
Per quanto lungo possa apparire il percorso, che va da Immanuel Kant da Adam Smith alle Nazioni unite, è possibile individuare nella politica internazionale dell’ultimo secolo un insieme di idee, teorie e pratiche di costruzione di un ordine internazionale che assume una continuità fra sistemi politici interni e sistema internazionale in nome dei diritti inalienabili dell’individuo. Alla base vi è infatti una concezione della politica e della società che pone al centro l’individuo. Società e Stato altro non sono che ‘entità sintetiche plurali’, nate per volontà degli individui, detentori di diritti soggettivi, inalienabili e imprescrittibili, precedenti e superiori a società e Stato. Di qui la centralità dei diritti umani, che devono essere tutelati dallo Stato, il quale in essi trova i propri limiti. Al tempo stesso, l’individuo del pensiero liberale non è mosso solo da egoismo e amor di sé, ma anche è anche un soggetto capace di legami sociali. Come chiarisce Adam Smith nella sua Teoria dei sentimenti morali, l’essere umano si muove per amore di sé (self-love) ed è per questo motivo che si disciplina a comportamenti che possano passare il vaglio delle aspettative sociali che lo condizionano nella necessità tutta egoistica di riconoscimento. La società è quindi il punto di partenza del comportamento dell’individuo e presupposto stesso dell’esistenza del mercato.
Nella concezione liberale della società e della politica un ruolo fondamentale è inoltre rivestito dallo stato di diritto, quel corpus normativo che limita ulteriormente l’esercizio del potere sovrano riconoscendo libertà individuali nella sfera della coscienza (libertà di pensiero, di religione, ecc.), e diritti relativi alla libertà nella sfera economica (diritto di proprietà, libertà di intrapresa economica, di commercio). Si tratta in altri termini di affermare un equilibrio tra elementi sempre potenzialmente in tensione: libertà e controllo, libertà e eguaglianza. Il regime politico che più è in grado di conciliare queste opposte esigenze è la democrazia rappresentativa, che coinvolga il maggior numero di persone a partecipare al governo (contro la tirannia della maggioranza) e ne rispetti le libertà. Quello liberale è quindi uno Stato sensibile alle regole e alle istituzioni, che tende a sviluppare anche nel contesto internazionale, facilitando in tal modo rapporti cooperativi con i propri omologhi. La tradizione liberale traccia pertanto un parallelo tra condizioni di convivenza pacifica tra gli individui e quelle che sottostanno alle relazioni fra gli stati.
L’idea che sia possibile costruire un ordine internazionale più pacifico e che porti maggiore benessere di quello che lo ha preceduto è facilmente individuabile nei due momenti fondativi dell’ordine liberale contemporaneo, alla fine delle due guerre mondiali. Il programma in 14 punti presentato da Woodrow Wilson l’8 gennaio 1918, con il quale il presidente americano presentava al Congresso i principi sui quali si sarebbero fondate le trattative di pace condotte dagli Stati Uniti alla fine della Prima guerra mondiale, si basava sulla convinzione che fosse possibile stabilire un ordine internazionale più pacifico e caratterizzato da maggior benessere per gli stati e i popoli. Le condizioni per la costruzione di un tale ordine risiedevano nella difesa della democrazia, nel rispetto del principio di autodeterminazione dei popoli, nella creazione di istituzioni globali, in una diplomazia aperta, nella libertà dei mari, nell’abbassamento delle barriere economiche e nel disarmo. Analogamente, la Carta Atlantica del 1941, una dichiarazione di principi concordata dal Presidente statunitense Franklin Delano Roosevelt e il primo ministro britannico Winston Churchill, ribadiva analoghi principi e si fondava su di un simile ottimismo circa la possibilità di progresso per il sistema internazionale tutto e non solo per le due potenze che redigevano il documento. Gli strumenti individuati dai liberali per plasmare società migliori (ossia più ricche e, soprattutto, più pacifiche) sono pertanto il diritto, l’assetto democratico degli stati, le regole che gli stati concordano tra loro dando vita ad istituzioni internazionali, i rapporti transnazionali e il commercio. Nell’analisi liberale della politica internazionale contemporanea, coerentemente con la tradizione liberale, particolare attenzione è stata data al ruolo del regime liberal-democratico interno agli stati, alle relazioni transnazionali tra paesi diversi e alla creazione di istituzioni internazionali. Queste ultime, soprattutto quando basate su vero e proprio multilateralismo (che prevede un’equa distribuzione di costi e benefici tra le parti coinvolte, principi di condotta generalizzati e reciprocità diffusa), garantiscono la stabilizzazione delle aspettative, la crescita della fiducia reciproca e il mantenimento della pace. Di centrale importanza per il pensiero liberale anche il libero commercio. Quest’ultimo, non solo crea legami fra le società che trascendono la “ragione di stato” e pongono freni al ricorso all’uso della forza da parte degli stati, ma rafforza gli incentivi economici al mantenimento di relazioni pacifiche, oltre a generare benessere e interdipendenza. Lungi dal rappresentare elementi di vulnerabilità – come invece nella tradizione realista – l’interdipendenza rappresenta un elemento positivo perché vincola alla cooperazione.
