“Buoni e cattivi. Etica, politica e potere al tempo di internet” a cura di Fabrizio Sciacca

Prof. Fabrizio Sciacca, Lei ha curato l’edizione del libro Buoni e cattivi. Etica, politica e potere al tempo di internet pubblicato da Mimesis: che relazione esiste, nella nostra società, tra etica e politica?
Buoni e cattivi. Etica, politica e potere al tempo di internet, Fabrizio SciaccaPer rispondere a questa domanda occorre innanzitutto intendersi sul significato di alcune parole. Per etica si è a lungo inteso la capacità di ogni individuo di sviluppare e assumere, criticamente, una certa concezione del bene. Ciò che, logicamente, presuppone altresì la capacità di identificare cose che ostacolano l’oggetto di tale concezione, che possono essere anche definite ‘male’. Una concezione del bene in senso politico non attiene alla sfera privata, e non va confusa con il modus vivendi. Se tifo Milan o Juventus, oppure se indosso una sciarpa di lana o di cotone, è qualcosa che attiene a questioni di gusto o di stile, che non interessano lo spazio pubblico. Parliamo di concezioni del bene in senso politico quando abbracciamo visioni del mondo che sono già situate in contesti strutturati e condivisi da altri individui all’interno di un certo spazio pubblico. Ed è precisamente in questo spazio che si pone la relazione tra individui e istituzioni, e quindi da etica e politica.

Nell’ultimo trentennio ha con successo dominato, in buona parte della filosofia politica, l’idea di un pluralismo ragionevole, profilata dal filosofo statunitense John Rawls e in Italia approfondita da Salvatore Veca. Tale idea implica che una una vasta gamma di concezioni del bene possa essere tenuta insieme da condizioni di reciprocità accettabili. Il problema di quali concezioni del bene siano accettabili è stato il punto di partenza di una società giusta, vale a dire una società liberaldemocratica. Nell’ultimo decennio, la fisionomia sociale è stata decisamente sconvolta dalla tecnologia digitale. Occorre pertanto verificare se le imponenti intuizioni nate in seno alla teoria della giustizia liberale siano ancora proponibili nell’era di internet. Alla luce di questa domanda fondamentale, è nato questo volume.

In che modo la comunicazione digitale condiziona la politica?
La comunicazione digitale funziona in un modo totalmente diverso rispetto a tutto ciò che non era regolato da tecnologie digitali. Alla base di questa osservazione risiede un’avvertenza: quella digitale non è solo una tecnologia. È qualcosa di più: una tecnica in senso stretto, quindi una cultura. Una grande rivoluzione culturale di proporzioni globali non può non interessare tutti i fenomeni sociali umani, dal diritto alla religione, dall’economia alla cura (in tal senso, Paola Russo esplora i dilemmi tra «buona e cattiva salute», p. 293). Tutti questi fenomeni hanno bisogno di essere inquadrati entro regole di convivenza, cioè entro la dimensione politica. La prima grande macrostruttura del pianeta, la dimensione politica, è pertanto investita da una nuova forma di comunicazione, quella digitale. Questo ne sta sconvolgendo le coordinate di riferimento, le categorie spazio-temporali, persino le forme logiche di organizzazione e la stessa pensabilità. Il problema è che le categorie che hanno politicamente retto negli ultimi duemila anni rischiano di essere disarmate e poste in un ineffettivo reclusorio concettuale.

Nell’era digitale, quale trasformazione sta subendo il potere?
Una delle categorie politiche che rischia di essere disarmata dall’avvento dell’era digitale è proprio quella di potere. Anche qui, però, dobbiamo intenderci. Per potere intendiamo quello classico, il potere politico inteso come una necessità dell’agire umano organizzato, in particolar modo dell’agire politico. La forma classica del potere politico, per una lunga tradizione risalente almeno all’Impero Romano, ha avuto buona presa nella storia del mondo attraverso i secoli soprattutto per la solidità di alcuni elementi simbolici: sovranità, carisma, volontà e obbedienza. Questi quattro elementi della simbolica politica hanno, dal mio punto di vista, costituito la struttura archetipica del potere politico degli ultimi venti secoli, vale a dire della parte più importante della storia della civiltà umana, non solo quella occidentale ma dell’intero pianeta. La trasformazione delle categorie della politica, così come del significato profondo del ‘politico’, sono questione seria e attuale. La rivoluzione digitale mette in crisi i dispositivi sui quali il potere politico è stato a lungo concepito. Gran parte degli studi raccolti in questo volume esplorano in vario modo il rapporto tra potere e politica nell’era digitale partendo dal medesimo interrogativo: quale può essere il futuro di questa trasformazione? Come ha scritto Claudio Bonvecchio: occorre «costruire una eticità politica e sociale che – senza infingimenti e ipocrisie spesso solo strumentali – sia in grado di affrontare le grandi sfide che attengono non a un singolo Stato, ma l’Umanità tutta» (p. 25).

