Sapremo subito che è notte; a tempo debito, che è una notte di luna piena. Nel IV libro del Convivio «lo punto sommo» della vita dell’uomo è fissato «nel trentacinquesimo anno» d’età, in base al calendario della vita di Cristo, alle stime mediche correnti, e a una congiura di simboli numerali. Nella selva oscura Dante si ritrova dunque intorno ai trentacinque.
L’anno di Grazia – e scusami se riepilogo lo stranoto – è il 1300, come constateremo più avanti e come, d’altronde, la data di nascita dell’autore (1265) ci consentirebbe di stabilire fin d’ora; la notte è quella del Venerdì Santo, che nel 1300 cadde sull’8 aprile (ma c’è chi opta per il 25 marzo: se ne discute da secoli). Siamo, comunque, in prossimità dell’equinozio di primavera.
Il luogo, invece, è un luogo geograficamente indeterminato dell’emisfero boreale, distante da Gerusalemme il raggio massimo dell’imbuto dell’inferno. In termini figurati, sappiamo però che questa selva selvaggia e aspra e forte (cioè, compatta, impenetrabile), difficile da rappresentare quanto spaventosa da ricordare, significa un periodo torbido e infelice della vita dell’autore e, insieme, una fase di disordine istituzionale e di degradazione morale della sua Firenze, dell’Italia, dell’universo cristiano.
Selva così amara, che la morte non è molto più amara. Quale morte? la morte eterna cui l’anima approda dopo un lungo bighellonaggio nel peccato? o magari anche la morte corporale, che l’autore aveva avuto qualche buon motivo per temere negli anni intercorsi fra la data del viaggio oltremondano e il giorno in cui scrisse questi versi? Per ora contentiamoci di dire: la morte. E solo per trattare del ben che finì per trovarvi – e sarà, questo bene, la salutare consapevolezza delle proprie colpe, il recupero della ragione, o qualcosa del genere – …solo per trattare di questo bene, il poeta afferma di prestarsi a menzionare anche le spaventevoli visioni che lo visitarono in quella selva oscura. O, per l’esattezza, sull’orlo di quella selva.
Infatti, se Dante-poeta non sa dirci come fece a cacciarsi nella tetra boscaglia, tale era il suo torpore nel momento in cui lasciò la diritta via (dice che ci si ritrovò, e basta), non ci dirà nemmeno come fece a venirne fuori. E il racconto inizia proprio nel momento in cui Dante peccatore itinerante, sbucato appena dalla valle boschiva che gli aveva trafitto (compunto) il cuore di paura, si affaccia su una piaggia spoglia e deserta, guarda in alto, e scorge il crinale di un colle vestito dalle prime luci dell’alba, cioè dai raggi del pianeta / che mena dritto altrui per ogne calle.
Naturalmente si tratta del sole, che nella cosmologia geocentrica di Tolomeo, cui Dante e il suo tempo si attenevano, figura quarto dei sette pianeti che ruotano intorno alla terra. E tanto vale dirci subito che, nella simbologia cristiana, il sole significa (o forse significava) la grazia divina, la quale orienta gli uomini alla felicità, per qualsiasi sentiero si siano incamminati, insomma, qualsiasi tipo di attività svolgano rettamente a questo mondo. […]
Adesso un po’ si acquieta la paura che s’era depositata nel lago del cor, cioè nel fondo concavo del cuore del pellegrino per tutta la notte che aveva trascorso in tanto sgomento (in tanta pièta). E sul momentaneo sollievo fiorisce la prima similitudine della Divina Commedia, famosa: «E come quei che con lena affannata… come colui che, col fiatone, scampato appena al mare in burrasca e approdato sulla riva, si gira verso l’acqua minacciosa e guata (e la sbircia angosciato)», così il suo animo, in cui perdurava l’istinto di fuga, si volse indietro a rimirar lo passo / che non lasciò già mai persona viva. Il pellegrino sosta un attimo a riposare il corpo spossato. Poi subito lo vediamo avviarsi per il brullo falsopiano che precede l’erta del colle, zoppicando controluce. […]
Inutile nasconderci che, uscendo dalla allegorica selva, ci siamo immessi in un labirinto di allegorie. Si vorrebbe almeno sapere che cosa valga, allegoricamente parlando, questo passo letale, che non è mai stato traversato, superato, forzato da essere umano in carne ed ossa (sempre che ‘persona viva’ significhi proprio questo…).
