Le nove Muse erano preposte alle arti; Calliope all’epica e, più in generale, alla poesia elevata. Nelle Metamorfosi Ovidio racconta che le figlie di Pierio, re della Tessaglia, osarono sfidare le Muse nel canto, ma furono vinte da Calliope e, per punizione, trasformate in gazze (Piche).
Uscito dal buio dell’Inferno, Dante vide con gioia un cielo limpido e azzurro. Il pianeta Venere brillava a oriente, velando con il suo splendore la luminosità della costellazione dei Pesci (siccome questa precede immediatamente quella dell’Ariete, nella quale si trova il sole nella finzione del viaggio, Dante esce dal cunicolo infernale poco prima dell’alba del 27 marzo 1300). Poi volse lo sguardo verso destra e nel cielo dell’emisfero australe vide quattro stelle, che fino a quel momento erano state osservate solo da Adamo ed Eva, e si rammaricò che il nostro emisfero non potesse godere di quella visione (sulla cima della montagna del Purgatorio, che sorge in mezzo all’oceano nell’emisfero meridionale, esattamente agli antipodi di Gerusalemme, è situato il Paradiso terrestre: nessun uomo, dalla cacciata dei progenitori, era più entrato in quel luogo di perfezione e aveva potuto vedere quelle stelle, simboleggianti le virtù cardinali – prudenza, giustizia, fortezza, temperanza – infuse da Dio nei primi uomini). Distolto lo sguardo, e giratosi un poco verso l’emisfero settentrionale, nel cui cielo però non scorse l’Orsa Maggiore, nascosta dietro l’orizzonte (perché lui si trovava al di qua dell’equatore), ecco apparire vicino a lui un venerabile vegliardo tutto solo. Aveva una lunga barba brizzolata e lunghi capelli, brizzolati anch’essi, che gli scendevano in due fasce sul petto; la sua faccia era illuminata dai raggi delle quattro stelle. Sommuovendo la barba nel parlare, chiese a Dante e Virgilio chi fossero, come fossero fuggiti dalla prigione infernale, chi li avesse guidati, quale luce avesse indicato loro la strada per uscire dal buio della voragine. «È dunque possibile infrangere le leggi infernali» continuò il vegliardo «o il cielo ha cambiato la legge che vieta ai dannati di raggiungere la montagna di cui sono il custode?»
Parla l’anima di Marco Porcio Catone, detto l’Uticense (95-46 a.C.). Uomo di vita integerrima, inflessibile repubblicano e perciò irriducibile avversario di Cesare, si tolse la vita in Utica, vicino a Cartagine, dopo che l’armata anticesariana di cui era uno dei condottieri era stata definitivamente sconfitta a Tapso. Nei primi due canti sembra svolgere il ruolo di guardiano del Purgatorio.
Virgilio, che lo aveva riconosciuto, subito costrinse Dante a inginocchiarsi e ad abbassare gli occhi, poi rispose che non veniva di propria iniziativa ma su incarico di una donna beata (Beatrice) scesa dal Cielo per pregarlo di soccorrere l’uomo che era lì con lui. Queste parole sarebbero bastate, ma Virgilio, per cortesia, volle rispondere a tutte le domande di Catone, e perciò proseguì dicendo che il suo compagno non era morto, ma a causa della sua follia era stato sul punto di morire. Proprio per salvarlo, come già gli aveva detto, era stato mandato da lui. E per salvarlo non c’era altra strada che quella sulla quale si era incamminato: già gli aveva mostrato i dannati dell’Inferno, adesso intendeva mostrargli le anime che si purificano sotto la sua giurisdizione. Lo aveva condotto a lui aiutato da un potere superiore, e perciò lo accogliesse di buon grado: quell’uomo andava cercando libertà, quella libertà che è tanto preziosa come sa chi per lei rinuncia perfino alla vita. E lui, Catone, lo sapeva bene, lui che in Utica, dove aveva lasciato il corpo che risplenderà di gloria il giorno della resurrezione, per la libertà aveva scelto di morire. Nessuno di loro due aveva infranto le leggi eterne: il suo compagno era vivo e lui, morto, non era tra i dannati soggetti alla giurisdizione di Minosse (il giudice infernale che assegna ai peccatori il luogo della pena), ma si trovava in quel cerchio nel quale era anche la sua casta Marzia (il Limbo, primo cerchio dell’Inferno, dove soggiornano le anime dei giusti non battezzati o che non conobbero la fede cristiana). Marzia, a giudicare dall’aspetto, sembrava che ancora lo scongiurasse di considerarla sua: per amore di lei lo pregava di accondiscendere alle loro richieste, di lasciarli salire per le sette cornici del monte di cui era custode. Se si degnava che il suo nome venisse pronunciato giù nell’Inferno, con gratitudine avrebbe riferito a Marzia ciò che lui aveva fatto per amor suo.
Marzia aveva sposato Catone ma poi, consenziente il marito, era stata ceduta in matrimonio all’oratore Quinto Ortensio; rimasta vedova, aveva pregato il primo marito di riprenderla in moglie, e lui aveva acconsentito alla sua richiesta. Dante racconta questo episodio, letto nella Farsaglia di Lucano, anche nel quarto libro del Convivio.
«Da vivo» rispose Catone «ho amato Marzia al punto da soddisfare ogni suo desiderio, ma adesso che dimora al di là dell’Acheronte (il fiume che segna il confine oltre il quale si apre la voragine dell’Inferno, a cui appartiene anche il Limbo) non può più commuovermi: lo stabilisce la legge promulgata il giorno in cui io uscii dal Limbo (quando Cristo risorto vi discese per liberare i giusti dell’età precristiana). Ma se, come dici, ti spinge e ti guida una donna beata, chiedimelo allora in suo nome, che tanto basta per me, e smetti di lusingarmi. Vai, dunque, ma prima cingi costui di un giunco (simbolo di umiltà) e lavagli il viso del sudiciume accumulato nell’Inferno, sarebbe sconveniente presentarsi al primo degli angeli (che Dante e Virgilio incontreranno in ciascuna delle sette cornici) con gli occhi velati di caligine. Troverai i giunchi sulla battigia della spiaggia che circonda quest’isola (sulla quale sorge la montagna): in quel terreno fangoso non potrebbe spuntare alcuna pianta che, come il giunco, non si piegasse sotto i colpi delle onde. Dopo, però, non ripassare di qua: sarà il sole che sta per sorgere a mostrarvi dove la salita al monte è meno ripida.»
Detto ciò, disparve.
Dante, che era rimasto muto in ginocchio, si sollevò e guardò Virgilio, che disse: «Seguimi, giriamoci e scendiamo in fondo alla spiaggia».
Il chiarore dell’alba vinceva l’oscurità dell’ultima ora della notte e così Dante scorse, in lontananza, il tremolio luccicante del mare. Camminavano per quel luogo deserto, desiderosi entrambi di ritornare al più presto sulla strada che saliva. Giunti che furono in un posto ombroso ancora cosparso della rugiada notturna, Virgilio allungò le mani per raccoglierne un po’ e Dante, che aveva capito la sua intenzione, gli porse le guance sporche di lacrime e così il maestro gli ripulì le gote restituendole al loro naturale colore. Poi scesero sul lido di quel mare dove mai si era spinto un essere umano capace di farne ritorno (anche Ulisse vi aveva fatto naufragio). Lì Virgilio cinse Dante di un giunco e, con stupore, videro che un altro giunco era subito nato, del tutto uguale a quello divelto e nel punto esatto in cui era stato divelto.»
tratto da Il racconto della Commedia. Guida al poema di Dante di Marco Santagata, Mondadori