In sostanza, quindi, l’ordine liberale è un ordine esigente, che vede l’affermazione di principi analoghi nella sfera della politica interna e internazionale e che vede una relazione stretta tra dimensione politica, economica e sociale.
Quali vicende ne hanno segnato il consolidamento e la crisi?
L’ordine liberale è un ordine di chiara matrice occidentale che si inizia a diffondere inizialmente con l’espansione dei commerci delle potenze occidentali e successivamente come esito di una precisa pianificazione politico istituzionale seguita alle due guerre mondiali e si è poi trasformato in risposta a crisi internazionali generate da eventi puntuali (gli attacchi terroristici dell’11 settembre 2001, la crisi economico-finanziaria del 2007ss, la cosiddetta crisi dei rifugiati del 2015/6, e forse la pandemia da Covid_19).
Una prima forma di proto-ordine liberale si sviluppa infatti in Europa nel diciannovesimo secolo, attorno al ruolo della Gran Bretagna. Dalla fine del 18° secolo alla prima guerra mondiale si assiste a una evoluzione economica, politica e sociale che trasformerà l’Occidente nel soggetto politico dominante. È dalla fine del 1700 che si affermano in Occidente tre elementi fondamentali per l’ordine liberale: il capitalismo, la costruzione razionale dello stato, e l’ideologia del progresso. Il primo porterà alla nascita di differenze tra paesi industrializzati e non industrializzati, tra centro e periferia del sistema; il secondo vedrà l’espansione del sistema degli stati, ma anche in questo caso il rafforzamento di disuguaglianze profonde tra stati occidentali dominanti e colonie (peraltro funzionali al consolidamento della forma stato nelle potenze coloniali). La fiducia nel progresso, veicolata dall’Occidente in espansione, si radicherà poi in ideologie dalla proposta politica completamente diversa: liberalismo, socialismo, nazionalismo e ‘razzismo scientifico’, che – tutte – legittimano ‘pratiche di ‘civilizzazione dei barbari’. Questo avvio dell’ordine liberale è generalmente trascurato dalla letteratura che si occupa del tema, ma è invece particolarmente importante in quanto mostra come la costruzione dell’Occidente come soggetto politico e l’espansione di primi elementi dell’ordine liberale vadano di pari passo.
