
Quali vicende segnarono la sua esistenza?
Premetto che della vita di Calderón non sappiamo moltissimo, perché non conserviamo – come invece nel caso di Lope de Vega – un suo epistolario, né il drammaturgo aveva l’abitudine di alludere a fatti della vita privata nelle sue opere. Abbiamo solo alcuni documenti, che però ci danno notizia di circostanze e vicende che sicuramente ebbero un impatto importante sulla vita di Calderón. Cominciamo col dire che, fra gli otto e i quindici anni, Pedro visse una sequenza di eventi traumatici che sconvolsero la sua famiglia: dapprima il fratello maggiore, di soli dodici anni, partì per il Messico; due anni dopo la madre morì di parto; l’anno seguente la sorella Dorotea, appena tredicenne, entrò in convento; ancora l’anno dopo muore la nonna materna, che pare avesse aiutato economicamente e affettivamente gli orfani; il padre si risposa, ma dopo solo un anno a sua volta muore. Dal testamento del padre di Calderón si è dedotta l’esistenza di una relazione tesa tra il genitore e i figli, che – si è pensato – potrebbe aver influito sul giovane Pedro, visto che spesso al centro delle sue opere figura il conflitto tra un giovane ribelle e un genitore autoritario e crudele.
Certamente in gioventù Pedro Calderón fu un giovane poeta abbastanza scapestrato e bohémien, benché ben introdotto negli ambienti della corte; molto legato ai due fratelli Diego (rientrato poi dal Messico) e José; non molto ricco, anzi spesso con problemi di soldi che, come dice lui stesso in un poema satirico, gli impediscono di sposarsi, ma non di avere amanti… Ricordiamo poi, tra le vicende che certamente lo segnarono, l’esperienza della guerra in Catalogna, fra il 1640 e il 1642; la morte nella stessa guerra dell’amato fratello José; la nascita di un figlio, avvenuta tra il 1648 e il 1650, dunque già in età matura. Il mistero in questo caso è fittissimo, perché non sappiamo chi fosse la madre, né che rapporto mantenesse il drammaturgo con questo bambino, che venne cresciuto dal nipote di Calderón ma morì prima di aver compiuto dieci anni. Del resto nel 1650 Calderón si era deciso a prendere i voti sacerdotali, soddisfacendo così molti decenni dopo una clausola del testamento di sua nonna che condizionava il lascito di un vitalizio allo status di religioso. Forse fu indotto a questo passo anche dalla necessità di garantire al figlio una certa sicurezza economica? Non lo sappiamo e non lo sapremo mai.
Quale ricchezza di registri caratterizza le opere di Pedro Calderón de la Barca?
Una ricchezza davvero grande, se si considera non solo l’insieme della sua produzione, ma anche ogni singola opera: infatti la formula del teatro barocco prevede che tra i personaggi ci siano sempre alcuni subalterni (il servo, la domestica) il cui linguaggio e i cui codici di comportamento sono radicalmente diversi da quelli dei protagonisti. Sono questi personaggi che si fanno carico della comicità, soprattutto quando l’azione principale è tragica o comunque seria ed esemplare, e ciò in aperta violazione della precettistica neoaristotelica che tendeva a separare radicalmente comico e tragico; un tratto che peraltro si osserva anche nelle tragedie di Shakespeare. Bisogna poi ricordare che questo è un teatro integralmente in versi, ma che non sceglie un unico tipo di verso, come avviene per esempio nella tragedia italiana o francese dello stesso periodo; la varietà di versi e di strofe usate nell’opera contribuisce alla ricchezza di registri poetici. Infine, va considerata la gamma