Quale significato assume la democrazia nell’era digitale?
Per quanto ne sia solo un aspetto, quello della democrazia è un problema cruciale nell’era digitale, e sul suo significato, ha osservato Salvatore Muscolino, occorre interrogarsi (p. 229). La comunicazione digitale sta mettendo in crisi categorie di verità (così argomenta Giuliana Parotto parlando di «post-verità», p. 305), responsabilità, attendibilità, certezza. Come ha scritto Natascia Mattucci: «Il potere di controllo e le somme guadagnate con l’incremento algoritmico e autoriproducentesi delle bufale sono al centro di questo nuovo modo di vivere la democrazia, con il rischio di ucciderla» (p. 92). Ciò mette in crisi il concetto di limite, rischiando di configurare, per usare l’espressione di Flavia Monceri, una «gabbia senza porta» (p. 179) nella cuspide tra democrazia e anarchia, e anche una «guerra cognitiva nel cyberspazio», come sottolinea Fiammetta Ricci (p. 109).

Gli elementi simbolici della nuova e-democracy, la c.d. ‘democrazia digitale’, impongono una riscrittura della tradizionale divisione dualistica tra ‘democrazia degli antichi’ (la c.d. democrazia diretta) e ‘democrazia dei moderni’ (la c.d. democrazia rappresentativa). La democrazia digitale affonda gli artigli nelle due parti di questa grande macchina semantica ed è in grado di innescare dispositivi di autodistruzione in entrambi gli abitacoli di tale dualismo concettuale.

In via di principio, quello dell’inclusione sociale potrebbe essere considerato il prerequisito della democrazia elettronica. V’è la possibilità diffusa di accedere all’informazione da fonti diverse e di natura diversa, senza alcuna preclusione o censura attraverso meccanismi face-to-face. La determinazione della sfera pubblica dovrebbe garantire a chiunque di partecipare attivamente attraverso il dialogo con altri individui. La partecipazione diffusa ai processi decisionali è un elemento che si può definire strutturale, quasi endogeno, della democrazia digitale. Ma è davvero così? Le implicazioni morali di questo assunto ci dicono che il problema è enorme.

Quali prospettive per i concetti politici di “buono” e “cattivo”?
Partiamo da un dato. L’ordine naturale è amorale. Una costante, questa, che nemmeno l’era digitale può stravolgere. Giulio M. Chiodi lo ha chiarito bene: «Buono e cattivo, bene e male appartengono soltanto all’essere umano, alle sue scelte e ai suoi giudizi, ai condizionamenti culturali o agli influssi dei suoi ambienti. Non si fraintenda. Questa constatazione non vuole affatto offrirsi a sostegno di una tesi radicalmente relativistica e tanto meno eticamente nichilistica, giacché non presuppone assolutamente un atteggiamento di indifferenza di fronte a bene e male, ma soltanto li attribuisce alla coscienza umana e alla coerenza che essa sa imprimere al pensiero e all’azione» (p. 318). Il problema è dunque artificiale, e riguarda l’uomo nella sua dimensione regolativa.

