
Molto semplicemente perché la disuguaglianza sta crescendo in molti paesi del mondo, oltre che tra diverse aree geografiche. Le faccio due esempi: il primo relativo alla disuguaglianza interna a uno specifico paese, e il secondo relativo alla disuguaglianza tra un paese che conosciamo bene—l’Italia—e altri paesi europei.
Primo esempio. Alla vigilia del grande crollo del 2008, la disuguaglianza interna agli Stati Uniti era tornata agli stessi altissimi livelli cui si trovava alla vigilia del crollo del ’29. Ora, correlazione non vuol dire necessariamente causazione, ma in realtà ci sono molte ragioni per mettere in relazione un alto e crescente livello di disuguaglianza e fenomeni di grave instabilità finanziaria.
In primo luogo, non è vero che se i ricchi diventano sempre più ricchi essi tramuteranno questa crescente ricchezza in nuovi investimenti produttivi, capaci a loro volta di dare uno stimolo all’economia e dunque di portare beneficio a tutti. Questa storiella la raccontano da sempre per ragioni chiaramente interessate, ma la storia dimostra che le cose non vanno così. In realtà, una parte ragguardevole di questa ricchezza prende la via di consumi vistosi e improduttivi, il cui effetto sul mercato è minimo. Inoltre, poiché c’è un limite anche ai consumi vistosi e di lusso—qualcuno ha fatto giustamente notare che c’è un limite perfino alle bottiglie di Dom Perignon che ci possiamo scolare—una fetta crescente di questa ricchezza cerca la strada di investimenti di natura sempre più speculativa e sempre meno produttiva. Le opportunità di investimento produttivo e ragionevolmente sicuro non sono illimitate e, come sempre è accaduto, in periodi di grande disponibilità di risorse finanziarie gli sbocchi speculativi azzardati crescono—e diventa inevitabile che prima o poi la bolla scoppi. A quel punto c’è poco da stare allegri, perché una crisi dei mercati finanziari non colpisce solo gli speculatori più incauti, ma anche i fondi di investimento che sono le pensioni di masse di lavoratori che mai hanno pensato, individualmente, di giocare in borsa. Inoltre, deprimendo investimenti, produzione e consumi, la crisi finanziaria si tramuta in una crisi dell’economia reale, riducendo i posti di lavoro e i redditi di moltissime persone.
C’è poi un altro aspetto da considerare, più politico-sociale, evidenziato da moltissimi studiosi. La crescente disuguaglianza, in linea di principio, dovrebbe far arrabbiare parecchia gente. Eppure, dagli anni ’70 essa è costantemente cresciuta sollevando le obiezioni solo di uno sparuto gruppo di osservatori. La ragione di questo paradosso sta nel fatto che questa crescente disuguaglianza è stata nascosta, o apparentemente neutralizzata, da un crescente ricorso al debito—la grande era delle carte di credito facili. Di fatto, si creava l’illusione di un benessere che coinvolgeva tutti, se non fosse che solo una minoranza si stava arricchendo, mentre la maggioranza si illudeva di non perdere terreno ricorrendo al debito.
Finché il sistema cresceva tutto stava in piedi—le case aumentavano di valore, i mutui venivano rifinanziati per ottenere più liquidità e via così. Quando tutto si è inceppato, abbiamo visto come è andata: quell’enorme mole di debito ha mandato in bancarotta centinaia di migliaia di famiglie solo negli Stati Uniti. Attraversare Baltimora, per fare un esempio, faceva impressione: si vedevano intere strade con porte e finestre chiuse da tavole di compensato, abbandonate. Ho visto con i miei occhi abbattere a colpi di ruspa interi isolati, perché dopo un certo numero di anni la legge impone che le case vengano rase al suolo per evitare che abbandono e sporcizia possano causare problemi di salute pubblica. Quartieri degli anni Quaranta, che erano stati in piedi per settant’anni e abitati da famiglie della piccola e media borghesia, sono stati letteralmente spazzati via da una crisi in cui i crescenti livelli di disuguaglianza e la favola del benessere facile costruito sul debito hanno completamente distrutto una relazione ragionevole tra redditi, consumi, e ricchezza.
E per quanto riguarda la disuguaglianza tra paesi?
