“Briganti d’Italia. Storia di un immaginario romantico” di Giulio Tatasciore

Dott. Giulio Tatasciore, Lei è autore del libro Briganti d’Italia. Storia di un immaginario romantico edito da Viella: quali vicende segnano l’edificazione del registro romantico del tipo del brigante italiano?
Briganti d’Italia. Storia di un immaginario romantico, Giulio TatascioreForse bisogna intendersi su cosa voglia dire questa parola, altrimenti un po’ astratta: romantico. Nel libro si fa riferimento a una generale sensibilità romantica, un sistema di rappresentazioni multiforme e dinamico che è nutrito costantemente da narrazioni e stereotipi, ma anche dalle pratiche di consumo culturale, da quelle di viaggio, da quelle della repressione. Tutto un immaginario del brigantaggio si mette in moto con l’avvio nello scenario europeo dell’età romantica, con una vera e propria «banditti mania» che mescola efficacemente teorie estetiche, descrizioni sociali, prospettive politiche. E ancora mode letterarie, strategie commerciali, retoriche pubbliche. La prima operazione da compiere è quella di liberarsi del luogo comune secondo cui dire “romantico” significhi alla fin fine parlare del mito del brigante, dell’idealizzazione del fuorilegge cortese e idealista. C’è quello, ma poi c’è molto altro che credo sia non meno interessante.

In questo senso, il volume affronta un vorticoso racconto collettivo che si sviluppa a partire almeno dall’ultimo quarto del Settecento e che si consolida per tutto l’Ottocento, mutando di segno o di forma, procedendo per sedimentazione o per improvvise e magari inaspettate riattivazioni. Ho cercato infatti di considerare il brigante come categoria del discorso sociale sul crimine in un periodo complesso, marcato da cambiamenti profondi sul piano culturale come sul piano politico. L’età delle Rivoluzioni e delle Controrivoluzioni offre la straordinaria possibilità di problematizzare l’impasto di letteratura, crimine e politica che, a mio avviso, è al cuore delle mutevoli declinazioni del brigante e del fenomeno del brigantaggio. Si tratta di nessi che, al tempo del Romanticismo e del Risorgimento, configurano le più svariate utilizzazioni delle figure criminali all’interno della sfera pubblica. Simili meccanismi, spesso considerati nei termini di mere descrizioni dell’universo marginale o ricondotti a paradigmi totalizzanti, possono essere viceversa osservati come vettori di elaborazione delle identità collettive, e quindi come segmenti non trascurabili della realtà sociale.

Il tipo del brigante italiano, con il suo costume esotico e pittoresco, diventa allora una figura “totale”, nel senso che mobilita un repertorio sconfinato di fonti (dal romanzo al teatro, dall’iconografia alla trattatistica, dall’aneddotica agli studi geografici…). Questi repertori, tra loro in dialogo, testimoniano altrettanti modi di costruire il brigante, di interpretarlo e metterlo per così dire in scena o in pagina.

Il registro romantico è frutto di una genealogia complessa e stratificata. Il punto di partenza, tuttavia, è dato dai Masnadieri di Friedrich Schiller, un dramma il cui influsso è difficilmente sopravvalutabile e che coincide con l’apparizione dello stesso eroe romantico. Determinante nel proiettare sul brigante l’aspirazione alla libertà contro i poteri dispotici e arbitrari, il lavoro schilleriano è anche un punto di condensazione di categorie estetiche emerse in Antico regime e che faranno del brigante l’emblema del dissidio tipicamente romantico. Tali dinamiche generano ulteriori declinazioni in chiave politica e morale, facendo sì che tra i vecchi repertori descrittivi della devianza e i ripensamenti di ascendenza illuministica si verifichi una sorta di cortocircuito, destinato a deflagrare con la Rivoluzione francese. Se già intorno alle guerre rivoluzionarie e alle loro conseguenze si registra la popolarità mediatizzata di figure specificamente italiane, è poi possibile seguirne le tracce attraverso un genere letterario che gode di grande fortuna tra gli anni Novanta del Settecento e il primo quarto dell’Ottocento, il romanzo dei masnadieri. E se certa narrativa sviluppa il tipo schilleriano attribuendo al brigante valori positivi, con il contestuale erompere del romanzo gotico il fulcro si sposta sugli effetti dell’estetica del terrore burkiano. In particolare: sull’impasto di funzione psicologica e attributi connotativi legati ai cosiddetti banditti cinque-seicenteschi, riletti a posteriori mediante il recupero dell’arte barocca di Salvator Rosa nella formulazione delle categorie del pittoresco e del sublime.