amplissima di sentimenti e di situazioni drammatizzate. Calderón è geniale quando crea delle trame perfette, veri congegni a orologeria, nelle commedie amorose di ambiente urbano, che vedono sempre trionfare lo spirito e l’ingegno femminili. Ma è geniale anche, e anzi tocca vertici di forza drammatica e poetica, nelle tragedie, che mostrano l’individuo preso nell’ingranaggio fatale di caso (o destino?) e sopraffazione umana, o eccessiva ambizione, combinati; a volte il protagonista o la protagonista riescono a salvarsi, grazie a un ferreo controllo di sé che risente moltissimo della lezione stoica; ma per lo più soccombono, in vicende che stringono il cuore per il loro inesorabile procedere verso la catastrofe. Decisamente da rivalutare è poi il Calderón autore delle grandi produzioni spettacolari per la Corte, quasi tutte di tema mitologico. In queste rielaborazioni del mito classico il drammaturgo dimostra una sensibilità psicologica e, direi, antropologica di grande modernità, perché fa affiorare sempre dalla ‘corteccia’ della storia mitica il suo significato più pregnante e profondo, connesso con i due grandi snodi della formazione dell’individuo: il rapporto con la madre e con il padre, e quello con l’altro da sé che implica la relazione amorosa. Chi, senza conoscerne l’opera, identifichi Calderón unicamente con la sua produzione religiosa – commedie agiografiche e autos sacramentales -, pensando magari che si tratti di un severo prete che scrive opere dottrinarie di catechesi controriformista, faticherà a immaginare quanta sensualità si esprima nelle sue commedie mitologiche, rafforzata per di più dall’accompagnamento musicale che il drammaturgo stesso prevedeva per determinati passi dell’opera. Ma del resto, anche le commedie agiografiche e gli autos sacramentales portano in scena sempre una storia d’amore: tra un uomo e una donna che sublimano in Dio il loro amore terreno nelle commedie, tra Cristo e la Natura umana negli autos. A completare la gamma di registri, infine, la comicità irriverente, infarcita di motivi scatologici e sessuali, che caratterizza gli “intermezzi” e l’unica commedia burlesca, dove questo tipo di comicità sfrenata raggiunge vette di puro gioco linguistico; opere nelle quali i codici di comportamento nobile che vigono nel resto della produzione calderoniana sono completamente capovolti, secondo la logica carnevalesca che anima questi generi teatrali ‘minori’.
Come si è sviluppata la sua fortuna?
Nel Seicento ebbero fortuna in Europa soprattutto alcune commedie di Calderón; in particolare in Francia l’adattamento de La dama duende nel 1638 lanciò una vera e propria moda della “commedia alla spagnola” con decine e decine di riallestimenti di commedie, soprattutto calderoniane; e spesso fu proprio tramite la Francia che le commedie di Calderón arrivarono a essere adattate in Italia, magari riscritte a loro volta nei canovacci dei comici dell’arte. Nel corso del ‘700 in tutta Europa la fama delle commedie calderoniane di ambientazione urbana rimane stabile, favorita anche dal nuovo clima letterario neoclassico, che vi apprezzava una certa tendenza all’unità di tempo e di luogo. Al contrario, sulle tragedie pesavano le troppe violazioni della precettistica: varietà di spazi drammatici e, a volte, estensione temporale dell’intreccio di molto superiore al canonico ‘giro di sole’; centralità di temi, come l’onore, che si consideravano ormai retrivi, e peggio ancora capaci di ispirare condotte criminali nel pubblico più sprovveduto.
