“Brodo nero. Educazione spartana” di Sergio Valzania

Brodo nero. Educazione spartana, Sergio ValzaniaBrodo nero. Educazione spartana
di Sergio Valzania
Editoriale Jouvence

«Sparta classica è una società segreta. Raggiunto l’equilibrio dopo la vittoria nelle guerre messeniche, alla fine del settimo secolo a.C., in Laconia si stabiliscono rigide leggi in base alle quali agli stranieri è proibito frequentare liberamente la regione. Norme simili a quelle che nella Russia sovietica ponevano forti restrizioni alla mobilità turistica, persino a quella interna. Di notte la circolazione è resa pericolosa, attraverso il meccanismo della kripteia, mentre lo stesso sistema commerciale è mortificato dal mantenimento in essere dell’uso monetale di arcaiche barrette di ferro, scomparse fin dalla metà del sesto secolo dagli scambi in tutto il resto della Grecia, anche dalle regioni del Peloponneso non soggette al potere diretto degli Spartani.

Ma Sparta non è segreta solo perché non vuol farsi vedere nè incontrare. A fianco del celarsi e del ritrarsi dai contatti culturali e commerciali, la società lacedemone ha prodotto una potente propaganda che proietta sul mondo esterno una forma spartana appositamente creata, destinata a intimorire i membri delle altre comunità e a costringerle a mantenere una posizione di soggezione nei suoi confronti. Di questa propaganda fanno certamente parte una consistente aliquota delle storie tenebrose che si raccontano sulla formazione degli Spartani, sulle tremende regole alle quali sono capaci di sottoporsi e sulle prove di indomito coraggio individuale che essi forniscono.

Questo consente il mantenimento di un prestigio e di una autorità indiscusse in tutta l’Ellade. Nelle guerre persiane i capi militari di ogni contingente misto sono sempre Spartani, persino a Salamina, dove il grosso delle forze navali era fornito dagli Ateniesi. Durante la guerra del Peloponneso era consuetudine che gli Spartani contribuissero solo col comandante e con ristretti stati maggiori alla formazione degli eserciti e delle flotte che la coalizione metteva in campo contro Atene.

Le fonti sono ricche di tracce delle due attività: copertura dell’esistente e creazione di un’immagine propagandistica. Una loro ricognizione sistematica e completa esula dagli obiettivi degli scritti raccolti in questo volume. Qui basta ricordare, a titolo di esempio, la doppia norma per la quale è proibito agli Spartani viaggiare e agli stranieri soggiornare in Laconia senza una precisa ragione, attribuita da Plutarco a Licurgo.

Sempre Plutarco cita un celebre passo di Tucidide nel quale lo storico ateniese racconta di un massacro perpetrato ai danni di duemila Iloti; essi avrebbero chiesto di essere liberati dallo stato servile in forza dei servigi resi alla città nel corso dello sfortunato episodio di Sfacteria. Si trattò della più grave sconfitta spartana nel corso del V secolo, in termini di immagine molto più dannosa di quella delle Termopili, con i suoi trecento caduti più pesante in termini di vite umane ma utilissima sul terreno della promozione del mito bellico spartano. A Sfacteria la morte di centoventotto uomini ed il ferimento di quasi tutti i duecentoventinove superstiti non fu, agli occhi del mondo greco, sacrificio sufficiente a tenere alto il prestigio spartano. Durante l’assedio che precedette l’annientamento del contingente, i rifornimenti agli opliti che lo costituivano e che erano rimasti bloccati sull’isola di Sfacteria, erano stati garantiti dall’eroismo e dall’abnegazione degli Iloti che di notte raggiungevano l’isola, forzando il blocco ateniese a nuoto o a bordo di piccole imbarcazioni.