Accolta con la massima circospezione l’ipotesi preliminare che, in termini fisici, il ‘passo’ non sia tanto l’inestricabile selva, quanto il passaggio dalla selva alla piaggia deserta, prendiamo atto che varcarlo e, affardellati dal corpo come affardellato è Dante, scalare il bel colle (o dilettoso monte) è proibito, anzi, è impossibile. E anche se Dante, bene o male, lo ha varcato – esperienza senza precedenti –, vedremo subito che, così su due piedi, la scalata non riuscirà nemmeno ad avviarla.
Ora, a quanto pare, il colle – o, meglio, il suo crinale profilato dalla luce – è figura allegorica della vita contemplativa…
Un attimo: la parola ‘contemplazione’ con i suoi derivati tornerà molto spesso nel nostro discorso, ma vale forse la pena di specificare subito come nel lessico di Dante non abbia il senso di «imbambolamento estatico» che ci verrebbe fatto di assegnarle. Trasferita nel nostro, di lessico, significherà qualcosa come: ‘la vita dello spirito, la disinteressata azione del pensiero, la felicità mentale che procura l’apprendimento di frammenti di verità’, prima di significare, più tecnicamente, ‘la visione di Dio, di cui fruiscono angeli e beati’… senza che l’un significato escluda l’altro.
Dicevamo: se la cima del colle è figura allegorica dell’attività contemplativa, il famoso «passo» dovrebbe allegoricamente significare il transito diretto dalla vita di peccato (la selva) alla «contemplazione». […]
Appena il nostro si avvia, gli si para davanti, materializzata dal nulla, l’immagine di una lonza snella, svelta e di pelo maculato. E gli taglia la strada, tanto che lui è più volte tentato di tornare sui suoi passi. Ma l’ora mattutina e la dolcezza della stagione – seguita la favola – per un momento lo rinfrancano e gli lasciano sperar bene di quella fiera dalla pelle elegantemente screziata (a la gaetta pelle: fra i tanti gallicismi che costellano il canto, questo è un gallicismo doppio: insomma, un provenzalismo aggravato da un francesismo). Insomma, il sole sta crescendo sull’orizzonte in congiunzione con la medesima costellazione cui era congiunto quando, per puro atto d’amore, Dio impresse, creandole, il primo moto alle cose belle del firmamento (alle stelle, cioè) […].
Dunque, l’ora e la stagione rinfrancano il pellegrino… ma non tanto – seguita la favola – non tanto che non lo atterrisca la vista di un leone che gli si fa incontro a testa alta, furente di fame, così che l’aria stessa pare tremarne; e quella di una lupa, che nella sua magrezza sembrava oppressa da bramosie d’ogni genere. Con l’orrore che sprigiona il suo aspetto, questa lupa, che molte genti fé già viver grame (diremmo noi: che da sempre rovina la vita a un sacco di gente), affiorata anche lei dal nulla come dal fondo catramoso di un incubo, trasmette a Dante tanto di gravezza, insomma un tal carico d’angoscia, che egli… «ch’io perdei la speranza de l’altezza». Verso semplice e supremo.
È pacifico che le tre fiere, che costituiscono un ostacolo proibitivo per l’ascesa del colle, cioè per il pentimento e la completa conversione del peccatore, siano emblemi di un bestiario allegorico. Meno pacifica è l’assegnazione ad ogni singolo animale di uno specifico vizio, o peccato, o mala disposizione. Tanto varrà rimetterci alle interpretazioni più antiche e conclamate, che sembrano le meno tortuose, e non è affatto detto siano le più banali.
Così la lonza, che dovrebbe essere una lince o, magari, un ghepardo (per quel che vale l’informazione, risulta che un felino di questa risma fosse esposto ai cittadini di Firenze nel palazzo del Comune, quando Dante aveva vent’anni)… la lonza, dunque, elegante e maculata, significherebbe la Lussuria; il leone rabbioso, la Superbia; la lupa, l’esosa e insaziabile Avarizia.
Ma c’è chi insiste sul significato politico delle tre fiere, e punta specialmente sulla lupa, la quale, d’altronde, col suo apparire cancella le altre due e sembra, in qualche modo, compendiarle. Potrebbe essere, questa bestia senza pace, un’altra figurazione di Firenze, sbranata dalla propria cupidigia; potrebbe, forse meglio, essere la Curia di Roma, tanto più che, a suo tempo, Dante aveva sicuramente visto di persona la famosa lupa capitolina […].
Davanti alla lupa, il pellegrino Dante batte dunque in ritirata. E, nello stato d’animo di chi, avaro o giocatore d’azzardo, non pensa che ad accumulare (volontieri acquista), e quando arriva il momento che perde tutto, piomba in una tetraggine ossessiva… insomma, in uno stato d’animo di questo genere, egli si vede risospinto da quella bestia ingorda e irrequieta nell’oscurità della selva: là dove ’l sol tace.