Così, già al tornante del secolo i briganti sono ovunque, e prendono significati ambivalenti. Assassini, orchi, mostri. Ribelli, reietti, ladri romanticamente sublimi. A volte, ed è allora che le cose funzionano davvero, i messaggi si accavallano. Formulazioni del genere hanno un impatto tangibile nel consumo culturale non necessariamente colto, fatto di circuiti mediatici primordiali, ma già straordinariamente efficaci e immersivi. Questa storia, del resto, si inscrive a pieno titolo nel percorso di definizione delle identità regionali e prende piede nel più generale avvento dei costumi folkloristici con cui i tipi sociali prendono a essere classificati. L’immissione del brigante italiano nelle varietà dei tipi umani risponde, insomma, a processi attraverso cui concetti fino a un dato momento disgregati si addensano e formano un costrutto coerente e, dettaglio non secondario, condiviso in ambiti socialmente trasversali.

Quali caratteri assumono le rappresentazioni primo ottocentesche dei briganti?
Per rispondere bisogna fare una premessa. Questa ricerca si basa su una metodologia che non tiene conto del carattere letterario o scientifico propugnato nei singoli testi. Ma tiene conto, semmai, della presenza ricorrente o meno di determinati linguaggi, parole, formulazioni. Ho quindi integrato scritti politici e diari di viaggio, celeberrimi romanzi e melodrammi misconosciuti, analisi sociali e prodotti di consumo senza disporli in gerarchie estetico-morali precostituite, ma valutandone di volta in volta la capacità di cristallizzare passaggi di senso o determinare punti di svolta nella cronologia. Su questa base ho seguito un percorso a tappe, per quanto le scansioni temporali siano dettate da una diffusione di stilemi e griglie interpretative che rimane fluida, le cui linee di periodizzazione si inscrivono entro quadri più complessi, più lunghi. Il libro identifica alcune sequenze tematiche consecutive, associate all’emersione o all’edificazione di un motivo dominante e a uno specifico contesto politico-culturale.

Tra queste, comunque, un punto di svolta sta nel progressivo delinearsi del paradigma della «classe criminale». Sarebbe a dire l’idea, in embrione sul finire del XVIII secolo e diventata un luogo comune intorno agli anni Venti dell’Ottocento, che tra i tanti tipi dei bassifondi si nasconda un gruppo sociale inesorabilmente altro, una criminal class caratterizzata secondo l’elaborazione romantica del concetto di popolo da tradizioni e costumi autonomi, da abitudini comportamentali e, infine, da un linguaggio, il famigerato argot. La concezione diffusa a più livelli dell’esistenza di una contro-società del crimine delimitata, localizzata e naturalizzata – con la sua aristocrazia, la sua borghesia e il suo proletariato, separata ma pericolosamente vicina agli ambienti degradati dei ceti popolari e delle reti sovversive – è un tratto essenziale della cultura ottocentesca. Credo però che anche per i briganti italiani, come per le gang di ladri acquattati nei vicoli urbani delle «classi pericolose», valga la tendenza a considerarli come elementi di un circuito chiuso o, per meglio dire, di quel “popolo a parte” che sono i criminali. Secondo questa prospettiva i briganti formerebbero un gruppo sociale definito, distinto non solo dal resto della comunità pacifica, ma anche dai delinquenti comuni. Alcune specifiche qualità, morali e comportamentali, li connotano in modo decisivo e permettono di incasellarli in un campo autonomo all’interno della tassonomia criminale, dando loro un peculiare colore locale sintetizzato dal cappello a punta, quell’autentico simbolo reso celebre dagli artisti ottocenteschi, ornato di nastri e con le icone sacre a rivelare il carattere superstiziosamente religioso dei briganti, all’incrocio tra vizio e virtù.