Questo è il secondo esempio, e sarò molto più breve. Basti ricordare che fino alla fine degli anni Ottanta l’Italia ha sperimentato una forte convergenza in termini di reddito pro capite con gli altri paesi europei. Convergenza significa che la differenza tra il reddito pro capite italiano e quello di altri paesi si riduceva. La disuguaglianza tra l’Italia e gli altri paesi, dunque, diminuiva. Dagli anni Novanta l’Italia non è più su una traiettoria di convergenza. E così tanti altri paesi. In realtà, a livello globale, sono pochissimi i paesi che stanno recuperando terreno rispetto alle economie più avanzate.
Detto ciò, nel libro Anna Soci e io rendiamo conto del dibattito più generale, e riportiamo anche il punto di vista di chi sostiene che il problema della disuguaglianza sia un falso problema, e che la questione sia piuttosto quella di sollevare gli individui da una condizione di povertà assoluta. È chiaro che la povertà sia anch’essa un problema, ma evidentemente noi non siamo d’accordo con chi la usa come argomento per distrarci dallo specifico problema della disuguaglianza.
Tornando al suo commento relativo al fatto che solo pochi paesi, a livello globale, stanno recuperando terreno, quale relazione esiste tra globalizzazione e disuguaglianza?
Per dirla in breve, diciamo che prima della rivoluzione industriale, tra fine del diciottesimo secolo e inizio del diciannovesimo secolo, la disuguaglianza esisteva soprattutto tra classi sociali, famiglie e individui all’interno di un paese. Ovviamente la Gran Bretagna era ben più ricca di una sua colonia, ma ragionando con una buona dose di approssimazione potremmo dire che, se consideriamo la distribuzione globale del reddito, ovvero se mettessimo in fila tutti gli individui sulla terra dal più povero al più ricco, una persona molto povera in Gran Bretagna non si sarebbe trovata molto distante da una persona molto povera in una colonia dell’impero britannico. Oggi la situazione si è rovesciata, e in questo mondo più globalizzato la disuguaglianza tra il povero in Gran Bretagna e il povero in una ex colonia è aumentata moltissimo. Se vogliamo esprimere questo concetto con un paio di numeri, diciamo che se nel 1800 la disuguaglianza globale tra gli individui era dovuta per l’80 per cento alla famiglia in cui si nasceva e per il 20 per cento al paese in cui si nasceva, oggi il rapporto è esattamente l’opposto: all’alba del Ventunesimo secolo, l’80 per cento della disuguaglianza globale, ovvero dove ci collochiamo nella distribuzione globale del reddito, dipende dal paese in cui nasciamo. Nel momento in cui nasciamo gran parte del nostro destino, in termini di disuguaglianza globale, è scritto. Per questo assistiamo a migrazioni così potenti verso le economie più ricche, e per questo alzare muri, oltre che crudele, è inutile.
Dunque la globalizzazione aumenta la disuguaglianza?
La questione è più complessa. Va aggiunto, per esempio, che a partire dagli anni Ottanta la Cina ha iniziato una grande rincorsa che sta spostando il reddito medio di un miliardo e quattrocento milioni di individui verso l’alto. Dall’inizio del Ventunesimo secolo a questa rincorsa si è aggiunta anche l’India, con il suo miliardo e trecentocinquanta milioni di persone. Da soli, questi due grandi paesi hanno un grande effetto di riduzione della disuguaglianza globale. Chi sostiene che la globalizzazione ha avuto effetti benefici sulla disuguaglianza globale porterà l’esempio della Cina a sostegno di questa tesi. Chi è più dubbioso noterà che la Cina è cresciuta molto proprio perché non ha adottato le politiche tipiche della globalizzazione liberista—anzi, per parafrasare il titolo di un vecchio ma importante libro di Robert Wade, ha “governato il mercato” piuttosto che farsene governare.
E il rapporto tra disuguaglianza e democrazia?