La fortuna di Calderón compie un giro copernicano con il Romanticismo tedesco, quando il nostro drammaturgo viene eletto da Schlegel a sommo poeta drammatico, capace di rappresentare le tempeste dell’animo umano liberandosi dalle pastoie della precettistica (neo)classica; se ne esaltano la religiosità, il senso dell’onore, la sensibilità per le componenti magiche e meravigliose, in dichiarata polemica con l’ideologia illuminista. Anche questa è, ovviamente, una lettura parziale, un uso ideologico di Calderón, che se da un lato ha avuto il merito di far (ri)scoprire grandissimi drammi come La vida es sueño, La hija del aire, El mágico prodigioso, El príncipe constante, dall’altro ha gettato le basi di una mutilazione critica e ideologica dell’opera del drammaturgo. Da un lato, infatti, il discredito romantico della commedia ha generato fin quasi ai giorni nostri un certo disinteresse per la sua produzione comica, che molti studiosi hanno cercato di correggere maldestramente interpretando le commedie come se si trattasse di tragedie in potenza. Dall’altro, critici e politici reazionari, dalla prima metà dell’Ottocento e giù giù fino a Franco (e non mancano propaggini più attuali), hanno fatto di Calderón il campione del cattolicesimo, della diade trono e altare, del rispetto dei sacrosanti valori dell’onore e della ‘razza’… Non sarà certo un caso che, dopo la fine della dittatura e con l’inizio della transizione alla democrazia, il primo drammaturgo del Barocco a essere recuperato da studiosi che erano stati anche oppositori della dittatura sia stato Lope de Vega, più suscettibile a prima vista di essere recuperato a una lettura “di sinistra” sia per la sua vita amorosa fuori dalle regole, sia per aver scritto drammi come Fuenteovejuna, nel quale un intero villaggio assalta e uccide il signorotto feudale colpevole di abusi (non a caso, una hit teatrale nella Russia sovietica…). E pensare che anche El alcalde di Zalamea di Calderón aveva avuto un momento di grande fortuna, proprio negli anni a ridosso della Rivoluzione Francese, con un intreccio in parte analogo, nel quale il giudice contadino del titolo si vendica del nobile violentatore della figlia facendolo giustiziare in barba alle norme sulla giurisidizione separata dei militari. E pensare che García Lorca aveva scelto di portare in scena con la sua Barraca, il teatro itinerante che percorreva la Spagna rurale ai tempi della Seconda Repubblica, nientemeno che un auto sacramental calderoniano, affascinato dal suo lirismo, dalla sua capacità di dare corpo drammatico a concetti e idee, e in polemica con la piatta verosimiglianza del teatro borghese dell’epoca.
Oggi per fortuna, almeno in Spagna, Calderón è una presenza fissa nella programmazione teatrale, soprattutto con La vida es sueño, che mette d’accordo tutti, a prescindere dall’orientamento politico-ideologico (che pure si fa sentire nella diversa interpretazione del dramma).
In che modo la produzione calderoniana va messa in rapporto con le coordinate storico-culturali del Seicento?
In moltissimi modi. In primo luogo, la formazione scolastica e universitaria all’epoca era soprattutto linguistica e retorica; gli studenti imparavano a padroneggiare i registri più diversi, a costruire discorsi retoricamente efficaci, ad argomentare per sillogismi. Calderón ovviamente non fa eccezione: tutti i suoi protagonisti hanno spiccate capacità dialettiche, anche nelle discussioni più concitate non sembrano mai perdere di vista un approccio razionale, usano appropriatamente sillogismi e paragoni, fioriscono di figure retoriche i loro discorsi. Questa caratteristica può suonare artificiale al nostro gusto di oggi, soprattutto in confronto con le immagini più oscure e meno razionali di cui si serve Shakespeare. Va però compresa nel contesto dell’educazione e della cultura dell’epoca. Ed è impossibile non apprezzare il fuoco d’artificio di certi dialoghi, la pronta ritorsione nei confronti più tesi e stringenti, che aumentano di molto sia il divertimento, nel caso di commedie comiche, sia l’emotività, nel caso di drammi o tragedie.
Per riprendere anche quanto già detto in risposta alla domanda precedente, bisogna poi considerare che il teatro dell’epoca di Calderón è sottoposto a censura previa, di carattere sia politico sia religioso: qualsiasi cosa suonasse anche solo lontanamente pericolosa per l’ortodossia cattolica e per la monarchia veniva cancellata o corretta. Non si possono dunque leggere le opere teatrali dell’epoca come leggeremmo un’opera scritta e rappresentata in regime di libertà di espressione. Ma, come sa chi ha studiato le opere letterarie scritte in periodi di censura (per esempio, quelle pubblicate sotto il franchismo), non è affatto impossibile creare testi innovatori e non supinamente propagandistici in periodi simili, al contrario.