Le rappresentazioni primo ottocentesche sono largamente influenzate da questo paradigma, con cui non a caso si confronteranno gli astri nascenti dall’incipiente cultura positivista, ormai a cavallo degli anni Settanta dell’Ottocento. Si apre allora la stagione segnata dall’esaurimento dell’immaginario del «brigantaggio classico», come lo definiranno i rampanti antropologi criminali. Una stagione, dunque, nella quale si fanno strada interpretazioni che, pur senza spezzare il filo con la rappresentazione delle classi criminali metropolitane e rurali, ne offrono letture rinnovate nel profondo. Per un lato adottando i criteri di matrice biologica e scientista che Cesare Lombroso impone pubblicando nel 1876 la prima edizione dell’Uomo delinquente in cui si enuncia la tesi dell’atavismo criminale. Dall’altro lato, le disparità interne al giovane Stato nazionale stimolano delle prospettive che, confluite nella Questione meridionale, inducono ad attivare uno sguardo di taglio economico-sociale le cui basi poggiano ormai sulla coppia arretratezza-sviluppo. I “veri” briganti, tramontati, appariranno allora e sempre più come un’eredità del dispotismo borbonico-clericale, oscurata tuttavia dalla moderna malattia degenerativa, quel crimine organizzato che si incarna nelle forme temibili della mafia e nella camorra.

In che modo, nella rivolta popolare antirisorgimentale, si intrecciano questione criminale e questione politica?
Ogni tipo criminale, come figura culturalmente costruita, incarna una forma di esteriorizzazione delle dinamiche sociali. In quanto tale, è figlio del suo tempo. Per questo nel volume ho cercato, anzitutto, di far emergere la dimensione situata dagli immaginari. La figura del brigante però è immersa in un campo di rappresentazioni ad alta tensione, che è decisamente segnato dalla conflittualità politica e, in particolare, dalle vicende del Risorgimento. Si può dire, anzi, che il brigante rappresenta un attore permanente del conflitto ottocentesco, sia in termini operativi e paramilitari, come la storiografia ha da tempo accertato, sia in vesti più sfuggenti, una sorta di fantasma che di volta in volta si concretizza nei panni dell’insorgente legittimista oppure del patriota cospiratore.

L’intreccio tra questione criminale e questione politica è quindi un dato strutturante della costruzione culturale del brigante. Questo elemento costitutivo emerge con chiarezza al tempo della Rivoluzione francese e delle guerre napoleoniche, ma in realtà vive in maniera larvata già nella filosofia politica tardo-settecentesca. Dopo il trauma del 1789, il campo semantico del brigandage si riconfigura e si sintonizza sulle frequenze ideologiche e lessicali di un mondo in rapido movimento. Come spesso in passato, i briganti restano un catalizzatore delle ansie collettive e incarnano un’icona emblematica, ma inesorabilmente ambigua, di una brutalità che appartiene alla violenza della guerra almeno quanto all’efferatezza criminale. Però, il loro profilo si politicizza, con accezioni polisemiche e secondo uno schema che si replicherà ben presto nello spazio italiano. Come nel decennio rivoluzionario francese, anche nelle grandi fratture del Risorgimento verranno additati come briganti coloro che si oppongono al cambiamento politico, e nelle congiunture controrivoluzionarie saranno chiamati briganti, stavolta dai governi reazionari, i fautori della trasformazione, moderati o radicali che siano.