Questo è un altro argomento centrale nel libro, e come vedrà riportiamo un dibattito molto articolato. Ciò che ci sembra chiaro è che una crescente disuguaglianza non faccia per nulla bene alla democrazia. La crescente distanza tra individui, in termini di interessi, necessità, valorizzazione di beni comuni quali, per esempio, la scuola e la sanità pubbliche, moltiplicano gli interessi egoistici, di parte, e il disinteresse al compromesso sulla base di valori comuni e condivisi. Inoltre, la disuguaglianza non è solo economica e spesso va di pari passo con una disuguaglianza nei livelli di istruzione e nel grado di salute. Ciò è meno vero in paesi con uno stato sociale più forte, e questa è una delle ragioni principali per difendere i meccanismi di ridistribuzione fiscale e i sistemi di welfare pubblico. Aggiungiamo anche che la disuguaglianza si eredita da una generazione all’altra: i figli tendono a gravitare verso le condizioni sociali ed economiche dei genitori. I processi che tendono a separare e ghettizzare gruppi diversi creano tensioni nel tessuto sociale e indeboliscono i processi democratici. La partecipazione, l’informazione, un senso di sicurezza, il sentimento di un destino condiviso sono nutrimenti fondamentali per la democrazia. Il libro ha pagine molto chiare e importanti su questo argomento, e lo posso dire liberamente perché, pur avendoci riflettuto insieme, queste pagine sono di mano della mia coautrice, Anna Soci.
Perché la teoria economica ha a lungo trascurato il problema della distribuzione personale del reddito?
Ad essere precisi una teoria della distribuzione esisteva già nella teoria classica di Smith, Ricardo e Marx, ma riguardava la distribuzione del reddito nazionale tra salari (per i lavoratori), profitti (per i detentori di capitale) e rendita (per i proprietari terrieri). Si chiama “distribuzione funzionale” e riguarda la distribuzione tra fattori della produzione, o tra classi sociali. La distribuzione personale, invece, è sempre rimasta poco studiata. Ovviamente se guardiamo ai nostri giorni tutto ciò è cambiato, perché abbiamo studiosi di primo livello che se ne occupano e che costruiscono dataset sempre più precisi e utili.
La deriva statistica degli studi sulla disuguaglianza, come la chiamate voi, ha avuto una responsabilità nella storica marginalizzazione di questi studi?
Assolutamente sì. La deriva statistica ha a lungo svuotato il problema della disuguaglianza dei suoi valori sociali e politici. Vilfredo Pareto, per esempio, da una posizione decisamente conservatrice, ha creduto di individuare una costante distributiva e ha concluso che la questione della disuguaglianza fosse intrattabile, un dato di fatto naturale, una costante simile alle leggi della fisica. Questa costante, in realtà, non esiste. Ma ciò non vuol dire che studi quantitativi non siano necessari: gli studi di Branko Milanovic e Jamie Galbraith, per esempio, tra loro molto diversi per gli strumenti statistici che utilizzano, sono fondamentali per studiare le dinamiche della disuguaglianza interna alle nazioni e tra nazioni, e in più non rifuggono da un’analisi delle conseguenze della disuguaglianza sul tessuto sociale e politico di un paese e sui rapporti tra paesi.
Come si misura la disuguaglianza?
Ci sono molti modi diversi. Da indici che riassumono in un unico numero il grado di disuguaglianza in un paese, come l’Indice di Gini, a indici cosiddetti “posizionali”, che si concentrano sul rapporto tra diversi gruppi. Ognuno ha i suoi pregi e i suoi difetti. In più, questi indici si basano su dati la cui raccolta, organizzazione, comparabilità etc. presentano i loro specifici problemi. È un lavoro certosino, pieno di lacune e di modi per cercare di risolverle, di cui dobbiamo essere grati agli studiosi e ai centri di ricerca che se ne occupano. Noi abbiamo cercato di rendere questa dimensione del “calcolo” e dei “dati” comprensibile a tutti, in un’appendice in cui discutiamo i modi e i problemi delle misure della disuguaglianza.
Quale futuro possiamo prevedere per la disuguaglianza?
A livello globale, come dicevo, la crescita di Cina e India ha un effetto perequante. Ma potrà continuare a questi ritmi? E poi a un certo punto, superata una certa soglia, la loro crescita inizierà a contare di più in termini di distanza da chi rimane indietro che di progressiva vicinanza ai paesi più avanzati, e dunque potrebbe trasformarsi in un elemento di crescente disuguaglianza globale. Ma poi questi sono discorsi anche molto relativi. C’è una curva molto interessante, proposta da Milanovic, che ha avuto una certa notorietà . . .