È tuttavia soltanto con lo scoppio della prima guerra mondiale che l’Occidente produce una proposta di ordine politico globale: sarà l’avvio dell’ordine liberale 1.0. Con i 14 punti di Woodrow Wilson, l’autodeterminazione nazionale, la democrazia, la diplomazia aperta e il principio di sicurezza collettiva venivano proposti per la prima volta in modo autorevole ed esplicito come alternative all’autoritarismo negli stati e all’equilibrio di potenza, in Europa e a livello globale, ponendo vincoli allo stato sovrano, istituzioni generata proprio in Occidente. La creazione della Società delle Nazioni, pur con noti limiti, costituiva il primo tentativo concreto di istaurare un’istituzione globale con il compito di risolvere le dispute tra stati attraverso il diritto e l’arbitrato. Il dibattito culminato con il trattato del 1919, nonostante le differenze anche profonde di opinioni, interessi e princìpi che dividevano le potenze vincitrici, generò una discussione senza precedenti riguardante la necessità di costruire un ordine internazionale che desse maggiori garanzie di pacificità. L’ordine scaturito dal Trattato di Versailles è generalmente ricordato dagli storici e dagli studiosi di relazioni internazionali soprattutto per il suo generale fallimento, che ha poi condotto al ritorno della politica di potenza, all’ascesa del revisionismo nazista e fascista, e, infine, alla Seconda guerra mondiale. Eppure, nonostante i suoi limiti e il suo fallimento, l’eredità della Pace di Versailles e del tentativo di costruire un ordine internazionale liberale avrebbe avuto un significato storico e politico fondamentale per la politica internazionale.
L’ordine internazionale liberale nella sua forma matura ha infatti preso l’avvio da quell’ordine 1.0 pianificato da Wilson. Costruito dopo il 1945, a seguito della seconda guerra mondiale, l’ordine liberale 2.0 è stato il risultato di una serie di accordi e trattati diversi, che sono stati raggiunti tra il 1941, a ostilità ancora in corso, e i primi anni Cinquanta. Alcuni principi fondamentali erano già presenti nella Carta Atlantica sopra menzionata. Nel documento i due leader anglosassoni assumevano impegni per i propri paesi e tracciavano principi per il futuro ordine mondiale: divieto di espansioni territoriali, autodeterminazione, pace intesa come libertà dalla paura e dal bisogno, lotta alla tirannia, rinuncia all’uso della forza, sistema di sicurezza generale che permettesse pace e disarmo, libertà di commercio e di navigazione erano i principi sanciti nel documento. La Carta riprendeva pertanto vari temi presenti nei Quattordici punti di Wilson e ufficializzava il futuro ruolo di potenza mondiale degli Stati Uniti. Inoltre, traendo ispirazione dal proto-ordine liberale a guida britannica di fine ‘800, gli estensori dell’ordine 2.0 aggiungevano alle linee guida dell’ordine una significativa attenzione alla dimensione economica e alla creazione di un ordine economico internazionale aperto. Il consolidamento della spartizione ideologico-politica del mondo in due sfere di influenza, tra il 1946 e il 1947, pose fine all’aspirazione di Roosevelt di fondare un ordine globale e vide la compresenza di un ordine bipolare di contrapposizione e retto dalla deterrenza, e un ordine liberale nel blocco occidentale. Pertanto, se a livello globale si realizzavano solo alcuni elementi dell’ordine liberale pianificato nella Carta Atlantica (in primis la creazione di un sistema di sicurezza collettiva incarnato dalle Nazioni Unite), all’interno del blocco Occidentale se ne sviluppava una versione più compiuta di quella emersa a Versailles. Non solo, l’identità liberal-democratica delle potenze occidentali costituiva anche il collante identitario che le contrapponeva all’antagonista sovietico.
L’ordine consolidato nel corso della Guerra fredda, sotto l’egida degli Stati Uniti, poggiava su quattro pilastri principali, ciascuno dei quali incarna valori, norme e istituzioni condivise: la democrazia, istituzioni internazionali formali, un sistema di sicurezza collettiva e un’economia internazionale aperta ma stemperata nei suoi effetti domestici dallo stato sociale che mirava ad ammortizzare gli effetti potenzialmente negativi dell’apertura dei mercati. La narrativa era quella di un ordine liberal-democratico che avrebbe portato pace e benessere a chi lo avesse abbracciato. Importante sottolineare che l’ordine internazionale liberale 2.0 ha convissuto con pratiche decisamente non coerenti con i propri principi, quali il colonialismo delle potenze europee, politiche non liberali promosse in nome dell’anti-comunismo e del contenimento dell’Unione Sovietica (come il sostegno economico e politico offerto a regimi dittatoriali in America Latina, Medio Oriente, Asia Orientale e Africa; o il sostegno della NATO a regimi autoritari al proprio interno, come la Turchia e la Grecia dei colonnelli). Non solo, nell’arco dell’era bipolare, il liberalismo occidentale si è trasformato, soprattutto per quanto concerne il rapporto tra economia, politica e società. Dagli anni ’80 in poi, infatti, il liberismo economico è stato progressivamente sempre meno compensato dalla presenza dello stato sociale, soprattutto negli Stati uniti e nel Regno unito, generando una fase cd neoliberista dell’economia globale.