A tal proposito, oramai può sembrare quasi paradossale sostenere che se c’è una famiglia politica che è stata capace di fare del brigante un emblema dell’identità più intima e profonda della nazione, della battaglia contro oppressori e tiranni stranieri, quella è proprio la cultura risorgimentale, molto più che quella anti-risorgimentale. Soprattutto le componenti più radicali del movimento nazional-patriottico sono pronte a introiettare nella loro costellazione simbolica il tipo del proscritto, dell’irregolare e del criminale sublime. Eppure, la semantica veicolata dal canone risorgimentale e dai suoi derivati – in una comunicazione politica che fa leva sui melodrammi e i romanzi come sui catechismi rivoluzionari – concima un terreno ibrido, in cui le apologie del brigante-patriota si alternano con disinvoltura ad assolute condanne, sempre in funzione dei conflitti in atto.

A questi temi va accostata, per altri versi, l’identificazione del brigante come variabile strategica nei progetti insurrezionali che vanno susseguendosi a partire dagli anni Trenta, e che sempre più trovano nel Mezzogiorno borbonico il fulcro della rivoluzione nazionale incipiente. Autentico idolo giovanile o attore strategico della guerra per bande, il brigante “all’italiana” vive intorno al 1848 la sua fase di massimo splendore. Dopo la fragorosa sconfitta, però, il riflusso post-quarantottesco favorisce una ri-articolazione dei motivi della classe criminale e del brigantaggio organizzato. Si può allora osservare come il fronte unitario, tanto nelle sue componenti democratico-repubblicane quanto in quelle liberal-moderate, avvii una campagna denigratoria nei confronti dei governi borbonico e pontificio incentrata sulla criminalità come frutto del malgoverno e sull’utilizzazione dei delinquenti da parte delle polizie. La questione criminale re-impone all’attenzione dell’Europa il nesso tra briganti professionisti e ceti indigenti, contribuendo alla perdita di consenso del legittimismo. Il che conduce a una sorta di ritorno in scena dei «misteri» del brigantaggio e delle classi criminali dopo il fatidico 1861, con il deflagrare del conflitto post-unitario e un rinnovato protagonismo dei briganti. In questo contesto, sia il racconto filo-italiano che quello filo-borbonico si confrontano sul terreno degli aggregati delinquenziali di città e di campagna. Chi avrà vinto la battaglia culturale, oltre che la guerra irregolare, è cosa nota.

Naturalmente ci sono molti modi per parlare di brigantaggio. È un problema storiografico classico, la cui comprensione è stata a lungo condizionata da atteggiamenti di critica o difesa degli assetti scaturiti dal processo di unificazione. Sta di fatto che negli ultimi tempi il tema delle rappresentazioni ha preso un’assoluta rilevanza. Si potrebbe dire che l’immaginario del brigante giochi per certi aspetti un ruolo preminente nell’interpretazione della sua stessa agency in quanto attore storico, caricandola tuttavia di profili revanscisti – si pensi alla galassia neoborbonica, ma anche al fascino persistente del bandito sociale – o etnologici, con il recupero museale del brigante come “patrimonio identitario”. Il brigante non smette di movimentare l’immaginario sociale del nostro tempo, e anche per questo vale la pena rivolgersi all’indietro. Non per collezionare le immagini o i discorsi del passato, ma per decostruirne i lineamenti e metterne a nudo i significati.

Giulio Tatasciore (Pescara, 1989) è assegnista di ricerca all’Università di Salerno. È stato assegnista di ricerca alla Scuola Normale Superiore di Pisa e visiting fellow all’Université Sorbonne Paris Nord. Ha conseguito il dottorato di ricerca all’Università di Teramo, in cotutela con l’Université Paris Diderot-Paris 7. In precedenza, si è formato presso l’Università di Bologna e l’Université Paris Diderot-Paris 7. Si occupa di storia culturale e politica del lungo Ottocento.

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