“Canto 26 dell’Inferno“: parafrasi e riassunto

«Godi, Firenze! La fama della tua grandezza non solo vola per il mondo intero, ma si diffonde in tutto l’Inferno! Tra i ladri ho trovato cinque tuoi cittadini così spregevoli che me ne vergogno e certo tu non ne acquisti onore. Ma, se è vero che i sogni fatti all’alba si avverano, allora tu proverai ben presto le sventure che Prato, per non dire di altre città ancor più nemiche e potenti, ti augura ardentemente. Se ti colpissero oggi, sarebbe sempre troppo tardi: ma siccome è ineluttabile che ti colpiscano, lo facciano subito, perché mi daranno tanto più dolore quanto più invecchio. (La predizione dei prossimi mali che si abbatteranno su Firenze non sembra riferirsi a eventi specifici.)

Pronunciata l’invettiva, Dante autore riprende a raccontare.

Virgilio risalì, tirandosi dietro Dante, su per gli scalini che prima, nello scendere, li avevano fatti impallidire, poi entrambi proseguirono, non senza l’aiuto delle mani, su per il ponte di roccia che valicava l’ottava bolgia (dov’erano puniti i tessitori di inganni e i consiglieri di frodi).

Lo spettacolo che vidi da lassù – commenta Dante – e che ancora mi addolora quando lo ricordo, fece sì che da allora io tenga a freno la mia intelligenza più di quanto non avessi fatto prima, affinché non si metta a correre senza la guida della virtù, e mi privi io stesso, in tal modo, di quel bene donatomi dagli astri favorevoli (la costellazione dei Gemelli che splendeva al momento della sua nascita) o da una potenza superiore.

Dall’alto del ponte Dante vide il fondo della bolgia cosparso di fiamme: erano tanto numerose quanto le lucciole che in un crepuscolo di inizio estate il contadino, dal colle dove si sta riposando, vede risplendere giù nella vallata, forse proprio là dove sono i suoi campi e le sue vigne. Ogni fiamma si muoveva sul fondo del fossato senza lasciare intravvedere ciò che nascondeva: ciascuna celava un’anima. Allo stesso modo il profeta Eliseo vide partire il carro di fuoco di Elia quando i cavalli si levarono al cielo impennandosi, ma, seguendone poi con gli occhi l’ascesa, non scorse altro che una fiamma salire come una nuvoletta.

La Bibbia narra che un carro infuocato, trainato da cavalli anch’essi di fuoco, rapì il profeta Elia sotto gli occhi del suo discepolo Eliseo portandolo fino al cielo.

Dante stava in piedi sul ponte: era talmente preso da ciò che vedeva che, se non si fosse tenuto a una sporgenza, sarebbe caduto, anche senza essere urtato da qualcuno. Virgilio, vistolo così attento, gli spiegò che dentro a ogni fiamma ardeva un dannato.

«Adesso ne sono sicuro» disse Dante «ma l’avevo intuito già prima, e infatti anche in precedenza volevo chiederti chi c’è in quella fiamma che si muove verso di noi con la cima divisa in due, come se si sprigionasse dalla pira sulla quale Eteocle fu posto insieme al fratello Polinice.»

Eteocle e Polinice, figli di Edipo, si uccisero l’un l’altro sotto le mura di Tebe. I loro cadaveri vennero collocati su una stessa pira, ma la fiamma si divise in due, a testimoniare che l’odio che li aveva divisi in vita perdurava anche dopo la morte.

Virgilio rispose che nella fiamma erano tormentati Ulisse e Diomede, accomunati nella punizione come lo erano stati nel provocare la collera divina. Il fuoco puniva l’inganno del cavallo, con cui furono aperte le porte di Troia, attraverso le quali fuggirono i nobili progenitori dei Romani; puniva l’astuzia che aveva indotto Achille ad abbandonare Deidamia e che di ciò si lamentava anche da morta; puniva il furto della statua di Pallade.

I Greci Ulisse e Diomede sono tra gli eroi più famosi della guerra di Troia: il primo celebre per l’astuzia, il secondo per il coraggio. Notissimo è lo stratagemma del cavallo di legno, al cui interno erano nascosti Ulisse e altri valorosi soldati, grazie al quale i Greci riuscirono a penetrare nella città e a distruggerla. Dopo molte peripezie, i Troiani superstiti approdarono nel Lazio, sotto la guida di Enea, e fondarono Roma. Deidamia era stata sedotta da Achille nell’isola di Sciro, dove la madre Teti lo aveva nascosto sotto abiti femminili per impedirgli di partecipare alla guerra di Troia, nella quale sapeva che sarebbe morto. Ulisse e Diomede, giunti sull’isola, lo smascherarono e lo convinsero a partire per Troia. Nel Purgatorio Dante dirà che Deidamia si trova nel Limbo, e dunque è lì che ancora piange il tradimento di Achille. La statua di Pallade Atena proteggeva la città di Troia: Ulisse e Diomede riuscirono a penetrare nella rocca dove era conservata, uccisero i guardiani e la rubarono. Dante attinge le sue informazioni dall’Achilleide di Stazio e dall’Eneide.

