“Cacciatori di libri. Gli agenti letterari durante il fascismo” di Anna Ferrando

Dott.ssa Anna Ferrando, Lei è autrice del libro Cacciatori di libri. Gli agenti letterari durante il fascismo edito da FrancoAngeli: quando e come nasce la figura dell’agente letterario?
Cacciatori di libri. Gli agenti letterari durante il fascismo, Anna FerrandoNon è facile individuare una data precisa della nascita della professione di agente letterario, perché proprio l’indeterminatezza e l’informalità ne costituiscono alle origini il tratto caratteristico. Come James Hapburn e Ann Mary Gillies hanno sottolineato nei loro pionieristici studi, la figura del middleman, ovvero di colui che media fra autore ed editore, era in fondo sempre esistita. Spesso erano stati gli amici degli scrittori o i lettori nelle case editrici a svolgere le funzioni tipiche dell’agente, dalla selezione dei testi alla negoziazione dei contratti, dalla revisione dei manoscritti fino al rinnovo di tutte le scadenze contrattuali alle migliori condizioni.

Detto questo, è certamente possibile rintracciare le radici del processo che ha condotto alla legittimazione della professione di agente letterario nell’Inghilterra della seconda metà dell’Ottocento e segnatamente nella contea del Lancashire. Lì nacquero infatti i cosiddetti syndacates, i precorritori delle agenzie letterarie in senso stretto: essi raccoglievano e distribuivano romanzi d’appendice, articoli di giornale e altro materiale a stampa ai periodici che aderivano al loro sindacato. Fu dunque la patria della rivoluzione industriale a dare i natali a questo nuovo mestiere, anche se fu un genere tipicamente francese a sostenerne l’affermazione: il feuilleton era il prodotto più comprato e più venduto da questi intermediari all’inizio della loro carriera.

Proprio uno di questi syndacate fu all’inizio il principale partner di Augusto Foà, il primo agente letterario italiano, fondatore dell’Agenzia Letteraria Internazionale, così battezzata dopo ben 16 anni di attività. Il giovane Augusto cominciò nel 1898 la corrispondenza con l’Inghilterra, prendendo a modello l’esperienza d’oltremanica e traducendo, soprattutto dall’inglese e dal francese – ancora poco dal tedesco – numerosi romanzi popolari per le appendici dei giornali. Proprio come la maggior parte degli agenti letterari agli esordi, Augusto si occupava da solo di tutto l’iter: dall’acquisto dai fornitori stranieri dei diritti di traduzione in lingua italiana alla scelta del periodico della penisola cui venderli fino alla parcellizzazione e alla versione del racconto da egli stesso curata.

Foà riuscì col tempo ad accreditarsi presso testate importanti, come «La Stampa», «Il Secolo» e soprattutto il «Corriere della Sera», il cui direttore Albertini aveva presto compreso le potenzialità commerciali del romanzo d’appendice per il suo giornale, trovando pertanto nell’agenzia di Foà un partner imprescindibile. Nel 1931 Augusto trasferì il suo ufficio da Torino a Milano, intuendo che i tempi erano maturi per allargare il suo raggio d’azione anche all’editoria libraria: il passaggio agli anni Trenta viene a coincidere infatti con quello che Christopher Rundle ha giustamente chiamato il “translation boom”, destinato a fare dell’Italia fascista il più importante consumatore di traduzioni al mondo. Quel momento cruciale nella storia della cultura italiana rappresenta altresì una cesura periodizzante nella storia dell’Ali: Luciano Foà, il figlio di Augusto, cominciò a imparare il mestiere affiancando il padre, mentre l’agenzia andava sempre più nettamente specializzandosi nella compravendita dei diritti di traduzione, demandando la versione dei testi in lingua italiana ai traduttori professionisti.