Legittimare la democrazia sulla base di un desiderio eticamente motivato di protezione dei diritti individuali non è mai stato, in fondo, un atto richiesto dal processo democratico, né è necessario. La sua contingenza riguarda le possibilità di qualsiasi forma di governo (anche non democratico). Da un punto di vista formale, un governo autocratico potrebbe garantire persino migliori espressioni di eguali libertà individuali come diritti o capacità. Dal punto di vista della prassi politica, il soggetto della democrazia digitale smarrisce la capacità di orientarsi: rischia di essere in grado tanto di agire come semplice individuo (come nella democrazia rappresentativa), tanto come parte di gruppi coalizzati intorno a interessi comuni (come nella democrazia diretta). L’uomo digitale è un soggetto a tre sensi, se va bene. Forse a due. Di sicuro ne perde un paio. Come ho affermato nel mio contributo in questo volume (p. 81 ss.), almeno due sensi risultano assenti: l’olfatto e il gusto. Sull’olfatto, tragicamente la natura ci ricorda che il venir meno di questo senso, tipico dell’uso degli strumenti telematici, ricorre anche come sintomo della recente pandemia. È dunque innanzitutto la natura che causa questa deminutio, non certo la realtà virtuale. Realtà virtuale e natura hanno allora questo in comune: la perdita dell’olfatto, ovvero una diminuzione delle nostre capacità di disponibilità dei sensi. In tal senso, lo scenario degli individui digitali privati dell’olfatto e del gusto mostra un’analogia con quello dei vampiri che hanno per converso questi due sensi ipersviluppati a detrimento degli altri. Entrambi gli scenari descrivono la metafora di un’umanità monca. Persino Agostino, nelle Confessioni ricorda a sé stesso che l’imperfezione dell’uomo non può essere sanata da una mutilazione sensoriale. Il peccato è una condizione ineliminabile dell’umanità, perché i sensi sono in natura. Per quanto si possa tendere verso a una vita retta, chiunque si lascia trascinare un po’ oltre i confini del bisogno. Le seduzioni dell’olfatto, i piaceri dell’udito, le passioni del gusto, la bellezza della luce regina dei colori, la sensazione del tatto: tutto questo non può essere evitato, perché, l’esperienza sensoriale è parte costitutiva e ineliminabile della natura umana. L’uomo retto può quindi, limitarsi a cercare di tagliare ed espellere i rami che infestano il suo cuore, come in una immensa foresta folta di insidie e di rischi.

Tutto questo porta a interrogarsi su quale sia il ruolo della virtù nello spazio pubblico, come ha fatto Natascia Villani (p. 65 ss.), e su quali siano i termini di questa «connessione morale» nell’era dell’iperconnessione (in tal senso, Vincenzo Maimone, p. 239). Un gioco perverso, forse insito nella natura umana, che potrebbe declinare scenari inquietanti in seno ai rapporti di forza, come hanno ricordato Antimo Cesaro (p. 228) e Paolo Bellini (p. 197). Un gioco che forse sarebbe possibile re-inscrivere entro categorie etiche riformulando prospetticamente l’idea di buono e cattivo, se non si fosse davanti a un vuoto quasi incolmabile «di valori, di ideali, di fede, di speranza, di consenso e di rappresentanza», come ha sostenuto Erasmo Silvio Storace (p. 285), che esaspera «i contenuti d’odio» in rete, come ha osservato Maria Rosaria Vitale (p. 146). In sostanza, la rete è una costellazione di «luoghi di paura», secondo Cristiano Maria Bellei (p. 129), abitata da «masse aizzate», come afferma Luigi Alfieri (p. 29), da «violenza mediatica» o «aggressività», come notano Michele Olzi (p. 163) e Roberto Cammarata (p. 259), in cui è lecito chiedersi, con Roberto Escobar, se «davvero l’ideologia» sia «scomparsa dalla scena politica, sostituita da una conoscenza immediata del reale» (p. 97).

In conclusione, la democrazia digitale appare più che mai irrimediabilmente altro da ciò che era la democrazia degli antichi e quella dei moderni. Non è né il presupposto logico, né lo strumento etico. Non so se ne sia il superamento o una mutazione. Certamente è qualcosa che agisce secondo un’etica che non è quella della verità o della falsità, e nemmeno quella della certezza o del dubbio. Forse, un’etica dei fully handshaked protocols –– della compressione, dei protocolli e della validazione. Un’etica dei processori. Se l’era digitale mette in crisi la nostra fisiologia sensoriale, probabilmente è arduo pensare che la parziale utilizzazione dei sensi fisici possa portare a un pieno sviluppo dei nostri sensi morali. Di sicuro, non può portare a una condivisa universalità di sensi morali nel momento in cui non potremo più sviluppare i sensi morali nella maniera pensata, sia pur qualche decennio fa, da John Rawls.

Fabrizio Sciacca è professore ordinario di Filosofia politica presso l’Università degli Studi di Catania. Si è formato presso le università di Tübingen, Saarbrücken, Kiel e ha conseguito il PhD alla Scuola Universitaria Superiore Sant’Anna di Pisa. È membro della Giunta di presidenza della Società Italiana di Filosofia Politica (SIFP). Tra le sue pubblicazioni: Filosofia dei diritti (Le lettere, 2010); a cura di, Immaginario politico e simbolica del potere (Mimesis, 2020).

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