La mia guida rispose che le tombe sarebbero state tutte definitivamente chiuse quando, dopo il Giudizio Universale, le anime sarebbero tornate li con i corpi lasciati in terra. Con un gesto del braccio, mi indicò una parte del cerchio e mi disse: – In quella zona si trovano Epicuro e i suoi seguaci, che ritengono l’anima mortale come il corpo. Lì potrà essere soddisfatto il tuo desiderio, quello che hai espresso e anche quello che non hai manifestato. –
Il mio maestro aveva capito che volevo incontrare un’anima in particolare, un grande della generazione precedente alla mia, di cui già avevo chiesto notizia a Ciacco, nel cerchio dei golosi. Doveva trovarsi fra gli eretici, ne ero certo.
Precisai a Virgilio che, se a volte tacevo, non era per sfiducia nei suoi confronti, ma per non infastidirlo, per mettere in pratica quella discrezione e quel senso della misura che lui stesso mi aveva insegnato.
All’improvviso, una voce uscì da una delle tombe: – Tu, toscano, che te ne vai ancora vivo per la città del fuoco e che parli in modo così dignitoso, abbi la compiacenza di fermarti un poco qui. La tua cadenza rivela che anche tu, come me, sei nato in quella nobile città a cui io, forse, ho recato troppo danno. –
Quelle parole improvvise mi spaventarono e, al solito, mi accostai a Virgilio.
– Ma che fai? – reagì il mio maestro – Voltati! Guarda: Farinata si é levato dal fondo del suo sepolcro. Lo puoi vedere tutto, dalla cintola in su. –
Era proprio quella l’anima che volevo incontrare: Farinata degli Uberti, il grande ghibellino, il vincitore di Montaperti, morto un anno prima della mia nascita.
Lo osservai: si ergeva con il petto e con la fronte, statuario, sdegnoso, come se disprezzasse l’Inferno stesso.
Virgilio mi spinse verso di lui, con un avvertimento: che le mie parole fossero dignitose, come si conveniva quando ci si rivolgeva a un simile personaggio.
Non appena fui ai piedi della sua tomba, Farinata mi squadrò e, con una punta di alterigia, mi domandò: – Chi furono i tuoi antenati? –
Glielo dissi subito, con franchezza. Aggrottò un poco le ciglia, poi fece: – Furono fieri avversari miei e del mio partito; perciò li ho combattuti e sconfitti per due volte. –
– Se è vero che i Guelfi furono vinti ed esiliati, ribattei – è anche vero, però, che seppero rientrare in Firenze l’una e l’altra volta. I Ghibellini, invece, furono dispersi per sempre. –
La nostra conversazione si era quasi subito trasformata in uno scontro, che sarebbe certo continuato e, forse, degenerato, se non fosse emersa dallo stesso sepolcro un’altra anima; era visibile fino al mento, per cui doveva essere in ginocchio.
Guardò intorno a me, come se cercasse qualcuno; poi, piangendo, mi disse: – Se la forza della tua mente é tanto grande da permetterti di andartene per l’Inferno ancora vivo, dov’è mio figlio? Perché non è insieme a te? –
Le sue parole e il tipo di pena a cui era sottoposto me lo avevano fatto riconoscere subito: era Cavalcante dei Cavalcanti, il padre del mio grande amico Guido. Fra lui e Farinata, cera un rapporto di parentela, anche se acquisita: Guido aveva infatti sposato una delle figlie del capo ghibellino.
– Non é la mia volontà – gli risposi – e neppure la mia capacità intellettuale a permettermi questo viaggio. La mia guida, Virgilio, che, come vedete, mi sta aspettando là, mi sta conducendo, se mai riuscirò ad arrivarci, a Beatrice, a quella fede che tanto il vostro Guido disprezzò. –
Si alzò di scatto e gridò: – Come hai detto? Disprezzò? Ma allora, non é più fra i vivi? I suoi occhi non vedono più la dolce luce del sole? –
Non gli risposi subito, bloccato da un senso di discrezione e di perplessità. Allora lui, quando si accorse della mia esitazione, si lasciò cadere di nuovo dentro la tomba e non riapparve più.
