Cioè, diciamo, nella città dolente. Dove ‘città’, sullo stampo del latino ‘civitas’, varrà ‘stato, comunità stabilmente insediata su un dato territorio’; e in antitesi alla ‘città di Dio’, regno della beatitudine, questa ‘città dolente’ sarà il regno della pena e del lamento (per indicare il territorio urbano che oggi chiamiamo, appunto, ‘città’ Dante userà di preferenza il termine ‘terra’, spesso ‘villa’ alla francese, e talora anche ‘città’…).
Le parole di colore oscuro, che Dante legge sulla porta dell’inferno, non richiedono troppi chiarimenti: sono infatti tenebrose, minacciose, forse anche materialmente scritte col fiele dei diavoli (come vorrebbe una vecchia fantasia), ma non sono affatto difficili da decifrare.
È chiaro che l’‘alto fattore’, il sommo architetto mosso da giustizia a progettare la porta e il baratro sottostante, è Dio. Come chiarissimo era ai primi lettori che ‘divina podestate’, ‘somma sapïenza’ e ‘primo amore’, che realizzarono il progetto, sono i tre attributi di Dio nelle tre persone del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo. Riecco, al centro delle tre terzine della funesta iscrizione, troneggiare «la mirabile Trinitade».
Ora, secondo la tradizione cosmogonica ebraico-cristiana […] l’inferno è un cratere aperto nell’informe impasto della terra dall’urto di Lucifero e del suo codazzo d’angeli ribelli, quando il Signore li scaraventò giù dal cielo (aperto, e poi risoffittato dalla crosta terrestre): evento che, a rigore – anche questo vedremo –, dovrebbe precedere la creazione di ogni forma vivente, e quindi destinata a morire. Dunque, dice bene la porta: ‘dinanzi a me non fuor cose create / se non etterne, e io etterno duro’, purché all’aggettivo ‘etterne’ si dia qui il valore restrittivo di ‘destinate all’eternità ma generate nel tempo’, insomma ‘imperiture’… valore che aveva nel latino dei classici e dei Padri della Chiesa. D’altronde, anche l’uso avverbiale di ‘etterno’ è latinismo (‘etterno duro’ vale ‘duro in perpetuo’).
Compitata la nera epigrafe, Dante confessa al maestro che il significato di quelle parole, specie delle ultime e inappellabili (lasciate ogne speranza, voi ch’intrate), lo colpisce e lo angustia: “Maestro”, dice, “il senso lor m’è duro”.
E Virgilio, con accortezza: “Qui tu devi lasciare ogni sospetto, diciamo ‘ogni titubanza’ (ricorda che nella radice latina di ‘sospetto’, ‘suspicio’, ‘dubbio, diffidenza e paura’ si assommano a ‘soggezione’). Non c’è più tempo per la viltà. Ormai siamo venuti nel luogo dove – come ti dicevo – tu vedrai le turbe dolenti di quelli che hanno perduto il ben de l’intelletto, cioè (più o meno) la percezione, la fruizione della verità”.
Ciò detto, con un viso sereno che rasserena Dante, il maestro lo prende per mano, e lo introduce nel mondo occulto, remoto, segregato delle anime dannate: mi mise dentro a le segrete cose; e ‘segrete’ per ‘segregate’ è ancora un latinismo…
Qui propriamente si avvia il lungo viaggio d’iniziazione di Dante nei tre regni dei morti. […]
Come Enea a ridosso del Tartaro, nemmeno Dante-pellegrino, a tutta prima, vede. Ma ad impedirgli di vedere non è un muro che lo taglia fuori: è l’aere sanza stelle, è l’aura sanza tempo tinta (nera sempre, senza vicenda di giorno e notte), è la tenebra dell’immane androne rimbombante in cui s’è cacciato. Il pellegrino è immerso nella propria cecità. E la bagna di lacrime, a tutta prima. È sgomento, frastornato dallo sgomento (ha d’error la testa cinta), non è atterrito. Infatti non sta ascoltando il raccapricciante repertorio acustico del penitenziario infernale di Virgilio, ma voci, solo suoni di bocche umane: sospiri, pianti, grida stridule e lamentose come guaìti (alti guai); e poi, quasi sabbia che turbina nel vento, lingue discordi, pronunce contraffatte, parole di dolore, accenti d’ira, voci alte e fioche, mescolate allo schiocco delle mani […].