Ma per comprendere l’evoluzione contemporanea dell’ordine liberale occorre ancor più guardare alla cesura rappresentata dalla fine della Guerra fredda. La fine del bipolarismo offriva un’occasione unica per l’espansione globale dell’ordine liberale: l’occasione per affermare un ordine liberale 3.0, veramente globale. Nel giro di pochi anni, regimi internazionali si trasformavano in organizzazioni (Organizzazione internazionale del commercio, Organizzazione per la cooperazione e la sicurezza in Europa, …), NATO e Unione europea predisponevano i propri allargamenti e i rapporti con la Russia miglioravano. Eppure, era proprio nel momento di maggior successo che l’ordine liberale iniziava ad affrontare sfide che lo avrebbero delegittimato. Sul versante della sicurezza internazionale, all’aspettativa di un ‘Nuovo ordine mondiale’ fondato sul diritto internazionale – proclamato enfaticamente da George Bush in occasione della risposta internazionale all’invasione irachena del Kuwait – seguì velocemente la sconfitta della comunità internazionale nei Balcani. A manifestare al mondo tutta la debolezza della nascente architettura di sicurezza europea sono stati i circa 100.000 morti della guerra in Bosnia, il genocidio della popolazione musulmana, i sistematici stupri etnici e i campi di detenzione nati sul territorio della Bosnia-Erzegovina, la ‘pulizia etnica’. Ma i fallimenti non si arrestavano qui e il sistema di sicurezza collettivo rilanciato all’indomani dell’89 mostrava tutti i suoi limiti in Ruanda, Somalia, Nagorno Karabakh, Yemen, Cecenia, Abkhazia, Eritrea e Congo. Infatti, se è vero che dopo la Guerra fredda il numero di conflitti tra stati sovrani era in netto calo, aumentavano significativamente le guerre civili e la guerra stessa si trasformava.
Gli attentati terroristici del settembre 2001 avrebbero poi ulteriormente mostrato la vulnerabilità dell’Occidente, un gigante ferito e incredulo. Inoltre, interventi internazionali in Iraq e Afghanistan, e l’incapacità di rispondere efficacemente alla destabilizzazione generata da tali interventi hanno colpito negativamente l’immagine di un ordine liberale portatore di pace e hanno rafforzato l’immagine di un pericoloso ‘liberalismo egemonico’. Nel suo essere egemonico, il liberalismo poneva fine al compromesso storicamente raggiunto tra pulsioni imperialiste (come quelle del proto-ordine liberale ottocentesco) e aspirazione alla creazione istituzionale della pace. Ma gli attacchi terroristici avrebbero contribuito molto anche a peggiorare i rapporti transatlantici, allargando lo iato tra Europa e Stati Uniti. Si faceva quindi strada nei primi anni 2000 l’idea che Europa e Stati Uniti non fossero soltanto in semplice momentaneo in disaccordo, ma incarnassero diversi tipi di ordine politico e diverse visioni dell’ordine internazionale ‘giusto’.
La crisi dell’ordine liberale 3.0 è stata poi acutizzata dalla crisi economica del 2007ss che ha avuto un effetto dirompente nel mettere in discussione i benefici di una globalizzazione economica neoliberista. L’impatto della globalizzazione economica (riduzione delle ineguaglianze globali, ma aumento delle ineguaglianze interne e trasformazione socio-economica del mercato del lavoro) era presente da tempo, ma la crisi economica ne ha acutizzato gli effetti negativi, delegittimando l’ordine liberale che della liberalizzazione economica e dell’interdipendenza aveva fatto uno dei propri pilastri.