Si riferisce alla cosiddetta Curva dell’elefante?
Sì, quella. Ha proprio la forma di un elefante. Questa curva fa vedere di quanto è cresciuto il reddito dei diversi gruppi nella distribuzione globale del reddito. In altre parole, per ogni gruppo—i poveri, i quasi poveri, chi sta nel mezzo, i ricchi e i super-ricchi a livello globale—si chiede cosa è successo al loro reddito in un arco di tempo di vent’anni: è cresciuto? Di tanto, di poco? Oppure è rimasto stagnante? La curva sale velocemente da sinistra (i poveri), rimane a livelli alti con una gobba sulle scapole e la testa dell’elefante (i redditi medi, ma attenzione: medi a livello globale), seguite da una proboscide che scende a picco (chi si trova nell’80% più ricco dei redditi globali, che sono le nostre classi medie) e risale altrettanto velocemente (i super-ricchi che si trovano un po’ ovunque nel globo). Quella curva dimostra che tra il 1988 e il 2008, un ventennio di globalizzazione spinta, i vincitori sono stati i super-ricchi (in cima alla proboscide) e i redditi medi della distribuzione globale, che non sono da confondere con ciò che noi intendiamo con la tradizionale classe media. Questa classe media “globale” è composta da individui con un reddito molto più basso della classe media dei paesi avanzati, sono la piccola e piccolissima borghesia che sta crescendo in Cina e India, e i loro redditi sono quasi raddoppiati in vent’anni. Chi è rimasto al palo, oltre ai poverissimi nel mondo, i dimenticati da tutti, sono le classi medie delle economie avanzate. È un dato non da poco per spiegare diverse delle tensioni sociali cui assistiamo oggi.
C’è una conclusione cui possiamo arrivare?
Studiare queste dinamiche ci aiuta a capire meccanismi importanti della vita politica dei nostri paesi e delle nostre reazioni di fronte a processi transnazionali come le migrazioni e la globalizzazione economica. A livello delle nostre democrazie, e questa è la mia personale conclusione, dobbiamo smetterla di privatizzare e frammentare i servizi sanitari e dell’istruzione. È necessario semmai rinforzare i meccanismi redistributivi e un sistema di welfare universalistico. E non è vero che la pressione fiscale sia troppo alta, era ben più alta sotto Eisenhower o Nixon o addirittura Reagan, non esattamente dei democratici dal cuore tenero. Semmai il problema è che il nostro fisco è male organizzato, le entrate sono usate male, e l’evasione fiscale, almeno in Italia, è a livelli giganteschi e inaccettabili. Meno evasori, meno comizianti che promettono riforme assurde, e vivremmo meglio, in un paese più civile, più equo, più ricco e—non ultimo—anche capace di accogliere con umanità chi viene torturato e non sa più come vivere dall’altra parte del Mediterraneo.
Michele Alacevich è professore associato di storia economica e storia del pensiero economico all’Università di Bologna. Si occupa di storia dello sviluppo nel XX secolo, storia internazionale e storia delle scienze sociali, con un interesse particolare al nesso tra storia economica e politica, storia delle idee e storia delle istituzioni. Oltre a Breve storia della disuguaglianza (Laterza, 2019, con Anna Soci), uscito originariamente in inglese e tradotto anche in cinese, Michele Alacevich è autore di The Political Economy of the World Bank: The Early Years (Stanford University Press, 2009), tradotto in numerose lingue e apparso in italiano come Le origini della Banca Mondiale. Una deriva conservatrice (Bruno Mondadori, 2007) e di Economia politica. Un’introduzione storica (Il Mulino, 2009, con Daniela Parisi). Le sue pubblicazioni includono articoli in Past & Present, Journal of Global History, History of Political Economy, Review of Political Economy, Rivista di Storia Economica, e Journal of the History of Economic Thought. Prima di spostarsi all’Università di Bologna, Michele Alacevich è stato ricercatore e direttore del Global Studies Program a Loyola University Maryland (2014-2016), Associate Director for Research Activities allo Heyman Center for the Humanities di Columbia University (2011-2014), e research scholar a Harvard University (2010-2011), Columbia University (2009-2010) e alla World Bank (2006-2008).