Dalla turba dei dannati che ondeggia nel buio non s’alzano due voci che s’accordino. Ognuno soffre per sé. La solitudine è l’estrema sanzione della pena. Ma nessuna paratìa di pietra o di fuoco, nessun raccapriccio statuario tagliano fuori Dante-pellegrino dalla indistinta baraonda di tante solitudini dannate: ormai tagliato dentro a le segrete cose, al mondo della segregazione infernale, la sua stessa cieca solitudine di peccatore lo commuove e lo sopraffà. E si appella a Virgilio, riassumendo all’osso l’appello del suo Enea alla Sibilla: “Maestro, che è quel che sento? La folla che sembra così arresa al dolore… chi sono?”.
E Virgilio: “Questo è il misero modo che tengono le anime sordide di coloro che vissero senza meritarsi né infamia né lode”: e ‘misero modo’ varrà ‘contegno miserabile’, ma io non escluderei che col termine ‘modo’ – che nella polifonia del Duecento sta per ‘schema ritmico’ – Virgilio si riferisca specificamente al comportamento vocale dei dannati: peraltro l’unico che, al momento, lui e Dante siano in grado di avvertire.
Si tratta della moltitudine sterminata degli Ignavi: di quanti, cioè, per apatia e viltà, non hanno mai preso partito, rischiato una scelta; e che ora, nelle tenebre, si mescolano al cattivo coro (coro, appunto) degli angeli che, all’atto della rivolta di Lucifero, non si schierarono né con i ribelli né con l’armata di Dio, ma per sé fuoro: si appartarono, cioè, nel loro imbelle egoismo. I cieli li bandiscono per non macchiare la propria bellezza; e nemmeno il fondo dell’inferno li ospita, ché le anime dell’abisso potrebbero dal confronto con loro trarre alcuna gloria, cioè qualche argomento di vanto. […]
“Maestro”, smania Dante (è la terza volta che attacca con ‘Maestro’), “cos’è che tanto li opprime, da farli lamentare così forte?”.
Virgilio taglia corto: “Te lo spiego in due parole: questi nemmeno nella morte hanno da sperare…”. Ma in quale morte? nell’annientamento della «seconda morte» – ricordi? –, o nella perfetta dannazione del profondo inferno? “…D’altronde – continua a tagliar corto Virgilio – la loro cieca esistenza è così infima, che non c’è destino che non invìdino. Della loro memoria il mondo non porta traccia. Non solo la pietà, ma anche la giustizia di Dio se ne disinteressa. Non ragioniam di lor, ma guarda e passa”.
E Dante passa. E guarda. E riguarda, finché gli occhi, abituatisi al buio, cominciano a decifrarlo. E vede ora un’insegna che mulinando vola via così rapida, che a lui sembra incapace (indegna) d’una qualsiasi tregua: che, insomma, ferma, lui non riesce nemmeno a immaginarsela. E dietro a quella insegna (insomma a quello straccio di bandiera, emblema del «prender partito», cui si son sottratti in vita questi vigliacchi)… dietro a quella insegna si affanna sì lunga tratta, una tale sfilza di gente, che Dante confessa non avrebbe mai creduto che la morte ne avesse liquidata tanta.
Infinita è la turba anonima dei vili. Tuttavia, Dante ora qualcuno comincia a riconoscere… Finché vede e individua l’ombra di colui / che fece per viltade il gran rifiuto.
