Nel Paradiso terrestre era da poco passato il mezzogiorno (del 30 marzo): Beatrice fissava il sole intensamente; di riflesso, anche Dante aveva fissato gli occhi sul sole. Benché ne avesse sostenuto la vista molto più a lungo di quanto avrebbe potuto fare sulla Terra, alla fine fu costretto a distogliere lo sguardo, ma non prima di aver visto il suo disco sfavillare tutt’intorno a sé come fosse un ferro incandescente estratto dal fuoco. Ed ecco che alla luce del giorno se ne era aggiunta un’altra, quasi che Dio avesse adornato il cielo di un secondo sole. Beatrice teneva gli occhi fissi al cielo; Dante, distolti i suoi dal sole, li teneva fissi su di lei. Nel guardarla si sentì interiormente trasformare, come il pescatore Glauco, nel mangiare l’erba miracolosa, si era sentito uguale agli dèi marini.
Ovidio nelle Metamorfosi racconta che Glauco, pescatore della Beozia, avendo visto che i pesci da lui deposti sulla spiaggia, dopo aver mangiato una certa erba, riprendevano vita e si rituffavano in mare, volle lui pure assaggiare quell’erba: subito sentì di stare mutando natura, si immerse nel mare e divenne una divinità marina.
Con le parole – nota Dante autore – non è possibile esprimere come l’uomo trascenda i limiti della propria natura, e perciò ai cristiani basti l’esempio mitologico: a loro, infatti, Dio concede di fare diretta esperienza di ciò. Solo Dio, che con la sua luce lo rapiva in alto, – continua – poteva sapere se egli stava salendo unicamente con l’anima o anche con il corpo.
Colpito dal suono armonioso prodotto dalla rotazione delle sfere celesti, Dante volse gli occhi da Beatrice al cielo: la luce ardente del sole ne incendiava una gran parte. Quell’armonia mai prima udita e quella grande plaga luminosa lo stupirono e suscitarono in lui un acuto desiderio di conoscerne la causa. Stava per chiedere spiegazioni a Beatrice, ma essa, sorridendo, lo prevenne: «Non capisci perché pensi ancora di essere sulla Terra, e invece stai volando al cielo più velocemente di quanto un fulmine non ne discenda».
Il breve discorso di Beatrice calmò, sì, lo stupore che Dante aveva provato, ma suscitò in lui un dubbio.
«Come posso salire con il corpo attraverso l’aria e il fuoco?» chiese.
Beatrice, compassionevole, lo guardò come una madre guarda un figlio ammalato che delira, e disse: «Tutte le cose create sono ordinate fra loro, e in ciò gli angeli e gli uomini riconoscono l’impronta di Dio. È lui il fine supremo a cui tende l’ordine universale. Nell’immensa e molteplice vita dell’universo, però, le cose create, a seconda che siano più o meno vicine a Dio, tendono a fini diversi obbedendo a un impulso naturale che le guida: è questo istinto a indirizzare il fuoco verso il cielo della Luna, a imprimere il moto vitale negli animali, a tenere unita e compatta la Terra. Anche le creature dotate di intelletto e di volontà seguono il loro impulso naturale, ed è alla pace abbagliante del cielo Empireo, meta della piena felicità, che l’istinto le porta. E proprio là noi siamo diretti. È vero, può capitare che gli uomini, essendo provvisti del libero arbitrio, deviino dalla loro naturale traiettoria e, attirati da una falsa immagine di bene, invece di salire verso il Cielo, come li spingerebbe l’impulso primario al bene, si volgano verso la Terra. Ma tu sei libero da ogni impedimento peccaminoso, e perciò non ti puoi stupire se sali al cielo, anzi, sarebbe stupefacente che tu fossi rimasto immobile giù sotto (nel Paradiso terrestre)».
Dette queste parole, Beatrice rialzò il viso al cielo.
tratto da Il racconto della Commedia. Guida al poema di Dante di Marco Santagata, Mondadori