà da ultimo carcere per altri sventurati, io avevo visto ormai molte volte il ritorno della luna nuova, quando feci il sogno terribile che mi svelò il futuro: un lupo con i suoi cuccioli, inseguiti da cagne fameliche su per il monte di San Giuliano, fra Pisa e Lucca; e dietro, i Gualandi, i Sismondi, i Lanfranchi e le altre famiglie ghibelline alleate di Ruggieri, che le seguiva e aizzava loro e le cagne; e poi il padre e i piccoli stanchi, sfiniti e le cagne che affondavano le zanne nei loro fianchi… Quando mi svegliai, prima del mattino, sentii piangere nel sonno i miei figli e li sentii chiedere del pane. Cerca di immaginare quel che provavo dentro di me. Si svegliarono. Si avvicinava l’ora in cui di solito ci portavano da mangiare, ma quel giorno un terribile sospetto colse me e loro che, evidentemente, avevano fatto un sogno simile al mio. Poi, sentii che stavano inchiodando la porta di quell’orribile torre. Guardai nel viso i miei figlioli, senza dire una parola. Ero diventato di pietra, non mi uscivano nemmeno le lacrime. Loro, invece, come piangevano! E Anselmuccio mi disse: “Perché ci guardi in questo strano modo? Padre, che hai? Perciò non piansi e non gli risposi per tutto quel giorno e per tutta la notte, finché non riapparve di nuovo il Sole. Non appena un po’ di luce fu entrata nel nostro doloroso carcere, io guardai quei quattro volti e vidi in loro il mio stesso aspetto e mi morsi le mani per il dolore. Loro pensarono che lo facessi per fame. Subito si alzarono e mi dissero: “Padre, mangia la nostra carne. Tu ce l’hai data, ora riprenditela!”. Allora mi calmai, per non renderli ancora più tristi. Quel giorno e il seguente rimanemmo tutti in silenzio. Perché, perché allora la terra non si aprì e non ci inghiottì? Al quarto giorno, Gaddo si gettò disteso ai miei piedi e gridò “Padre mio, perché non mi aiuti?”. E morì. Uno dopo l’altro, fra il quinto e il sesto giorno, vidi cadere gli altri. Cominciai, ormai cieco, a brancolare sopra ciascuno e li chiamai per due giorni, dopo che erano già morti. Poi, più del dolore, mi vinse la fame. –
Anche lui, dunque, era morto di fame. O era vero, come diceva la gente, che la fame lo aveva ridotto al punto da divorare la carne dei suoi figli?
Dopo aver detto quelle ultime parole, con gli occhi di nuovo torvi e minacciosi, Ugolino afferrò con i denti il misero teschio e riprese a roderlo, accanito e furioso come una cane con il suo osso.
Una fine davvero disumana, la sua. Del resto, che cos’è rimasto di umano a Pisa, la città che é la vergogna del nostro bel Paese? I suoi vicini dovrebbero decidersi a unirsi contro di essa, per spazzarla via dalla faccia della Terra. Le isole di Capraia e di Gorgona dovrebbero muoversi e formare una diga alla foce dell’Arno, per sommergerla e fare annegare così tutti i suoi abitanti.
Ammettiamo pure che Ugolino l’avesse veramente tradita. Si diceva, infatti, che, quando Firenze e Lucca si erano alleate contro Pisa, il conte aveva loro ceduto alcuni castelli.
Ma i suoi figli, 1 suoi nipoti… che colpa potevano avere avuto loro, così giovani e così innocenti?
Virgilio ed io ci allontanammo dai protagonisti di quella tragedia e arrivammo in una zona dove i peccatori giacevano supini, con la faccia rivolta verso l’alto e la parte posteriore del cranio bloccata dal ghiaccio. La loro posizione impediva alle lacrime di scorrere. Una specie di visiera di ghiaccio ricopriva la cavità dei loro occhi e impediva che il loro dolore si sfogasse.
Sebbene il freddo avesse tolto ogni sensibilità al mio viso, mi sembrava di avvertire un soffio di vento. Domandai a Virgilio chi mai lo potesse produrre, visto che lì, nell’Inferno, non c’erano vapori che il Sole potesse alzare per formare venti.
Il mio maestro rispose che presto lo avrei scoperto.