Chi sia quest’anima dannata – la prima che il pellegrino mette a fuoco –, non si può dire con certezza assoluta. Ma se il poeta ce la addita così, senza nominarla, è ragionevole supporre si tratti di quella d’un suo contemporaneo famoso; e che questo «gran rifiuto» sia contrassegno sufficiente per mettere i lettori dell’epoca in grado di individuarlo. Dal canto loro, i commentatori più antichi si pronunciano generalmente, se pure con qualche titubanza, per papa Celestino V, al secolo Pietro del Morrone. […]
In tutti i casi, fosse proprio il povero Celestino, o non piuttosto – come qualche dotto pretende – Diocleziano, Esaù, Ponzio Pilato, o chi per essi, certo è che, come Dante lo riconosce, subito (incontanente) e senz’ombra di dubbio prende atto trattarsi della setta delle anime succubi e vili (i cattivi: etimologicamente ‘i prigionieri [del diavolo]’), che fanno ribrezzo tanto a Dio quanto ai suoi nemici.
L’esasperazione gli aguzza la vista. E rincara compiaciuto: «questi disgraziati, che non hanno avuto il coraggio e la dignità di vivere, erano tutti nudi, e mosconi e vespe a sciami li pungolavano, molto li pungolavano, e rigavano le loro facce di sangue, sangue che si mescolava alle lacrime e colava giù fino ai piedi, dove un tappeto di vermi se ne imbeveva».
Sinistra, la congruenza fra colpa e pena (‘contrapassum’ nel latino di Tommaso d’Aquino, ‘contrapasso’ nell’italiano di Dante): refrattari in vita agli stimoli della passione morale e ai rischi della scelta, questi senza-bandiera son dannati per l’eternità a galoppare freneticamente dietro un qualsiasi straccio al vento (ma c’è chi per l’insegna ha pensato perfino alla croce di Cristo), pungolati e torturati da insettacci, sdrucciolando su un macabro tappeto di vermi: schifosamente morti, loro «che mai non fur vivi». […]
Dante gira la testa, e il canto ruota.
L’immenso circuito degli Ignavi digrada verso il letto di un gran fiume. Sulla riva si accalcano moltitudini. E Dante, a Virgilio: “Maestro, puoi essere così cortese da spiegarmi chi sono quelli, e quale abitudine e norma li fa così smaniosi di trapassare il fiume, per quel po’ che riesco a vedere in questa luce fioca?”. È la quarta volta che lo interpella, assillandolo, ‘Maestro’…
E il maestro: “Calma! Te ne renderai conto quando saremo arrivati sulla trista riviera d’Acheronte!”.
Dante abbassa gli occhi mortificato. Nel timore di molestare la guida parlando a sproposito, fino al fiume non apre più bocca.
L’Acheronte – come ben noto – è il fiume che segna il confine dell’Averno degli antichi, e naturalmente figura nel VI dell’Eneide in termini che Dante riprende e varia col massimo scrupolo. D’altronde sappiamo bene che, per Dante, il ruolo di guida dell’oltretomba, Virgilio comincia a svolgerlo sulle pagine della sua «tragedìa», ben prima di apparirgli nella «piaggia diserta»…
Ed ecco un vecchio peloso e poderoso fendere le acque su un suo battello, e attraccare gridando: “Guai a voi, anime depravate! Il cielo, toglietevelo dalla testa! Io vengo a traghettarvi all’altra sponda, nella tenebra perpetua, fra fiamme e ghiaccio. E tu che sei costì, anima viva, pàrtiti da codesti che son morti!”.
Chiamato in causa, Dante non si muove. E il vecchiaccio nocchiero: “Da tutt’altro porto, per tutt’altra rotta sei destinato ad approdare su tutt’altra spiaggia, tu, con una barca molto più leggera”.
Virgilio si fa sentire: “Sta’ calmo, Caronte! Vuolsi così colà dove si puote / ciò che si vuole, e più non dimandare” (in parole particolarmente povere: ‘questa è la volontà dell’Onnipotente, e chiudi il becco!’). La formula solenne ammansisce il passatore della livida palude, che ha gli occhi cerchiati di fuoco. Le sue gote lanose si afflosciano.