Quale fu l’importanza dell’Agenzia Letteraria Internazionale?
L’agenzia di Augusto Foà, fondata come ho detto nel 1898, è una delle più antiche agenzie letterarie dell’intero mondo occidentale, se si pensa che le agenzie capostipite erano nate poco tempo prima: Alexander Pollock Watt aprì la sua agenzia a Londra nel 1875; James Brand Pinker nel 1896, e Curtis Brown, divenne un fiero competitor di entrambi due anni dopo. Proprio questo fatto permette di attribuire al caso specifico dell’Agenzia Letteraria Internazionale un valore euristico di più ampio respiro, al di là della scansione temporale che ho preso in considerazione nel mio libro – dall’Italia liberale alla fine del ventennio fascista: nel processo di costruzione di una «Repubblica mondiale delle lettere» le agenzie letterarie, e dunque anche l’Ali, rivestirono infatti un ruolo di assoluto rilievo, che attende ancora di essere pienamente chiarito. Non solo intermediari, ma veri e propri mediatori, in generale i middlemen e nello specifico l’Ali, furono cioè capaci di influenzare e trasformare il processo di transfer culturale, condizionando la diffusione libraria nazionale e internazionale e, di conseguenza, contribuendo a plasmare l’immaginario individuale e collettivo dei lettori della penisola e non solo.

Come i pionieri anglosassoni, anche l’Ali inscrive la sua traiettoria nell’orizzonte della modernità e della nascente mentalità industriale, ponendosi come un importante fattore di modernizzazione del mercato editoriale italiano. Gli agenti incentivarono infatti la professionalizzazione dell’autorship: ben consapevoli della natura duale del libro, prodotto di cultura e commerciale al tempo stesso, essi si seppero muovere con efficacia su questo crinale non solo a proprio beneficio, ma anche a vantaggio degli autori da essi rappresentati. Di queste competenze si avvalsero non a caso i cosiddetti modernisti e gli autori contemporanei più o meno vicini al movimento, i quali, come testimonia la ricca corrispondenza di Joyce, Lawrence, Huxley e Aldington (fra gli altri) con James Brand Pinker, abbandonarono presto snobistiche reticenze per seguire la strada indicata dall’agente letterario e raggiungere così i più prestigiosi palcoscenici editoriali non solo di Stati Uniti e Inghilterra, ma anche del resto d’Europa. In Italia spettò al coagente di Pinker, Augusto Foà, di promuovere nella penisola quella generazione di scrittori. La contemporaneità fu certamente il tratto caratteristico di tutta letteratura e saggistica straniera, e non solo di quella anglosassone, importata dai Foà e la mediazione editoriale dell’Ali contribuì non poco a svecchiare un panorama letterario italiano ancora largamente provinciale, mettendolo a contatto con le correnti più vive del pensiero internazionale e stimolando il processo di emancipazione degli scrittori dalla prosa d’arte.

Oltre a rappresentare di per sé un oggetto di ricerca degno di attenzione, perché prima agenzia letteraria italiana e filtro significativo della letteratura straniera in Italia dal 1898, l’Ali offre inoltre un angolo visuale privilegiato sulle traduzioni, i traduttori e i rapporti fra mondo del libro e regime fascista, temi di indubbio rilievo per la storia della cultura nel secolo scorso.

Che rapporto ebbe l’Ali con il fascismo?
I rapporti fra l’Ali e il fascismo si devono necessariamente comprendere nel quadro di quella che Nicola Tranfaglia ha chiamato «la marcia sull’editoria» e della costruzione di un’architettura censoria che investì progressivamente la carta stampata e le case editrici, architettura che, come i recenti studi di Giorgio Fabre hanno messo in luce, si voleva porre come argine contro l’antifascismo e le potenziali contaminazioni della “razza”. Su questa direttrice si collocano le due campagne contro le traduzioni orchestrate dalla stampa fascista, risolute nel chiedere di presidiare le frontiere culturali dall’invasione straniera, per bloccare quel flusso, di cui proprio l’Ali, e buona parte degli editori italiani, si alimentavano.

Io ho titolato un paragrafo del mio libro “Tra compromesso e opposizione”, perché se da un lato l’attività dei Foà fu influenzata da quel contesto, dovendosi muovere fra le strettoie di divieti, permessi e compromessi, dall’altro ebbe anche la forza di condizionarlo, tanto da sopravvivere al ventennio e riuscire a mantenere la presenza dell’Ali sul mercato editoriale nazionale e internazionale fino ai giorni nostri. Se il regime fascista istituì una prassi di committenza statuale con le case editrici, che necessitavano dei finanziamenti statali per sostenersi, l’Ali, al contrario, si reggeva da sola, trovando nella parallela attività di Augusto nel settore telefonico il fondamento economico, che fu dunque garanzia d’indipendenza dell’agenzia dagli editori e da Roma. Proprio la vicinanza con il mondo industriale consentì d’altra parte ai Foà di costruirsi qualche appoggio fra le gerarchie del regime, appoggi abilmente sfruttati per difendere gli spazi di manovra dell’Ali.