L’effetto domino che si è generato ha toccato anche l’altro pilastro del liberalismo: la democrazia liberale. Già posta sotto pressione dalla difficoltà ad adattarsi a una società in trasformazione, la democrazia rappresentativa si è vista delegittimata dall’incapacità di fornire il benessere e la sicurezza promessi. La fiducia nei rappresentati ha subito un crollo senza precedenti in paesi a democrazia consolidata, nei quali forze populiste sono state in grado di cavalcare lo scontento popolare diffuso, ergendosi a voce di un ‘popolo’ dai contorni stereotipati. L’effetto politico è stato significativo proprio in quella parte dell’Occidente dove le ineguaglianze socio-economiche erano diventate più intollerabili, negli Stati uniti e nel Regno unito. L’elezione di Donald Trump alla presidenza americana e il referendum per l’uscita del regno Unito dall’UE hanno segnato momenti fondamentali non solo per la politica nazionale dei due paesi, ma per la politica internazionale in generale. In entrambi i casi si sono messi in discussione pilastri dell’ordine liberale: Trump ha condotto una campagna elettorale e una politica estera ampiamente anti-globaliste; la Brexit ha rappresentato il primo passo indietro del più avanzato processo di integrazione regionale liberale al mondo.
La cosiddetta crisi dei migranti del 2015/6 (principalmente in Europa, ma anche negli stati uniti) ha ulteriormente danneggiato le forze liberali occidentali, alle quali si sono contrapposte forze populiste sovraniste, per lo più euroscettiche. Nei casi più estremi si tratta di forze che sostengono forme illiberali di democrazia (ammesso che l’ossimoro abbia senso). Tutte sono scettiche nei confronti della cooperazione internazionale multilaterale e promuovono la centralità di un indistinto ‘popolo’ sull’individuo cittadino di tradizione liberale. La crisi della democrazia liberale e del liberalismo in generale in Occidente, inoltre, si sposa con l’ascesa di potenze internazionali illiberali (Russia, Cina), rafforzandola.
Gli effetti netti della pandemia da Covid_19 – ultima di una serie di crisi recenti- sono ancora tutti da esplorare. Se da un lato la pandemia ha messo in evidenza l’importanza di regole ed istituzioni globali comuni, l’importanza della solidarietà tra stati, persone, comunità, dall’altro, ha mostrato la vulnerabilità amplificata dall’intensità delle relazioni sociali transnazionali. La debolezza della governance globale ha dato ampio spazio a risposte nazionalistiche a tratti sovraniste, quando non di derive ulteriormente illiberali (come nel caso dell’Ungheria di Victor Orban, o la Russia di Putin, ma anche come nel caso delle manifestazioni di piazza contro il lockdown promosse da forze di estrema destra in Germania). In Europa, dopo una risposta lenta e deficitaria da un punto di vista solidaristico, la risposta alla crisi economica generata da Covid_19 è stata senza precedenti e, se confermata e sfruttata adeguatamente, potrebbe portare a esiti importanti non solo dal punto di vista economico ma anche politico e sociale. Esiti che però molto dipenderanno dalla capacità delle forze democratico-liberali di cogliere l’occasione, forse l’ultima, per il rilancio del processo di integrazione europea. Gli Stati uniti paiono uscire disastrati dalla crisi, ma l’effetto finale dipenderà dall’esito delle elezioni presidenziali, ancora incerte.
Perché è a rischio di estinzione?
