
La Svizzera rappresenta un caso emblematico perché, piccola com’era e piccola com’è, dal 1948 al 1976 ha avuto la capacità di accogliere quasi il 50% per cento dell’emigrazione italiana del periodo. Eppure questa storia molte volte non è nemmeno percepita dall’opinione pubblica italiana. Quando parliamo di emigrazione del secondo dopoguerra, molte persone pensano alla Germania e poche alla Svizzera, che, invece, dal 1876 al 1976 ha visto arrivare 5 milioni di italiani e italiane e che, ancora oggi, è la meta di 10-15mila ragazze e ragazzi all’anno.
In termini generali, la migrazione ha fatto della Svizzera il Paese dove l’arrivo dell’altro ha maggiormente inciso e ha cambiato in nuce il suo essere, più degli Stati Uniti, storicamente noti per aver accolto e per essersi formati grazie all’altro. La storia dei due Paesi, Stati Uniti e Svizzera, soprattutto in materia di migrazione ha seguito un percorso parallelo, quasi fossero due binari. Infatti, nello stesso periodo, negli anni Venti del Novecento, entrambi gettarono le basi dell’intelaiatura normativa che gestì il fenomeno migratorio all’interno dei rispettivi confini. Gli Stati Uniti furono i primi a dotarsi di una legislazione riguardante il fenomeno, la Svizzera fu il primo paese europeo. Inoltre, anche la Svizzera è stata un Paese di emigrazione e alcuni cantoni hanno continuato a fornire manodopera al mercato del lavoro estero e, in contemporanea, arrivavano in maniera crescente stranieri e soprattutto italiani. La storia svizzera è sempre stata segnata da un particolare rapporto con la migrazione. Dalla metà degli anni sessanta si è assistito alle iniziative contro gli stranieri, negli anni ottanta è stata presentata la prima iniziativa pro-stranieri. In termini restrittivi, nel 2014 ha segnato il passo prima di altri paesi, prima della stessa Brexit e, paradossalmente, qualche mese dopo si è presentata al mondiale brasiliano con la nazionale più cosmopolita al mondo: 21 su 23 sportivi avevano origini straniere.
In che modo ha influito sulla storia recente del paese l’immigrazione, in special modo italiana?
Nel 1992 durante l’Expo tenutosi a Siviglia la Svizzera si presentò con lo slogan «La Suisse n’existe pas» (La Svizzera non esiste). Fu una provocazione, ma colpì nel segno. L’immigrazione e l’altro hanno contribuito a ciò che è la Svizzera odierna. Un po’ come gli Stati Uniti, nonostante siamo nel cuore dell’Europa, la migrazione ha fatto la Svizzera e la Svizzera si è fatta con la migrazione. La questione è al centro dell’agenda politica già dal primo decennio del Novecento ed è sempre attuale. È il tema sul quale si dibatte quotidianamente. Nel secondo dopoguerra fu immaginata come temporanea. Fu disciplinata, irreggimentata in griglie normative sempre più stringenti, tuttavia, già negli anni ottanta, si iniziò lentamente a comprendere che le dinamiche erano cambiate. Quello che si immaginò come un fenomeno temporaneo legato a doppio filo alle congiunture economiche, inconsapevolmente si trasformò. L’inconsapevolezza fu sia di coloro che lo vissero in prima persona, i migranti, e di coloro che ne determinarono le scelte. A più riprese, soprattutto a partire dalla seconda metà degli anni sessanta, si cercarono soluzioni restrittive, ma nella sostanza non servirono. Dall’altro lato, chi è partito con l’idea di restare in Svizzera per qualche anno, dopo la nascita dei figli e dei nipoti si è reso conto di aver trascorso più tempo nella Confederazione che in Italia. Questi processi, inconsapevolmente, hanno modificato il rapporto tra gli immigrati e la Svizzera, che progressivamente li ha visti divenire cittadini a tutti gli effetti. Ancora oggi la comunità italiana in Svizzera è quella più numerosa. Parliamo di 606.000 persone nel gennaio 2017 e ormai si sono superate le 630.000 unità, che fanno delle italiane e degli italiani la terza comunità italiana nel mondo. Poco più della metà ormai è doppio cittadino e l’essere italiani in Svizzera e le percezioni nei loro confronti sono cambiati radicalmente.
Cosa rappresenta per la Svizzera oggi l’italianità?
Una ricchezza. Un pezzo determinante del suo essere. Paradossalmente, nonostante la Svizzera sia l’unico Paese al di fuori della penisola nel quale l’italiano è lingua ufficiale, l’italianità e la stessa lingua sono state diffuse dalla migrazione. Oggi in qualsiasi angolo della Svizzera tedesca si può ordinare un «Latte macchiato», pur non conoscendo una sola parola d’italiano, e tutti comprendono di cosa si stia parlando.