Vecchio figlio di Erebo e di Notte, Caronte traghetta anime dal vestibolo al bordo dell’abisso infernale, spingendo con una pertica il suo barcone sulle acque melmose del mitico fiume Acheronte, fin dai tempi remoti di Eracle e di Orfeo (perfino gli antichi Etruschi pare ne sapessero qualcosa). Dante lo assume dalle favole antiche fra i demòni che pattugliano il suo inferno – primo d’una lunga serie –, confortato dalla tradizione patristica, che vuole i mostri e gli dèi sotterranei fallaci emanazioni di Satana, smascherati per tali dalla discesa all’inferno del Cristo risorto.
Da sempre canuto, ispido e rissoso, ma scrupolosissimo nel controllo dei salvacondotti, Caronte deve la sua fama soprattutto alla descrizione particolareggiata che ne fornisce, appunto, Virgilio.
E Dante, a proposito di Caronte, non si permette variazioni lessicali: non spende una parola che non traduca una parola dell’Eneide. Asciuga. Asciuga e sgrana il fluido ritratto virgiliano in tre flashes, in tre impressioni a strappo, intercalate dagli urli sguaiati del vecchiaccio. E, francamente, fa più impressione Dante. […]
Ascoltate appena le parole feroci che ha indirizzato loro il traghettatore, le anime, nude e spossate, sbiancano e battono i denti. E cominciano a bestemmiare Dio, i genitori, il genere umano, il luogo e il tempo della loro concezione e della loro nascita. Poi si ammassano singhiozzando sulla riva infernale, che aspetta chiunque non abbia vissuto nel timore di Dio. Caronte fa cenno a tutti, uno per uno, lampeggiando con gli occhi di brace, e li carica. Su chiunque esiti o si sdrai sul fondo della barca, brandisce il remo.
Come d’autunno si staccano le foglie una per una, finché l’albero rimane spoglio: così, uno per uno, i malvagi figli d’Adamo si spiccano da quella sponda al muto appello di Caronte, come uccelli da caccia all’apposito segnale del cacciatore (per cenni, come augel per suo richiamo).
E va il barcone del vecchio diavolo su per l’onda bruna. Prima che abbia sbarcato il carico alla riva opposta, già un’altra folla si è adunata all’imbarco.
Dante e Virgilio sono rimasti a terra. È un attimo sospeso. E il maestro, affabile, dandogli per la prima volta del ‘figlio’ (o ‘figliolo’), spiega al discepolo quel che aveva tanta smania di capire: “Figliuol mio, tutti quelli che muoiono nell’ira di Dio convengono qui da ogni parte della terra. E se li vedi così pronti a passare il fiume, è perché la giustizia divina tanto li pungola, che la paura del castigo si muta in desiderio (la tema si volve in disio). Di qui non è mai transitata anima buona: e però…” (e sarà bene ricordare, una volta per tutte, come nella lingua del Due-Trecento la congiunzione ‘però’ conservi in genere il valore causale dell’etimo latino ‘per hoc’: dunque ‘e però’ valeva ‘e perciò’, ‘e ben per questo’)… dunque, stava dicendo Virgilio: “ben perciò, se Caronte ti ha fatto storie, ora puoi renderti conto di cosa intendesse dire”. Dante, il punto è questo, non è destinato all’inferno, ma alla spiaggia del monte Purgatorio, sulla quale lo sbarcherà un angelo nocchiero vestito di bianco.
Ma il maestro ha appena finito di parlare, che la buia campagna trema così forte, che la memoria dello spavento (de lo spavento / la mente) ancora bagna il poeta di sudore. La terra lagrimosa – calco dei ‘lugentes campi’, dei ‘campi piangenti’ di Virgilio – sprigiona un turbine, mentre balena una luce vermiglia che fa perdere i sensi, tutti i sensi (ciascun sentimento) al nostro pellegrino.
E quello, povero Dante, piomba giù come investito e subissato dal sonno.»
tratto da L’Inferno di Dante di Vittorio Sermonti, Garzanti