Certamente l’Ali, una volta selezionati i testi stranieri da proporre ai clienti della penisola, dipendeva da questi ultimi per l’effettiva realizzazione delle sue proposte, e, in ultima istanza, dalle decisioni del regime. Ecco perché nelle vicende editoriali dell’Ali non mancano esempi di compromesso: l’edizione di Balilla di Mario Granata, la presenza nel carnet di libri degli italiani filocoloniali come Attilio Gatti e Nino Del Grande, o l’attenzione riservata alla letteratura prodotta in Ungheria, paese sostenitore delle istanze revisioniste del duce nell’Europa danubiano-balcanica. Nonostante le eccezioni rilevate, si può tuttavia affermare che l’offerta editoriale dell’Ali ebbe nel complesso una forte carica innovativa, quand’anche polemica — come dimostra la continua proposizione di libri inglesi, francesi, statunitensi persino dopo il 1936, quando il regime disegnò nuove reti di scambi culturali con Germania, Spagna e Giappone.

Ciononostante, per scorgere i segni di una trasformazione in senso politico di tale battaglia intellettuale, bisogna attendere l’irrigidirsi del contesto, negli anni dell’autarchia e soprattutto della bonifica libraria. Le leggi antisemite costituirono un punto di svolta per una maturazione in senso antifascista, una spinta verso l’impegno politico anche per i Foà. Augusto era nato in una famiglia appartenente alla comunità ebraica torinese, ma quelle origini divennero suo malgrado manifeste soltanto nel ’38, tanto che non avevano affatto pesato sulle sue scelte personali, che lo avevano portato a sposare una donna cattolica, in barba alla tradizionale endogamia ebraica. Proprio dopo il 1938, Luciano, poco più che ventenne, si avvicinò al Partito d’Azione di La Malfa e scelse poi di seguire Adriano Olivetti nell’avventura delle Nuove Edizioni Ivrea, al cui profilo editoriale lavorò una combinazione di intelligenze animata, oltre che dall’ingegnere, da Bobi Bazlen, amico di una vita di Luciano Foà.

In un’intervista nel dopoguerra Luciano spiegò che fu l’«interesse politico» a indirizzare allora le sue scelte editoriali alla testa dell’Ali, con l’intento di far passare tra le maglie della censura anche libri non consentiti. Se Luciano si avvicinò allora all’antifascismo democratico, già Augusto aveva espresso la sua posizione nei confronti del regime rifiutandosi di iscriversi al Partito Nazionale Fascista, ma tale scelta, per quanto decisiva, non si trasformò mai da parte del fondatore in aperto dissenso. L’assenza di fascicoli personali intestati ai due agenti nei Fondi dell’Archivio Centrale dello Stato suggerisce un atteggiamento defilato, una posizione lontana sia dalle iniziative più pienamente inserite nel regime, sia dalle prime linee dell’opposizione politica vera e propria.

Come si articolava l’offerta editoriale dell’Ali?
Per comprendere l’articolazione dell’offerta culturale dell’Ali bisogna tornare a sottolineare il momento periodizzante rappresentato dallo spostamento, alla fine degli anni Venti, del baricentro del mercato dell’agenzia dalla carta stampata all’editoria libraria e, naturalmente, nell’analisi occorre poi tener conto dei momenti chiave della politica censoria del regime: nell’appendice del mio libro ho infatti riportato le opere negoziate dai Foà dagli anni Trenta fino alla Liberazione, raggruppandole in quattro fondamentali scansioni temporali oltre che per area linguistica di provenienza, e rilevando come la censura cominciò a bloccare la traduzione dei libri stranieri acquistati dall’Ali soprattutto con l’ingresso dell’Italia nel secondo conflitto mondiale, quando le opere bocciate superarono in quantità quelle che ottennero il nulla osta alla stampa.

