“Bufale, fake news, rumors e post-verità. Discipline a confronto” a cura di Antonio M. Orecchia e Damiano G. Preatoni

Prof. Antonio M. Orecchia, Lei ha curato con Damiano G. Preatoni l’edizione del libro Bufale, fake news, rumors e post-verità. Discipline a confronto edito da Mimesis: quali dimensioni ha assunto, nella nostra società, il fenomeno della disinformazione?
Bufale, fake news, rumors e post-verità. Discipline a confronto, Antonio M. Orecchia, Damiano G. PreatoniPurtroppo il fenomeno ha assunto una dimensione quasi incontrollabile. Tra i molti, l’esempio di questi giorni (la guerra in Ucraina) ne è l’ennesima conferma, come dimostra la narrazione del conflitto proposto dai mezzi di informazioni russi.

Ma naturalmente questo è solo uno tra i mille casi: già nel 2013 il World Economic Forum segnalava che “la disinformazione digitale di massa” costituiva “uno tra i principali rischi della società moderna”. Ora, sembra una ovvietà, ma è chiaro che con l’avvento del web le porte si siano spalancate e “tutto” possa circolare, come in effetti accade; e se aggiungiamo, come ha evidenziato tra molti anche Sophie Mazet, che “la teoria complottista spesso è più seducente della realtà”, appare comprensibile che almeno una parte della cittadinanza faccia fatica a comprendere le dinamiche oggettive dei fatti. Infine, si deve tenere presente che l’informazione non è “conoscenza”: si può essere informati su tutto, ma ciò non significa “capire”.

Dove affonda le proprie radici la disinformazione?
Ragionando sul periodo più vicino a noi, uno dei problemi è legato proprio all’avvento della globalizzazione: le nuove tecnologie sono senza dubbio un veicolo di libertà, ma – paradossalmente – la sovrabbondanza di notizie rischia di creare una sorta di “opacità sociale”. Per semplificare: troppe notizie quindi nessuna notizia, o perlomeno la sovrabbondanza di notizie rende difficile districarsi nella produzione dei contenuti informativi, e comprendere quali siano i fondamentali “parametri di giudizio” da cui partire per costruirsi una opinione.

Inoltre, spiace dirlo, la disinformazione non sempre è deliberata e dettata da scorrettezza intellettuale: talvolta appare infatti più “semplicemente” come espressione di deformazione professionale o di non completa conoscenza del fenomeno di cui si dà notizia. O, ancora, dalle “necessità” di dover raccontare – e pubblicare – a tutti i costi, con i rischi che ciò comporta: il caso della strage (inesistente) di Timisoara, che si ripercorre nel libro, appare esemplare.

Infine, molte informazioni – moltissime – che ci raggiungono hanno un valore insignificante nella costruzione dell’opinione, mentre informare significa comunicare un contenuto: su questo tema il problema è evidente.

Quali sono alcuni casi significativi di disinformazione d’antan?
I saggi di Sandro Landi, Katia Visconti, Ezio Vaccari e Andrea Candela contenuti nel volume ne ripercorrono diversi: dalle riflessioni di March Bloch sulla diffusioni di fake news durante la prima guerra mondiale alla diffusione della Storia dell’indipendenza degli Stati Uniti di Carlo Botta, alle falsificazioni dei reperti fossili – le paleontological fakes – fino alle “prodigiose” possibilità dei Raggi X. L’idea è mostrare un lungo filo rosso di continuità nella storia legata appunto, ai rumors, alle bufale, alle fake news in una logica di costruzione dell’opinione pubblica, che sfrutta non poco anche antiche credenze e superstizioni per arrivare al sensazionalismo dell’età contemporanea.

Quali dinamiche sociali, culturali e politiche alimentano la disinformazione contemporanea?
Se per disinformazione intendiamo la diffusione di notizie falsanti – deliberate o meno – io credo che uno tra i problemi più rilevanti sia la perdita di credibilità dei “leader (intermedi) di opinione”. La sovrabbondanza di luoghi di reperimento delle notizie ha portato a una sorta di “uno vale uno” anche nel mondo della costruzione dell’opinione. A questo punto, però, la ricezione delle notizie – o dei contenuti, in generale – scavalca i leader di opinione, cioè (come ha scritto tra i molti anche Giovanni Sartori) le “autorità cognitive”, coloro ai quali ci rivolgiamo per comprendere a chi credere e di chi “dobbiamo fidarci”. In altri termini, nessuno nega l’importanza ad esempio del citizen journalism, nondimeno “informare” è una professione, richiede una preparazione specifica, professionale, culturale approfondita, appunto, insieme a una sensibilità che deriva dall’etica e dalla deontologia.