Durante il mio colloquio con Cavalcante, Farinata non si era mosso né aveva mutato atteggiamento, come se neanche sentisse il nostro dialogo.
Non appena il padre di Guido ricadde nella tomba, riprese il suo discorso di prima, esattamente dal punto in cui l’intervento di Cavalcante l’aveva interrotto.
– Se, come mi dici, gli uomini della mia parte politica non sono stati più in grado di rientrare a Firenze, questo è per me un tormento più doloroso persino di quello che patisco qui, in questa tomba. Sappi, comunque, che, fra poco più di quattro anni, anche tu saprai quant’è duro non poter tornare nella propria città. –
Che cosa significava quella profezia? Non avevo avvertito nelle sue parole né ritorsione né minaccia, ma piuttosto una sorta di compatimento nei miei confronti.
Che non ci fosse astio in lui, lo dimostrò il fatto che, subito dopo, mi augurò di poter tornare presto nel dolce mondo.
Mi domandò poi se sapessi le ragioni del trattamento spietato che, poco dopo la sua morte, i Fiorentini avevano riservato a quelli della sua famiglia. In effetti, contro gli Uberti i miei concittadini, dopo il trionfo dei Guelfi, si erano dimostrati assai poco teneri; erano stati esiliati, le loro case distrutte, le loro tombe violate e i morti gettati in Arno.
– Il ricordo – gli risposi – della carneficina di Montaperti, quando persino il fiume Arbia si colorò del rosso del sangue dei Fiorentini, ha fatto prendere simili decisioni nelle assemblee della nostra città. –
Sospirò e scosse la testa. – Non fui io solo – disse – a compiere quella strage: altri Fiorentini ne furono come me responsabili. Quando invece, dopo la vittoria, gli altri Ghibellini decisero di distruggere Firenze, fui io soltanto a oppormi, io soltanto salvai la mia città. –
La passione politica di quel grande uomo e il suo amore per Firenze mi avevano commosso. Gli augurai che i suoi discendenti potessero un giorno trovare pace e rientrare dall’esilio.
Ora, però, volevo che mi chiarisse una cosa: sembrava che i dannati potessero prevedere il futuro, mentre, come potevo dedurre da certe parole sue e di Cavalcante, pareva che non conoscessero il presente.
– Noi – rispose – vediamo come i presbiti: ci sono chiare le cose future, mentre, quando esse si avvicinano al presente, diventano sempre più sfocate e svaniscono del tutto quando sono attuali. Puoi capire, dunque, che dopo il Giudizio Universale, quando sarà per sempre chiusa la porta del futuro e tutto sarà immodificabile presente, la nostra conoscenza sarà del tutto estinta. –
Fui allora preso dal rimorso per il dolore che, prima, avevo involontariamente provocato a Cavalcante, non rispondendogli subito. Dovevo rimediare.
– Vi prego – dissi a Farinata – dite a quell’anima ricaduta nella tomba che suo figlio è vivo e che, se poco fa ho esitato a rispondergli, era perché avevo in testa il dubbio che ora voi mi avete chiarito. –
Era tempo di lasciare Farinata. Virgilio mi stava già richiamando ai doveri del mio viaggio.
Domandai allora al dannato di dirmi rapidamente quali dannati si trovassero con lui in quella tomba.
Mi rispose che erano più di mille; mi fece il nome dell’imperatore Federico II di Svevia, del cardinale Ottaviano degli Ubaldini e di nessun altro. Poi, rientrò nel suo sepolcro.
Raggiunsi Virgilio. Pensavo e ripensavo alla oscura profezia di Farinata.
Il mio maestro si accorse del mio turbamento e me ne domandò il motivo.
Glielo rivelai e lui mi disse di tenere a mente quello che avevo udito: in Paradiso, un’anima, in grado di vedere, in quanto beata, tutto il futuro, mi avrebbe svelato in modo chiaro e completo il mio destino.
Poi, ci avviammo per un sentiero verso il centro del cerchio, lasciandoci alle spalle le mura della città di Dite. Avvertivamo uno spaventoso fetore che, proveniente dal basso, arrivava fino a noi.