Anche per quanto riguarda i romanzi negoziati per le appendici dei giornali, il 1939 incise sulle reti internazionali di rifornimento dei Foà, costringendoli a diminuire l’importazione di romanzi d’appendice in lingua francese e inglese suggeriti ai quotidiani, a vantaggio di aree linguistiche sostanzialmente estranee a quel genere letterario, come l’Ungheria o i paesi nordici. Prima di quella data la presenza di autori anglofoni, sia se si guarda all’offerta per le appendici sia a quella per l’editoria libraria, era molto forte — e su questo pesava la nazionalità dei principali agenti corrispondenti di Foà a cavallo dei due secoli. Nell’offerta dell’Ali erano rappresentati i vari filoni della narrativa popolare, dal racconto più impegnato a quello amoroso, dalla favola per bambini all’intreccio avventuroso e al poliziesco, dai romanzi storici a quelli di ispirazione realistica: Henri Duvernois, Edith Nesbit, Maurice Dekobra, Léon Groc, Arabella Kenealy, sono solo alcuni dei nomi noti e meno noti che emergono dai carteggi dell’agenzia.

Sin da quando cominciò a lavorare con i syndacates, Augusto Foà cercò di assicurarsi tanto i diritti di traduzione in serie quanto quelli in volume, in modo da poter sfruttare tutte le potenzialità commerciali del libro straniero e il passaggio dal feuilleton all’editoria popolare divenne quasi automatico, trovando nel genere giallo una delle principali cinghie di trasmissione: i romanzi di Georges Simenon, di Rufus King e dell’italiano Augusto De Angelis furono fra i più significativi di quelli negoziati dai Foà in questi anni.

Nel selezionare le opere sui mercati esteri, dall’Europa orientale a quella occidentale fino agli Stati Uniti, l’Ali valutò sempre tutto lo spettro dei potenziali lettori e seppe spaziare dalla letteratura popolare (come i romanzi del “maestro” Edward Phillips Oppenheim), ai premi Nobel (come Knut Hamsun e Sigrid Undset, per citare due norvegesi) dai libri disimpegnati a quelli dalla forte carica politica. Fra questi il “socialisteggiante” Roger Martin du Gard, autore dei Thibault, un’opera imponente e contestatissima persino in Francia; o la scrittrice afroamericana Zora Neale Hurston, autrice di uno dei capolavori del black feminism, Their eyes were watching God, tradotto in italiano grazie alla mediazione dei Foà; o ancora le opere di Sigmund Freud e di Jung, o di molti tedeschi antinazisti, su tutti ricordo qui Walter Benjamin, morto suicida come estremo gesto di rivolta al nazifascismo.

Cosa e fra chi mediava l’agenzia?
Questa importante opera di mediazione editoriale (basti pensare che negli anni Quaranta l’Ali giunse a rappresentare più di 400 opere), poggiava su un network nazionale e internazionale di autori, case editrici, traduttori, intellettuali, agenzie letterarie in continua evoluzione e in continuo arricchimento. Le vicende dei Foà e dell’Ali consentono infatti di illuminare un panorama editoriale mosso, animato da mutevoli rapporti economici e culturali tra professioni ancora poco strutturate in Italia, come appunto quella dell’agente e del traduttore. Nella storia dell’Agenzia Letteraria Internazionale si intrecciano molteplici percorsi biografici e professionali, da Alessandra Scalero a Bobi Bazlen, da Carlo Linati a Maria Martone Napolitano, da Angela Zucconi a Giorgio Fuà fino all’erede dei Foà, Erich Linder. A questi intellettuali l’agenzia si appoggiò di volta in volta per volgere un libro in italiano, per chiedere una consulenza, per facilitare le trattative con un editore o per curare la corrispondenza con un autore straniero.

Il carattere non formalizzato di queste professioni portava spesso a una sovrapposizione di competenze: così come l’agente non era soltanto un mediatore commerciale, ma le sue azioni economiche avevano sempre ricadute culturali, così i traduttori non erano soltanto mediatori di cultura, ma spesso svolgevano funzioni tipiche dei commercial middlemen, agendo di concerto o talora in competizione con l’agente letterario.