Vi è poi un’altra questione: informarsi significa investire tempo, è un costo. Le dinamiche degli ultimi tempi mostrano invece che il tempo dedicato all’approfondimento – a creare una massa critica che porti ad una opinione autonoma e non eterodiretta – stia calando sensibilmente.

Di quale utilità può essere, nel contrasto alla disinformazione, un approccio multidisciplinare?
Come mostra il volume, tutte le discipline, tutte le aree scientifiche e disciplinari – dal diritto alla zoologia, dalla medicina alla storia – sono ugualmente investite da questo problema, soprattutto nel campo decisivo della divulgazione dei risultati.

Nondimeno, accumulare nozioni specifiche non è sufficiente per comprendere la complessità dei problemi: anzi soprattutto la divulgazione richiede il superamento degli obsoleti steccati rigidi delle discipline, che risultano sempre più intrecciate. Un esempio “storico”, tra i molti, potrebbe essere la vicenda di Chernobyl: per comprendere tutta la questione nella sua complessità è necessario conoscere la storia, l’ambiente, l’economia, la scienza, la politica (si pensi alla glasnost di Gorbaciov) e ancora come il caso sia stato trattato dal mondo dell’informazione, come abbia inciso nella costruzione dell’opinione pubblica. L’approccio multidisciplinare, come pare ovvio, è assolutamente necessario sia ai fini della ricerca, sia per le ricadute dei risultati, sia per l’informazione e la divulgazione.

Quale contributo possono offrire, a riguardo, la filosofia e il diritto?
Come ha ben evidenziato nel libro Fabio Minazzi, la filosofia, fin dalla sua genesi greca, si è posta il problema della conoscenza vera (episteme) da contrapporre all’opinione falsa (doxa). Il serrato confronto di Socrate e Platone con i sofisti trae origine proprio da questa esigenza. I sofisti “rendono migliore l’argomento peggiore” (le fake news), ma lo fanno utilizzando, appunto, il logos. Quindi occorre contrapporre loro un logos più rigoroso e criticamente corretto, onde formulare una conoscenza in grado di esibire le proprie argomentazioni, pubbliche ed intersoggettive. Da allora fino ad oggi la filosofia ha incarnato l’ideale di questo spirito critico con il quale ogni cultura cerca di render ragione di se stessa e nel farlo deve, inevitabilmente, scontrarsi coi suoi limiti storici. Per questa ragione di fondo chi vive per le idee è sempre pericoloso per il potere costituito e d’altra parte non potrebbe fare diversamente.

In merito al diritto invece, come sottolinea Chiara Perini, nel volume la disinformazione è considerata, in particolare, dal punto di vista del diritto penale. Come emerge dal saggio, è importante sottolineare, innanzi tutto che il diritto associa in alcuni casi una pena alla diffusione di notizie false, quando ciò può rappresentare un rischio per la tutela di beni rilevanti, mentre non è interessato a presidiare la verità dell’informazione in sé, anche alla luce del riconoscimento costituzionale della libertà di manifestazione del pensiero (art. 21 Cost.). Nondimeno, la disinformazione gioca poi un ruolo fondamentale nel canalizzare i flussi di consenso sociale che risultano determinanti, nel dialogo a distanza tra collettività e classe politica, nella formazione della legislazione penale.

Quali novità introducono, nel contrasto alla disinformazione, i più recenti approcci computazionali?
Nel volume il contributo molto innovativo e chiaro di Giancarlo Ruffo e Marcella Tambuscio mostra con precisione come per quanto la disinformazione non sia affatto un fenomeno nato con l’informatica, è indubbio che Internet, il Web ed i social media ne abbiano determinato una diffusione mai vista prima in termini di velocità virale e di volumi di individui coinvolti nella sua propagazione.