Il rischio è rappresentato, come dicevo prima, dalla delegittimazione dei pilastri dell’ordine liberale (libero mercato, democrazia, transnazionalismo, multilateralismo e istituzioni internazionali) e dal loro graduale smantellamento. La sfida non è rappresentata tanto – principalmente – dall’ascesa di potenze illiberali fuori dall’occidente (Russia e Cina in primis), ma dalla crisi del liberalismo proprio in Occidente, nella culla del pensiero liberale e della progettazione liberale dell’ordine globale. Le inefficienze dell’ordine liberale nel soddisfare le promesse di sicurezza e benessere hanno legittimato l’ascesa di forze antagoniste che stanno smantellando quest’ordine a livello domestico e internazionale. L’ascesa di potenze illiberali come la Cina paradossalmente rafforza il potere di forze sovraniste scarsamente liberali all’interno degli Stati uniti, producendo un effetto boomerang sulla tenuta dell’ordine che gli Stati uniti hanno creato e sostenuto nei decenni. Si è assistito all’indebolimento di democrazia e diritti umani negli Stati uniti e in vari paesi europei, all’indebolimento del multilateralismo (si pensi ad esempio allo smantellamento di pezzi importanti del sistema di accordi per il controllo degli armamenti), alla crisi del processo di integrazione europea, alla deriva illiberale di potenze emergenti quali il Brasile, all’indebolimento e la delegittimazione delle organizzazioni economico-finanziarie internazionali.
In che modo la globalizzazione economica, la rivoluzione digitale e la sfida dei diritti minano la stabilità dell’ordine liberale?
La globalizzazione economica ha avuto effetti assai benefici sull’economia di paesi e persone nel mondo, riducendo la povertà e le disuguaglianze tra paesi. Tuttavia, quella stessa globalizzazione ha trasformato il mercato del lavoro all’interno dei paesi industrializzati, delocalizzandolo. L’affermazione di lunghe catene di valore e di un’economia fatta sempre più di servizi che di produzione di beni hanno contribuito a modificare non solo il mercato del lavoro, ma la stratificazione sociale e l’autoidentificazione degli individui in classi sociali caratterizzate da una comunanza di interessi e obiettivi. Di qui la crisi dei corpi intermedi, partiti e sindacati, lifa vitale delle democrazie rappresentative. Non solo, la globalizzazione economica sempre più svincolata da un controllo politico e in assenza di forti reti di protezione sociale, ha prodotto ineguaglianze che hanno nutrito lo scontento che a sua volta ha delegittimato l’ordine liberale. Di contro, a livello internazionale, ha permesso l’ascesa di potenze illiberali come la Cina, capaci di mettere in discussione il nesso tra democrazie e partecipazione al capitalismo globale.
Sia le forze politiche che hanno cavalcato lo scontento nelle democrazie occidentali, che le potenze illiberali in ascesa hanno saputo sfruttare a pieno le opportunità offerte dalla rivoluzione digitale. Il leader populista utilizza la disintermediazione comunicativa messa a disposizione della rete e parla efficacemente direttamente al ‘popolo’, non disdegnando la diffusione di notizie inaccurate quando non false. Cina e Russia sono accusate di hackeraggio e interferenza nei dibattiti pubblici e meccanismi elettorali delle democrazie occidentali. La disinformazione veicolata dalla rete e riprodotta da media tradizionali poco accorti inquina le falde vitali della democrazia. Non solo, anche i governi democratici cedono alla tentazione che la rete fornisce di violare la privacy dei propri o altrui cittadini, come i casi Snowden e Cambridge Analytica mostrano. La rete cambia anche il rapporto tra cittadini e spazio pubblico, parcellizzando quest’ultimo in una pluralità di spazi comunicativi tribali all’interno dei quali i meccanismi tipici dell’interazione nei piccoli gruppi avviene, riducendo il pluralismo e aumentando la contrapposizione esterna. Grande opportunità, la rete presenta anche una pluralità di sfide che la democrazia liberale dovrà affrontare per poter essere resiliente. A livello internazionale, la governance globale della rete vede la competizione tra modelli diversi (americano e cinese in primis), con il rischio di produrre una nuova divisione del mondo in sfere d’influenza, questa volta digitali.
