
Dunque. Nell’universo esistono stelle così massicce – fino a cento volte la massa del nostro Sole – che rischierebbero di rimanere schiacciate sotto il loro stesso peso. Il calore prodotto dalla fusione dell’idrogeno, tuttavia, genera una pressione capace di controbilanciare la forza di gravità, garantendo la stabilità della stella e impedendole di sprofondare su se stessa. Insomma, fintanto che c’è combustione la situazione è tranquilla, e in genere ci vogliono miliardi di anni prima che una stella esaurisca tutto il carburante di cui dispone. D’accordo, e poi? Cosa succede quando finisce il carburante? Succede che la stella non trova più nulla da bruciare, per cui la temperatura scende e la gravità prende il sopravvento – ricordate?, è il calore a controbilanciare il peso. A questo punto la stella è spacciata, comincia a collassare, rimpicciolisce sempre di più, finché non diventa talmente densa da bucare la trama stessa del cosmo. Di colpo il tempo si ferma, smette di scorrere. Lo spazio si stira e si lacera. Ci siamo. Un guscio oscuro avvolge tutto: si è formato un buco nero.
«Se dopo aver attraversato l’orizzonte del buco nero – il confine che lo separa dal resto dell’universo – proviamo a mandare un raggio di luce all’indietro, verso l’esterno, per farci vedere, il raggio di luce non esce». Dentro il guscio, infatti, la forza di gravità è così forte che niente, una volta entrato, è in grado di uscire. Nemmeno la luce. Tutto rimane impigliato all’interno, come una formica che cerca invano di risalire la parete liscia di un lavandino. Ma anche sulla superficie del buco nero, lungo l’orizzonte degli eventi, accadono cose piuttosto strane. Per effetto della gravità il tempo scorre lentissimo: un’ora trascorsa qui corrisponde a centinaia d’anni trascorsi sulla Terra, benché avvicinandoci all’orizzonte non ci accorgeremmo di nulla – questo perché l’orologio rallenta solo se “visto” da lontano, da un’altra prospettiva, per esempio quella di un osservatore che ci guarda dalla Terra. È un concetto che può apparire assurdo, difficile da assimilare, ma è stato predetto più di cento anni fa da Einstein, e nel libro viene spiegato con abbagliante chiarezza.
Bene. Se siete arrivati fin qui, forse vorrete sapere che cosa succede alla stella dopo che è cascata nel buco nero. Non penso di rovinarvi la lettura dandovi qualche altra informazione. Oltrepassiamo l’orizzonte e scendiamo nel buco nero.
L’interno lo conosciamo, è perfettamente descritto dalle equazioni di Einstein. Si tratta di una specie di imbuto molto lungo e molto stretto, tanto più lungo e stretto quanto più il buco nero è anziano. Laggiù, al fondo dell’imbuto, si trova la stella. Stritolato dalla gravità, lo spazio continua ad allungarsi e a stringersi, fino a diventare un punto cieco e sordo, una singolarità. «Poi? Poi basta. Lo spazio si è schiacciato, il tempo finisce. Sbattiamo contro un muro. A prendere per buona la teoria di Einstein, il tempo finisce qui». Improvvisamente siamo rimasti senza guida, le equazioni di Einstein smettono di funzionare e noi perdiamo il nostro Virgilio. Ma come si esce da questa empasse? E dal buco nero?
Grazie a un’intuizione, che sempre attraversa chi cerca di dipanare i misteri della natura. «Hal – ai tempi uno degli studenti di Rovelli – è nel mio studio, in piedi davanti alla lavagna. […] Sta cercando di dirmi qualcosa che non capisco. Un’idea su cosa possa capitare a un buco nero nel momento preciso in cui finisce la sua lunga vita». L’idea è la seguente: un salto al di là del tempo. Una rottura del continuo spaziotemporale. La stella defunta, arrivata alla fine della sua corsa, non sbatte contro un muro e basta, ma rimbalza. Torna indietro e nel futuro. In questo modo il tempo è rovesciato, e l’imbuto si allarga e si accorcia. Il buco nero, insaziabile divoratore di mondi, si è trasformato nel suo fratello minore: l’elusivo e impalpabile buco bianco. La parte più interessante dell’intuizione di Hal? Che per quanto tutto ciò possa sembrare folle, i calcoli sono esatti. Il fenomeno è descritto magnificamente dalla teoria alla quale Rovelli ha dedicato la sua intera vita: la gravità quantistica a loop. Eureka!
Questa, più o meno, è la trama del libro, il viaggio lungo miliardi di anni, e al tempo stesso una frazione di secondo, attraverso i buchi neri e i buchi bianchi. Non è un caso che utilizzi la parola “trama”. Buchi bianchi è qualcosa di più che un saggio scientifico: è un interessante cortocircuito tra narrativa e saggistica. L’autore, in queste poche pagine, ci mette dentro tutto ciò che lo riguarda, come studioso e come essere umano: la propria sensibilità, le proprie ossessioni, il proprio passato e il proprio futuro. Il successo straripante di Rovelli è dovuto soprattutto alla sua capacità di sondare, con precisione e incanto e slancio poetico, le questioni più affascinanti della fisica, senza inciampare negli inutili fardelli divulgativi, che sempre depotenziano la bellezza scientifica. Carlo Rovelli è un giocoliere della scienza. Aprite una qualsiasi delle sue opere, resterete stregati dalla lingua non comune e dalla prosa limpida e delicata.
Che altro possiamo dire, in conclusione? All’inizio del libro ci veniva promesso un viaggio, ricordate? Promessa mantenuta. L’autore ci accompagna in questa vertiginosa esperienza, inseguiti da una curiosità insaziabile e furibonda, finché non sbuchiamo in un altrove. E qui, in questo altrove, al termine di un viaggio intenso ma breve – va sempre a finire così, con le storie belle: vorremmo che non finissero mai -, accade qualcosa che è proprio della letteratura: “rivelazione” mi sembra il termine più adatto. Insomma, se siete affascinati dalla scienza e al tempo stesso volete leggere un’opera letteraria, Buchi bianchi di Carlo Rovelli fa sicuramente al caso vostro.
Gabriele Olivo