Dante, allora, pregò con insistenza la sua guida di aspettare che la fiamma bipartita si avvicinasse, qualora le anime in essa nascoste avessero potuto parlare: provava un così forte desiderio di ascoltarle che già si protendeva in quella direzione. Virgilio accettò, ma con l’avvertenza che a parlare sarebbe stato lui stesso, perché, trattandosi di Greci, notoriamente superbi, forse a Dante non si sarebbero degnati di rispondere. E così, quando la fiamma fu vicina, Virgilio cominciò con solennità: «O voi due che state dentro a un’unica lingua di fuoco, se in vita ho acquisito qualche merito presso di voi scrivendo l’Eneide, in cui celebro molte delle vostre gesta, fermatevi, e Ulisse racconti dove si smarrì e incontrò la morte».

La più alta delle due fiamme cominciò ad agitarsi come fosse scossa dal vento e a mormorare in modo indistinto, poi iniziò a parlare – la cima, che si muoveva di qua e di là, sembrava essere la sua stessa lingua – e disse: «Quando mi separai da Circe, che con le sue lusinghe mi tratteneva da più di un anno nell’isola vicina a quel luogo che poi Enea avrebbe nominato Gaeta, né la tenerezza per il figlio né la devozione per il padre né l’amore di sposo per Penelope poterono vincere il mio ardente desiderio di conoscere il mondo, i vizi e le virtù degli uomini; e così, invece di dirigermi verso la Grecia, mi spinsi in alto mare con una nave soltanto e con quei pochi compagni che non mi avevano abbandonato. Esplorai entrambe le sponde del Mediterraneo, quella europea fino alla Spagna e quella africana fino al Marocco, la Sardegna e le altre isole di quel mare».

Dante, che non conosceva l’Odissea, sapeva di Circe, di come la maga avesse legato a sé Ulisse e trasformato in porci i suoi compagni, dalle Metamorfosi di Ovidio; dal poema di Virgilio, invece, aveva appreso che Enea aveva battezzato Gaeta con il nome della sua nutrice (Caieta) là tumulata.

«Quando arrivammo a quell’angusto passaggio (lo stretto di Gibilterra) dove Ercole aveva collocato le due colonne per ammonire i naviganti a non inoltrarsi nell’oceano, i miei compagni ed io eravamo diventati dei vecchi senza forze. Dopo aver superato sulla destra Siviglia e sulla sinistra Ceuta (in Africa, di fronte a Gibilterra), parlai loro e dissi: “Fratelli, che attraverso innumerevoli pericoli siete giunti all’estremo occidente, nei pochi anni di vita che ancora ci restano non rifiutatevi di conoscere il mondo disabitato al di là del sole. Considerate la vostra origine: non siete stati creati per vivere come bestie, ma per mirare alla virtù e al sapere”. Con questo breve discorso li spronai a tal punto che a fatica avrei potuto trattenerli dal mettersi in viaggio: e dunque, rivolta la poppa a oriente (cioè dirigendoci a occidente), ci lanciammo, come se i remi fossero ali, in quel volo temerario. Navigavamo piegando sempre verso sinistra (cioè verso l’emisfero australe). Ormai, di notte, potevamo vedere tutte le stelle del polo meridionale, mentre quelle del polo settentrionale restavano nascoste sotto l’orizzonte. Erano passati cinque mesi dal giorno in cui avevamo intrapreso quella rotta pericolosa quando in lontananza ci apparve una montagna di colore indistinto: mai ne avevo visto una più alta. (È la montagna del Purgatorio, situata agli antipodi di Gerusalemme, la cui cima, sulla quale è collocato il Paradiso terrestre, si eleva al di sopra dell’atmosfera.) Ci rallegrammo, ma subito la nostra gioia si convertì in pianto: da quella terra che ci era appena apparsa si levò un vento turbinoso che colpì la parte anteriore della nave. Questa girò per tre volte nel gorgo creato dal turbine; alla quarta sollevò in alto la poppa e con la prua si inabissò fino a che il mare non si richiuse su di noi.»

L’Odissea, peraltro – come detto – ignota a Dante, non parla della fine di Ulisse, ma da vari autori latini Dante poteva ricavare la notizia favolosa di un suo viaggio nell’oceano; la navigazione agli antipodi e il naufragio in vista della montagna del Purgatorio restano comunque una sua invenzione.»

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