Anche il piano dei diritti pone sfide importanti all’ordine liberale. Sempre in tensione nella ricerca di un equilibrio tra sicurezza e libertà, l’ordine liberale fatica a trovare questo equilibrio quando affronta il terrorismo internazionale o altre sfide globali (in taluni casi anche la pandemia di Covid ha portato a riduzione delle libertà individuali). Ma il terreno sul quale più occorre aprire una riflessione attenta è quello del rapporto tra liberalismo e pluralità culturale. Il multiculturalismo come compresenza di culture diverse crea sfide importanti all’ordine liberale internazionale (basti pensare alla normativa internazionale sui diritti umani di chiara ispirazione cosmopolitica) e nazionale (basti pensare ai diversi modelli che le democrazie liberali hanno adottato per definire i rapporti tra culture diverse, nessuno dei quali davvero di successo). La pressione migratoria ha di nuovo messo in evidenza la tensione che esiste nelle democrazie liberali tra centralità dei diritti umani e preoccupazione per il mantenimento di condizioni percepite come necessarie per poter garantire il mantenimento stesso della democrazie e dello stato sociale (adesione a valori comuni, lingua comune, senso di appartenenza identitaria al corpus socio-politico). In nome di preoccupazioni per la tenuta dello stato sociale, per l’omogeneità culturale o per il mantenimento dell’ordine pubblico, l’Europa liberale ha accettato di stringere accordi con paesi terzi dalle dubbie credenziali liberali pur di fermare l’afflusso di migranti verso i paesi europei, di fatto legittimando significative violazioni dei diritti umani (basti pensare a quanto avviene nei campi in Libia).
Quali scenari dunque sul futuro dell’ordine internazionale?
Proprio per la complessità delle sfide, che afferiscono a più livelli (dalla trasformazione della soggettività politica, alla sfida rappresentata dall’affermazione di potenze illiberali globali) è assai difficile fare scenari. Generalmente, nel dibattito nella mia disciplina (le Relazioni internazionali), gli autori che fanno scenari si concentrano sull’impatto dell’ascesa di grandi potenze non occidentali e sull’uso che queste faranno dell’ordine esistente, smantellandolo, tenendolo in forma residuale, o adattandolo a esigenze regionali. Alcuni, come Ikenberry, contano sulla resilienza dell’ordine liberale dovuta alla sua capacità di adattamento e risposta; altri ne vedono all’orizzonte la fine inesorabile portata dal declino delle potenze che quell’ordine hanno sostenuto. Io credo che il compito di noi che studiamo la politica da varie prospettive disciplinari sia quello di fornire chiavi per la comprensione di fenomeni complessi, assai più che quello di dare precise indicazioni di condotta e, ancor meno, fare previsioni. Quello che è certo è che per essere ‘salvato’ l’ordine liberale ha bisogno di affrontare almeno tre grandi questioni irrisolte e di fare scelte coraggiose. In primo luogo, deve ripensare il rapporto tra economia e politica in modo da evitare la de-globalizzazione, ma anche in modo da arginare gli effetti più negativi della medesima. Quella economica credo sia la sfida più urgente da affrontare, conditio sine qua non per un sostegno generalizzato a un ordine altrimenti delegittimato. In secondo luogo, occorre affrontare la realtà di una sfera pubblica profondamente trasformata e alterata dall’esistenza dell’era digitale, pensando per tempo alle implicazioni socio-politiche, e personali, di trasformazioni tecnologiche (penso all’intelligenza artificiale e ai suoi usi) dalle certe ripercussioni sulla vita delle persone e delle collettività. Infine, occorre ripensare il funzionamento della democrazia in società fortemente plurali da un punto di vista culturale. . Tutto questo è reso quasi utopico dall’accelerazione della politica, l’aspettativa di risposte immediate a fenomeni complessi, pressioni che riducono a zero lo spazio di riflessione, quello spazio che può trasformare le crisi in occasioni di rinascita.
Sonia Lucarelli è professoressa associata di Relazioni internazionali all’Università di Bologna. È direttrice di ricerca del Forum per i problemi della pace e della guerra di Firenze.