Non un rumore, fin qui: il buio è silenzio del sole. Tacciono anche le immagini. E se, nella rovinosa ritirata, si offre d’improvviso alla vista di Dante-pellegrino una figura soccorrevole, Dante-poeta la ricorda, con una correlazione acustica, come qualcuno che per lungo silenzio parea fioco: cioè, forse, come una figura umana che appariva fievole, indefinita, scontornata, quasi affiorasse da una lunga assenza. Appena la scorge nel deserto della piaggia, il pellegrino grida: “Abbi pietà di me, chiunque tu sia, od ombra od omo certo (concreto, in carne ed ossa)!”.
Piana e minuziosa, l’ombra risponde: “Non sono uomo, fui uomo. I miei genitori erano dell’Alta Italia (questo significava ‘lombardi’), mantovani tutti e due. Nacqui sotto Giulio Cesare, ancor che fosse tardi; e vissi a Roma sotto il grande Augusto, al tempo de li dèi falsi e bugiardi (in tempo di paganesimo, cioè). Fui poeta, e cantai di Enea, il giusto figlio di Anchise, il quale venne da Troia dopo l’incendio della rocca superba della città (del superbo Ilïon). Ma tu perché torni indietro? Perché vuoi ricacciarti in tanta noia (nell’italiano antico ‘noia’, spalleggiato dal provenzale ‘enojar’, aveva significati molto più tormentosi che non oggi)? Perché non tenti la salita del dilettoso monte, principio e causa di compiuta felicità?”. […]
È – chi non lo sa? – l’anima scorporata di P. Virgilio Marone, sommo poeta latino, nato ad Andes, in quel di Mantova, 70 anni prima di Cristo. A spiegare il ‘Nacqui sub Iulio, ancor che fosse tardi’, ricorderai come, quando Cesare fu assassinato (44 a.C.), Virgilio, da poco sistematosi a Roma, fosse ancora alle prime armi: metterà mano alle Bucoliche un paio d’anni dopo e, in effetti, tutta la sua produzione poetica fiorirà nell’egida di Ottaviano Augusto. Ma per cominciare a capire il ruolo crucialissimo che coprirà nel libro che stiamo leggendo, sarà bene tu tenga conto da subito che la leggenda medievale accreditava Virgilio d’un sapere così sconfinato ed arcano da rasentare la magia nera, e tuttavia percorso da un brivido premonitore della Buona Novella.
Per intanto, Dante l’ha riconosciuto, e avvampa di venerazione: “Sei tu quel Virgilio, quella copiosissima sorgente di eloquenza?”. E si raccomanda: “O de li altri poeti onore e lume, l’assiduità e la passione con cui ho letto e riletto e rovistato il tuo libro mi valgano la tua benevolenza”.
Virgilio non gli è solo maestro, ma anche autore (parola-chiave del lessico dantesco, che per ora semplificheremo in ‘autorevole fonte di verità’); ed è il poeta con cui Dante si sente in debito del bello stilo che gli ha fatto onore.”
Bello stilo’, si noti, è termine tecnico, e vale ‘stile tragico’. Nel De Vulgari Eloquentia Dante scheda tre livelli stilistici: il ‘tragico’ o illustre, il ‘comico’ o medio, l’‘elegiaco’ o dimesso. Al ‘tragico’, che esige gravità di pensiero e splendore di versificazione, si addicono solo argomenti elevati e difficili. Somma tragedia è l’Eneide. E ‘tragico’, cioè ‘illustre’ o – come qui si semplifica – ‘bello’ è anche lo stile delle canzoni sapienziali e morali che Dante aveva dettato nella prima maturità. […]
Procediamo nella favola. Dante addita a Virgilio la lupa, e lo supplica di salvarlo da quella bestia, che gli fa tremare le vene e i polsi (diremmo noi: ‘il sistema cardiovascolare’). E, tremando, il nostro si mette a piangere.
Virgilio lo conforta con circostanziata eloquenza: “Se vuoi scampare a questa selva senza incappare nella lupa, devi tenere altro vïaggio (eccolo qui, l’«ottimo cammino»!). Infatti, questa bestia che ti fa gridare aiuto, non lascia altrui passar per la sua via (diremmo: ‘non si lascia attraversare la strada da chicchessia’), anzi, tanto lo ostacola, che l’uccide. Ha indole così perfida e dannata che non si sazia mai, e dopo il pasto ha più fame di prima. Molti sono gli animali con cui s’ammoglia, e saranno sempre di più, finché non verrà il veltro, che la farà morire straziandola”.
E chi sarà mai, questo veltro ammazza-lupa?