Sono ormai lontani gli anni delle baracche, del «non si fitta agli italiani» o dei trentamila bambini clandestini. L’italianità, pur tra alti e bassi, è riconosciuta, ricercata, apprezzata. Da un decennio si registra la ripresa di una nuova mobilità italiana: alle professioni specializzate si è unito il crescente numero di frontalieri e di chi è alla ricerca di un lavoro qualsiasi. Il rischio è che si ripropongano le questioni di un passato ricco di suggestioni e contraddizioni, che fanno della migrazione italiana in Svizzera un unicum senza precedenti.
Quali caratteristiche presenta la nuova mobilità italiana in Svizzera?
Diciamolo, a scanso di equivoci: la fuga dei cervelli non esiste. Sono persone che, ieri come oggi, si muovono alla ricerca di un lavoro, di un’esperienza nuova, di una condizione di vita diversa, del ricongiungimento affettivo. Più che le dinamiche, ciò che oggi è cambiato è il Paese di partenza. L’Italia negli anni cinquanta aveva una struttura demografica paragonabile all’attuale Albania, Tunisia o Turchia, con un’età media di trent’anni, mentre oggi è uno dei Paesi più anziani al mondo e si accinge a divenirlo nel 2050. Poi, se vogliamo trovare similitudini e differenze rispetto al passato, chi arriva oggi, da un lato lo fa in un’ottica transnazionale di mobilità e quindi con la predisposizione a restarci per qualche anno e non scartando l’ipotesi di un ulteriore spostamento in un altro Paese; dall’altro lato, è ripresa, soprattutto nell’ultimo quinquennio la mobilità di quelle che una volta venivano definite braccia. Come il passaporto turistico negli anni sessanta, oggi la libera circolazione consente a migliaia di ragazze e ragazzi di spostarsi in Svizzera per cercare un lavoro, farne svariati e poi regolarizzare la propria posizione. Volendo sintetizzare, la mobilità odierna assomiglia molto più a quella a cavallo tra otto-novecento che a quella del secondo dopoguerra. Chi parte oggi non immagina nemmeno lontanamente di rientrare e di investire i propri risparmi nel luogo della partenza. In altre parole, sono persone che vivono in luoghi che probabilmente diverranno la loro casa e il loro domani. E forse in questo, solo in questo, assomigliano alle generazioni del secondo dopoguerra.
Come si sviluppa il dibattito attuale sull’immigrazione nella Confederazione?
Come negli altri Paesi. Il tema è ricorrente, è presente quotidianamente e non potrebbe essere altrimenti in un Paese nel quale gli stranieri rappresentano un quarto della popolazione e dove annualmente migliaia di persone acquisiscono la cittadinanza elvetica. L’abbiamo detto all’inizio. La Svizzera è stato il primo Paese continentale a dotarsi di una legislazione organica in materia di stranieri e allo stesso tempo è stato il Paese nel quale, prima di altri, i movimenti antistranieri sono stati sdoganati e sono entrati nelle istituzioni. Non è un caso che proprio il partito di maggioranza relativa sia figlio di quella stagione e sia l’espressione di quei movimenti antistranieri nati negli anni sessanta. Poi, territorialmente, cambiano anche le visioni e il modo di narrare la migrazione. Nei cantoni economicamente più dinamici, nelle grandi città come Ginevra, Zurigo o Basilea la questione viene affrontata con un approccio diverso, rispetto ad esempio a cantoni come il Ticino, che vive ancora difficoltà economiche. Purtroppo, «prima i nostri» è divenuto uno slogan anche da queste parti ed è un paradosso riscontrabile nel semplice fatto che, in 70 anni, la Svizzera è passata dall’avere poco più di 4 milioni di abitanti ai quasi 8 milioni e mezzo odierni. È un paradosso in un Paese che grazie alla migrazione ha vissuto il boom economico del secondo dopoguerra più duraturo e significativo dell’intero continente europeo e che grazie alla temporaneità, cui quale aveva obbligato migliaia di persone, è riuscita a ristrutturare la sua economia dopo la crisi degli anni settanta «espellendo» oltre 300.000 persone. Detta diversamente, la Svizzera è riuscita ad esportare la sua disoccupazione riassettando il sistema economico a costi ben più ridotti rispetto ai Paesi vicini. Dopo il febbraio 2014, la crisi, le paure il crescente consenso conquistato dalle «narrazioni semplici» hanno rimesso al centro – a dire il vero ci è sempre stato – il dibattito sulla migrazione come male assoluto da combattere. In definitiva, l’analisi del modello migratorio in Svizzera, delle modalità con le quali il Paese nell’ultimo secolo ha affrontato la questione e come tende ad affrontarla e gestirla oggi, fa ancora della Svizzera un caso studio senza precedenti.