Mentre parlavamo, uno di quegli sciagurati, bloccati nel ghiaccio, si rivolse a noi. Non potendo vedere, aveva creduto che fossimo dannati e che ci stessimo muovendo per raggiungere la zona a noi destinata. Ci pregò di togliere dai suoi occhi la crosta di ghiaccio, in modo che potesse sfogare per un po’ il suo tormento, prima che le sue lacrime tornassero a ghiacciarsi.
Se voleva essere accontentato, gli risposi, doveva prima dirmi chi era.
– Io sono Frate Alberigo, – mi rispose – quello della frutta cresciuta nell’orto del male, e qui riprendo datteri per fichi –
Alberigo dei Manfredi, dell’ordine di quelli che noi fiorentini chiamavamo frati gaudenti, era uno dei capi dei Guelfi di Faenza. Una quindicina d’anni prima, in discordia con alcuni suoi parenti, aveva finto di riappacificarsi con loro, li aveva invitati a pranzo e fatti uccidere tutti. Pare che i sicari fossero intervenuti quando Frate Alberigo, che così si era accordato con loro, aveva dato l’ordine di portare la frutta in tavola. Il fatto era talmente risaputo che era nato persino una specie di proverbio: “avere la frutta di Alberigo di Romagna” significava rischiare seriamente di essere uccisi.
Il perfido frate, nelle poche parole che mi aveva rivolto, aveva usato un’altra battuta popolare. “Prendere datteri per fichi” vuol dire pagare una colpa con gli interessi: evidentemente, la sofferenza della sua pena era tale che essa gli sembrava maggiore della colpa.
Quando seppi la sua identità, mi meravigliai non poco, perché sapevo che era ancora vivo. – Ma come, – gli dissi – sei già Morto? –
Mi rispose che non sapeva bene il perché, ma in effetti il suo corpo era ancora nel mondo. Mi spiegò che quella zona di Cocito, chiamata Tolomea dal nome dell’uccisore di Pompeo e destinata appunto ai traditori degli ospiti, aveva una curiosa caratteristica: spesso l’anima vi cadeva subito dopo aver tradito, prima ancora di esserci spinta dalla morte; sulla Terra, rimaneva il corpo, di cui prendeva possesso un demonio che lo avrebbe retto finché fosse trascorso del tutto il tempo assegnatogli per vivere.
– Guarda, ad esempio, questo dannato qui, dietro di me. – proseguì – E Branca Doria, il nobile genovese che fece tagliare a pezzi, dopo averlo invitato a pranzo, il suocero e, insieme a lui, tutto il suo seguito. Credo che il suo corpo si trovi ancora nel mondo. Eppure, sono passati parecchi anni da quando il suo spirito é stato chiuso nel ghiaccio. –
Dieci anni prima, infatti, Branca aveva commesso quell’orrendo delitto. Conoscevo bene quella vicenda e sapevo anche che l’anima di suo suocero, Michele Zanche, nominatomi da Ciampòlo di Navarra, si trovava fra i barattieri.
Le parole di Frate Alberigo, comunque, non mi avevano convinto. La cosa mi sembrava talmente incredibile che pensai che quel peccatore si stesse prendendo gioco di me.
– Ma che dici? – feci – Branca non è mai morto. Mangia, beve, dorme, si veste, come tutti i vivi. –
– Michele Zanche – ribatté lui – non era ancora arrivato nella bolgia della pece bollente che Branca lasciò nel suo corpo, al posto dell’anima, un diavolo. E lo stesso accadde a un suo parente, che lo aveva aiutato nel suo tradimento. Bene, ti ho detto tutto. Ora esaudisci la mia richiesta, liberami gli occhi. –
Non lo feci. Fui villano con lui, ma con simili peccatori non si può e non si deve essere cortesi.
Anche nel caso di Branca, la sua abiezione non mi aveva stupito: era genovese. Quasi tutti gli abitanti di questa città sono lontani da ogni costume civile e pieni di ogni vizio. Mi domando perché ancora non siano stati estirpati dal mondo. Lì, fra i traditori, insieme al peggiore peccatore di Romagna, Frate Alberigo, avevo incontrato uno di loro, tanto perverso che il suo corpo è ancora nel mondo, mentre la sua anima é già bloccata dal ghiaccio di Cocito.