Grazie a questo network ben ramificato nel mondo dell’editoria italiana, l’Ali poté influenzare i programmi di molte case editrici della penisola, che si rivolgevano all’impresa italiana alla ricerca di novità in tema di letteratura straniera: Salani e Sansoni di Firenze, Einaudi e Frassinelli di Torino, Mondadori, Minerva, Sonzogno, Baldini & Castoldi, Treves, Corbaccio, Bompiani, Monanni di Milano, Omnibus di Roma e Laterza di Bari, fra le altre.

L’indipendenza (da qualsivoglia editore e da finanziamenti statali) dell’Ali ne fece dunque l’autentica agenzia letteraria professionale, la più vicina ai modelli d’oltremanica. Da questi però si differenziava perché, almeno fino al 1938 — quando le leggi razziali e la bonifica libraria imposero la nazionalizzazione anche del catalogo dell’Ali —, i Foà non avrebbero agito da agenti veri e propri, vale a dire come «author’s business representative» di scrittori italiani, ma più propriamente da subagenti — cioè rappresentanti in Italia di autori e case editrici straniere (come nel caso dell’area germanofona) — e da coagenti — ovvero come una sorta di filiale italiana di agenzie straniere (come nel caso dell’area anglofona, per cui l’Ali rappresentava le agenzie britanniche e statunitensi, le quali spesso gestivano sul mercato internazionale un certo numero di autori, anche non anglofoni).

Quali vicende segnarono l’agenzia durante la guerra?
Innanzitutto, la necessità della sopravvivenza. La mancata adesione al Pnf da parte del fondatore, la “vocazione cosmopolita” del lavoro di agente, di segno opposto al nazionalismo autarchico sposato dal regime nella seconda metà degli anni Trenta, e l’origine ebraica della famiglia Foà segnarono la storia dell’Ali dopo le svolte del 1938 e dell’armistizio, fino a costringere i due Foà alla fuga verso la Svizzera. Gli ultimi due capitoli del mio libro si focalizzano su questi aspetti e ricostruiscono le travagliate vicende dell’Ali durante la tragedia del secondo conflitto mondiale.

Come ho già detto, l’inasprirsi dei meccanismi censori portò l’Ali a sondare mercati editoriali per lo più trascurati fino a quel momento, come quelli ungheresi, danesi, svedesi e, dopo il 1940, di altri paesi neutrali. Tuttavia, anche in quel torno di tempo, Augusto e Luciano non rinunciarono a selezionare sui mercati stranieri opere di qualità, giungendo a proporre ai lettori la traduzione di testi di autori tedeschi, statunitensi e italiani non allineati al nazifascismo, tanto che persino molti libri importati dall’alleata Germania furono bloccati della censura e dovettero attendere il secondo dopoguerra per circolare in Italia.

Su questa linea di opposizione culturale si inserisce l’incontro di Luciano Foà con Adriano Olivetti, avvenuto allo scoccare del quarto decennio del secolo, quando, nel 1942, per sottrarsi ai pesanti bombardamenti che colpirono Milano, il figlio di Augusto si trasferì a Ivrea. La collaborazione sarebbe stata feconda e avrebbe dato origine all’ambizioso progetto editoriale delle Nuove Edizioni Ivrea (Nei), al quale l’Ali diede il proprio decisivo contributo. Se negli anni Trenta il network relazionale dell’Ali si può ricostruire a partire dal rapporto privilegiato fra la traduttrice Alessandra Scalero e Augusto Foà, nel decennio successivo fu l’amicizia fra Luciano e il consulente letterario Roberto Bazlen ad agevolare il formarsi di nuove reti professionali, che trovarono nel progetto olivettiano il loro fulcro.

Dopo l’8 settembre 1943, l’agenzia dovette sospendere la sua attività e il network di collaboratori e traduttori si disperse. Furono proprio gli amici del Partito d’Azione a sollecitare Luciano a lasciare immediatamente Ivrea dopo l’armistizio e a riparare a Ginevra, dove, insieme al padre, avrebbe preso parte all’ambiente intellettualmente stimolante della vivace città svizzera. Qui Luciano ritrovò molti dei collaboratori delle Nei e con Adriano Olivetti il dialogo non cessò mai: il primo libro che l’Ali avrebbe proposto a Einaudi all’indomani della Liberazione sarebbe stato proprio L’Ordine politico delle Comunità, il disegno di una costituzione per la nascitura democrazia messo a punto dall’industriale eporediese.

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