Anche Diodoro riporta l’episodio del massacro degli Iloti e a differenza di Plutarco lo fa collegandolo al contesto nel quale è presentato in Tucidide, ossia quello dei preparativi che venivano effettuati in vista della spedizione brasidea. Proprio questo contesto rende la notizia sospetta e ci lascia credere piuttosto a una mossa di controinformazione: la diffusione di un messaggio falso per confondere il nemico in maniera duplice, rafforzandolo nella sua convinzione dei modi iperviolenti in vigore a Sparta e soprattutto tenendogli nascosta il più a lungo possibile la reale motivazione per la quale erano stati reclutati gli Iloti più valorosi e più capaci. Tucidide non è estraneo alla giustapposizione di due spiegazioni dello stesso avvenimento, o di due testi di un medesimo trattato, in vista di una rilettura sistematica dell’opera che non fu mai portata a termine. La sua Guerra del Peloponneso venne infatti edita da mani diverse da quelle dell’autore e ha diversi gradi di rifinitura al proprio interno, dal testo definitivo agli appunti.

Al momento dei sanguinosi fatti raccontati da Tucidide nel celebre passo, la situazione a Sparta era grave: già in profonda crisi demografica, endemica o eccezionale che fosse, la città aveva subito da pochi mesi il rovescio di Sfacteria. Il rifiuto ateniese ad accettare una pace di compromesso costringe gli spartani a proseguire nella guerra e a tentare una mossa disperata: l’invio di un forte contingente oplitico in Tracia e Calcidica, via terra, nella speranza di danneggiare seriamente gli interessi ateniesi in quelle regioni e di modificare così il corso del conflitto.

Nè gli Spartiati, recentemente decimati a Sfacteria, nè i Perieci sono in grado di fornire gli uomini necessari a costituire il contingente oplitico destinato a tentare l’impresa, perciò si decide di autorizzare Brasida, il generale che ha proposto la spedizione e al quale ne è stata affidata la realizzazione, ad arruolare, armare e addestrare un esercito ilotico, al quale la componente politicamente attiva della comunità fornirà i soli quadri di comando. Tralascio gli aspetti relativi alla contiguità culturale nella quale gli Iloti dovevano vivere con i membri opliti della cittadinanza perchè tale operazione risulti tecnicamente possibile. La condizione oplitica non si riduce agli elementi della panoplia, ma corrisponde alla partecipazione a una cultura ed alla condivisione dei suoi valori con gli altri combattenti che contribuiscono alla formazione della falange.

Qui ci interessa piuttosto notare quanto appaia estranea a questo contesto di conferma della solidarietà della comunità, dopo concrete prove di fedeltà offerte dalla componente ilota a Sfacteria, e in vista di una spedizione per la quale sono necessarie tutte le energie disponibili, una strage di proporzioni gigantesche, duemila persone, più di tre volte i caduti ateniesi ad Anfipoli e il doppio di quelli di Delio, ai danni del gruppo sociale che si sta proponendo come salvatore di tutta la società spartana. Bisogna aggiungere che al loro ritorno dalla Calcidica, nell’estate del 421 a.C., i cosiddetti brasidei si vedranno pienamente riconosciuti i meriti acquisiti combattendo con la concessione della libertà promessa. Con altri cittadini di status sociale analogo essi verranno insediati a Lepreo, al confine della Laconia con l’Elide, in un importante ruolo di controllo militare della regione. Tre anni dopo, nel 418, i brasidei combattono e vincono la battaglia di Mantinea inquadrati nell’esercito spartano, a riprova della loro piena integrazione nella comunità cittadina ad un livello compatibile con l’esercizio continuato del ruolo oplitico.

Nonostante questi eventi rendano assolutamente incredibile un rapporto fra Spartiati e Iloti compatibile col massacro di duemila persone scelte fra le migliori, esso ci viene ancora tramandato in parallelo con l’armamento dei settecento, il loro invio in Tracia e la loro fedeltà continuativa, in territori lontani e poi di nuovo in Laconia.