Virgilio fin qui si è espresso con grande chiarezza, in modo molto piano. E quantunque la lupa di cui sta parlando sia quel groppo di allegorie che quasi sette secoli non son bastati a sbrogliare del tutto (chi siano, ad esempio, i molti animali con cui s’accoppia, se vizi o persone, non è ancora assodato), questa lupa, almeno, è anche la bestia patita e affamata che la paura di Dante ci lascia intravedere… Il veltro, no: è un puro emblema, nascosto nell’oscurità deliberata della profezia: “Questi non ciberà terra né peltro, / ma sapïenza, amore e virtute, / e sua nazion sarà tra feltro e feltro”…
Il veltro, d’accordo, in natura, è una specie di levriero da caccia agile e spietato, provetto cacciatore di lupi. Ma se i requisiti imperscrutabili che il poeta gli accredita non producono immagine, come potremo mai sapere con sufficiente certezza a cosa alluda, a chi? Chi caccerà dall’Italia e dal mondo cristiano la cupidigia che li deturpa? un imperatore? o quel tal principe ghibellino? o un qualche ordine di frati mendicanti? o, magari, Dante stesso, come ormai sostiene più d’uno con accanita dottrina?
Tuttavia sull’identità di questo redentore dell’ordine terreno, peraltro oscuramente e ostinatamente pronosticato da tutto il profetismo mistico del Duecento, i più preferiscono ormai non pronunciarsi. Preferiscono, anzi, pensare che lo stesso Dante non intendesse alludere a una persona storica determinata. Dopotutto, fra tante profezie che costellano la Divina Commedia, questa è forse l’unica che riguarda un evento non ancora accaduto nel momento in cui Dante scrive: insomma, l’unica profezia vera e propria: la Profezia di Dante. […]
Di sicuro, questo veltro è destinato a salvare quell’umile Italia (‘umile’, che nel virgiliano ‘humilis Italia’ indica la piattezza della costa salentina che i profughi troiani vedono affiorare appena dall’acqua, qui varrà ‘misera, oppressa’), per la quale Italia morirono in battaglia gli eroi della mitica guerra fra Italici e Troiani: guerra che Virgilio canta nell’Eneide, e qui commemora intrecciando con imparziale pietà i nomi dei vinti con quelli dei vincitori (la vergine Cammilla, / Eurialo e Turno e Niso…). E di sicuro, questo veltro incalzerà la lupa di borgo in borgo (per ogne villa, altro francesismo), finché non l’avrà ricacciata nell’inferno, là onde ’nvidia prima dipartilla, da cui, in altre parole, l’ha scatenata all’inizio dei tempi l’invidia: l’Invidia per antonomasia: l’invidia di Lucifero.
Qui Virgilio comunica a Dante di aver preso per il suo bene (per il tuo meglio: per lo tuo me’) la ponderata decisione di condurlo attraverso spazi senza tempo, nei quali udrà strida disperate, e riconoscerà gli antichi spiriti dolenti che invocano la seconda morte, cioè, forse, l’annientamento definitivo nello stagno di fuoco che il libro dell’Apocalisse promette ai dannati come estremo e disperato sollievo.
Lungo il viaggio, Dante vedrà anche coloro che, nelle fiamme del purgatorio, espiano in letizia le proprie colpe, perché contano di essere assunti, presto o tardi, fra le beate genti. “Per salire alle quali”, conclude il famoso saggio, “sempre che tu abbia l’ardire di desiderarlo, avrai bisogno d’una guida più degna di me. Con lei ti lascerò, congedandomi. Infatti, l’imperatore che lassù regna – dacché, se l’impero di Dio spazia dappertutto, in cielo è la sua reggia, è il suo trono – non vuole che io acceda alla città celeste, poiché fui ribellante (diciamo ‘renitente’) alla sua legge. Felice chi Dio sceglie per il suo regno!”.
E Dante incalza trafelato: “Poeta, ti supplico, per quel Dio che tu non hai conosciuto: scampami da questo male e, peggio, dalla dannazione. Conducimi dove hai detto, così ch’io possa vedere la porta di san Pietro, e coloro che mi hai rappresentato immersi in tanta disperazione”.
L’antico poeta si muove […]. Se per ‘porta di San Pietro’ qui s’intenda, come par proprio, la porta del purgatorio (anche se, come vedremo, sulla porta del purgatorio non c’è nessun san Pietro) o quella del paradiso (dove, come vedremo, non ci sono porte), è l’ultimo e forse il più blando dei mille dilemmi innescati da questo primo canto di Commedia».
tratto da L’Inferno di Dante di Vittorio Sermonti, Garzanti