Un punto importantissimo riguarda poi il tema dell’onore, un codice di comportamento onnipresente nella produzione calderoniana. Esisteva davvero nella società dell’epoca un rispetto così puntiglioso ed esigente delle regole dell’onore? Davvero ogni minimo sgarbo generava un duello, oppure ogni minimo sospetto di infedeltà femminile generava un uxoricidio? Testi e documenti dell’epoca tendono a farci rispondere di no. Però trattandosi di un codice conosciuto da tutti, anche se non universalmente rispettato, funzionava molto bene a teatro come scatenante di situazioni di tensione e finanche di tragedia. L’onore rappresenta inoltre, nel teatro di Calderón, una fedeltà essenziale al proprio ruolo sociale anche a discapito delle pulsioni sentimentali dell’individuo. Questo è un aspetto inaccettabile per molti recettori di oggi, abituati a considerare prioritarie le esigenze e i sentimenti individuali. Bisogna saper vedere però che, per il tramite di questo codice, Calderón ci parla della necessità di superare i desideri e le pulsioni egoistiche, quando questi generano discordia e conflitto tra gli individui e nella società. Non c’è che da leggere con attenzione La vida es sueño per rendersene conto.
Quale visione parziale, spesso ideologicamente tendenziosa e filologicamente inesatta, ne ostacola ancora la fruizione?
Riprendo la risposta alla domanda n. 4. Di Calderón, più ancora che di Lope, è stato fatto un uso politico, riducendo e appiattendo la complessità della sua figura e vedendo in lui un alfiere della controriforma, del cattolicesimo, dell’alleanza fra trono e altare. Per riscattarlo da questa lettura reazionaria, e per renderlo compatibile con le regole – sempre più simili a una censura previa di segno opposto – del politicamente corretto, si sono diffuse letture del suo teatro poco verosimili da un punto di vista storico e filologico: per esempio, i drammi scritti per le rappresentazioni di corte racchiuderebbero velate critiche al monarca e a cortigiani importanti, e andrebbero lette quindi come opere a chiave; i protagonisti delle tragedie dell’onore coniugale sono personaggi spregevoli e Calderón critica in realtà le norme inflessibili del codice che guida la loro condotta; le commedie urbane amorose non sono in realtà divertenti perché le protagoniste vivono in una costrizione intollerabile e dopo il matrimonio, con il quale termina la commedia, è in agguato certamente, per loro, la morte per mano del marito geloso… Queste letture peraltro, proprio perché poco accorte dal punto di vista storico e filologico, non sono servite a restituire a Calderón l’onore perduto – mi si passi il gioco di parole – per colpa delle letture reazionarie. In Italia, poi, si aggiunge a questo problema ideologico anche il peso, ancora fortissimo in ambito culturale, del pregiudizio crociano nei confronti del Barocco. Né credo sia estranea alla generale sottovalutazione di un drammaturgo straordinario come Calderón la scarsa diffusione editoriale di buone traduzioni, nonostante gli sforzi prodigati negli ultimi decenni da tanti importanti specialisti. Scarsa diffusione che peraltro è anche, in un circolo vizioso, frutto del pregiudizio sfavorevole nei confronti di questa drammaturgia. Spero che i passi riportati nel mio libro, dei quali offro sempre anche la traduzione, possano ispirare e stimolare nuove traduzioni, senza le quali non è possibile una maggiore conoscenza di Calderón per il pubblico italiano.
Fausta Antonucci insegna Letteratura spagnola all’Università Roma Tre. Ha pubblicato edizioni critiche e traduzioni in italiano di testi di Lope de Vega, Calderón de la Barca, Cervantes, una monografia sul personaggio del selvaggio nel teatro aureo, numerosi articoli su diversi aspetti della drammaturgia spagnola del Cinque e Seicento. Ha progettato e curato una banca dati sul teatro calderoniano (Calderón Digital) e gestisce un sito (www.casadilope.it) con notizie e aggiornamenti bibliografici costanti sugli studi di teatro aureo.