A questo processo fanno da contraltare elementi automatici sorti proprio nell’era dei computer e della comunicazione digitale: troll, bot, camere d’eco, bolle informative, tutti aspetti che possono essere manipolati e controllati ad arte per determinare un successo della fake-news o dell’informazione di cattiva qualità a scapito della verità. Al contempo, l’informatica consente anche di trovare soluzioni per contrastare la disinformazione: i bot ed i troll hanno comportamenti ‘meccanici’, per quanto sofisticati, oppure seguono delle agende ben precise ed in quanto tali possono essere riconosciuti automaticamente; la possibilità di creare nuove amicizie o di iscriversi a gruppi di discussione che fanno capo a punti di vista diversi riduce la probabilità di trovarsi intrappolati in bolle informative ed in meccanismi di ‘groupthinking’; lo stesso processo di “contagio” dell’informazione e della sua smentita corrispondente (debunking) può essere oggetto di studio grazie a modelli, simulazione e osservazioni come mai prima d’ora ci è stato consentito di fare.

Che ruolo possono svolgere le comunità interpretative nel contrastare la disinformazione?
Se ad esempio prendiamo quanto scrisse cinque secoli fa John Milton nella Areopagitica – “chi ha mai visto la Verità avere la peggio in uno scontro libero e aperto?” – le “comunità interpretative” potrebbero svolgere un ruolo molto rilevante. Nondimeno, tali “comunità” sovente diventano, per chi le frequenta, una sorta di “confort zone”, un luogo – virtuale o fisico – dove le persone si rifugiano per trovare conferme alle loro convinzioni già acquisite, ignorando quindi le alternative. Gli studi sui confirmation bias paiono confermare questa tendenza, purtroppo, che porta addirittura a confondere realtà e finzione, storia e letteratura, fantasia e fatti reali.

Quali le conseguenze per l’ecosistema della comunicazione?
Come già accennato, anche dal saggio di Miguel Salerno contenuto nel volume emerge con chiarezza come parlare di disinformazione possa implicare il riconoscimento di una chiara volontà. Possa implicare, in altre parole, partire dalla premessa che qualcuno, in modo consapevole diffonde informazioni false, parziali, fuorvianti. Non è un fenomeno nuovo. Quello che però possiamo identificare come specificità dell’ecosistema mediale contemporaneo, caratterizzato dall’iperinformazione, dalla comunicazione orizzontale e globale e dalla difficoltà per valutare credibilità e autorevolezza è l’accentuazione del fenomeno delle echo chambers o camere dell’eco: situazioni nelle quali gli individui ricevono soltanto le informazioni coerenti con le proprie idee, anche grazie ai filtri che consapevolmente (scegliendo le persone dalle quali accettare le informazioni) o involontariamente (attraverso gli algoritmi). Quello che vediamo in questo periodo – in particolare in relazione a situazioni che chiamano in causa la sfera etico-valoriale come il Covid-10 o la guerra è che non solo gli individui tendono ad evitare le informazioni in conflitto con le proprie convinzioni ma le ritengono parti di una strategia disinformativa vera e propria. L’accusa di disinformazione, in altre parole e bi (o multi)direzionale. Ogni gruppi ritiene “informazione” solo quella che conferma le proprie idee e disinformazione tutto il resto, chiudendo di fatto la possibilità di qualsiasi dibattito. E questo è forse il vero problema.

Antonio Maria Orecchia è professore associato di Storia contemporanea presso l’Università degli Studi dell’Insubria. Si occupa di politica e istituzioni in età contemporanea, di storia del giornalismo e del correlato processo di costruzione e indirizzo dell’opinione pubblica. Tra le sue pubblicazioni, La moralità dell’antifascismo. Guido Bersellini e il suo impegno politico, intellettuale e civile per il rinnovamento dell’Italia (2018); Lo «Spettro del federalismo». La ricostruzione dell’Italia e le libertà locali tra politica, stampa e opinione pubblica in Lombardia nel secondo dopoguerra (2017); Il «fiume carsico». Federalismo e centralismo nel dibattito pubblico tra Lombardia e Italia (1945-1953) (2017); La difficile Unità. Storia di ieri, cronaca di oggi (2011); La Stampa e la Memoria. Le foibe, l’esodo e il confine orientale nelle pagine dei giornali lombardi agli albori della Repubblica (2008); Gabrio Casati patrizio milanese patriota italiano (2007).

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