Se la grande produzione di immaginario propagandistico spartano ci appare evidente dalle fonti, molto meno sappiamo sulle modalità della sua creazione e della sua trasmissione verso l’esterno. Terminata la stagione dei grandi poeti, da Tirteo ad Alcmane, per quanto spartani essi potessero essere di nascita o di cultura, Sparta diventa muta. Affida a stranieri, quasi esclusivamente ateniesi, la trasmissione di una tradizione comunque ricchissima di materiali a livello di azioni, imprese e gesta eroiche, e di apoftegmi, aneddoti e frasi brillanti, che vengono raccolti numerosissimi nell’opera di Plutarco proprio perché esistono in abbondanza e circolano ancora, dopo che la città che li ha prodotti è divenuta una località turistica visitata dai ricchi viaggiatori dell’impero romano.

Proprio Plutarco ci racconta che per abolire lussi e ricchezze nella vita dei propri concittadini Licurgo istituì “la terza e più bella” delle sue riforme legislative: l’obbligo per tutti gli uomini di frequentare le mense comuni, i sisizi. Anche il modo di mangiare spartano doveva essere particolare e persino i piatti della sua gastronomia ambivano al mito: “fra le pietanze a Sparta era rinomato soprattutto il brodo nero, tanto che gli anziani non richiedevano neppure la carne ma la cedevano ai giovinetti, e si saziavano versandosi il brodo”.

Plutarco prosegue narrando l’apoftegma della cucina spartana, nel quale si racconta del re del Ponto, che desideroso di gustare la celebrata prelibatezza acquistò un cuoco in grado di preparargliela. Quando venne il momento dell’assaggio il grande personaggio rimase molto deluso; alle sue rimostranze il cuoco rispose che per apprezzare il brodo nero bisognava prima fare il bagno nell’Eurota. Non si acquista con il denaro il palato spartano.

Negli scritti che seguono ho tentato di realizzare, senza alcuna intenzione esaustiva, qualche schizzo della società certamente separata e apparentemente guerrafondaia che dominò la cultura greca dalla metà del VII all’inizio del IV secolo a.C. Con una immagine troppo ardita si potrebbe arrivare a ipotizzare che l’hybris di conquista e di creazione di imperi senza confini che alla fine perse la società ateniese del quinto secolo nascesse proprio da un senso di inferiorità nei confronti degli Spartani, dal quale gli Ateniesi non riuscivano a liberarsi e che veniva costantemente riconfermato dai suoi pensatori più prestigiosi. Nel percorso da Erodoto a Senofonte, attraverso Socrate, Tucidide e Platone, la valutazione degli Spartani e del loro modo di vivere acquista di stima e considerazione.

Eppure Sparta, appunto perché società segreta, ci sfugge. Soprattutto quando la nostra ricerca va al di là del cosa accadde, o ne resta al di qua, consapevole dell’impossibilità di una conoscenza compiuta dei fatti del passato, per domandarsi cosa pensassero di sè e degli accadimenti che vivevano i protagonisti delle azioni che indaghiamo.

La grandezza di queste azioni e la capacità narrativa di quanti ce le hanno riferite (è stato scritto che l’esistenza storica della guerra del Peloponneso non aggiunge nulla alla valutazione di Tucidide come gigante della letteratura), ci spingono a interrogarci ancora sui pensieri e le azioni dei membri di una piccola comunità stanziata quasi tremila anni fa sulla punta estrema della penisola balcanica: una società contadina nella quale almeno l’élite si sentiva felice e assolutamente partecipe della vita collettiva del gruppo e dei suoi valori. Sono frequenti le notazioni sulla lentezza degli Spartani nel prendere decisioni, sulla loro radicata tendenza a mantenere lo status quo, sulla loro scarsa propensione ad allontanarsi dalla propria città e anche sulla bellezza delle loro feste, segrete e invidiate dagli altri Greci. Scandalizzati dalle danze che le giovani spartane eseguivano nude, preparandosi così a diventare le rigide matrone che la tradizione ha consegnato alla storia.»

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