“Breve storia del segnalibro” di Massimo Gatta

Dott. Massimo Gatta, Lei è autore del libro Breve storia del segnalibro edito da Graphe.it: quando nasce l’idea di una storia del segnalibro?
Breve storia del segnalibro, Massimo GattaPiù che l’idea di scrivere sul segnalibro conta la mia frequentazione ultratrentennale con quelli che vengono definiti gli elementi paratestuali del libro, cioè tutto quanto non ha attinenza col ‘testo’ ma col libro in quanto oggetto culturale significativo. Per questo motivo ho iniziato a interessarmi del colophon soprattutto nelle edizioni stampate manualmente al torchio, delle sovraccoperte, degli ex libris, delle fascette editoriali, delle copertine illustrate, delle filigrane, insomma di tutto quel mondo sommerso del libro come oggetto che molti trascurano o di cui non hanno assolutamente contezza. È questo il territorio specifico di quella parte della bibliografia conosciuta come analitica o critica, la bibliologia e che non ho più abbandonato. In quest’ambito era inevitabile prestare attenzione anche al segnalibro che ha una lunga storia diretta nata agli albori dei tempi quando l’uomo inizia a leggere e ha bisogno di segnare il punto nel quale la lettura termina, per poi ritrovare quel punto e riprendere la lettura. Per questo motivo ritengo il segnalibro, al di là della sua struttura materica e della sua storia, un manufatto simbolico e fatalmente filosofico. Non solo. Esso non casualmente figura in molteplici casi della ritrattistica cinque-seicentesca, in celeberrimi dipinti italiani e stranieri, culminando in quel capolavoro che è Il Bibliotecario di Giuseppe Arcimboldi, con tutti quei segnalibri che scendono dall’alto dai volumi-cranio del protagonista, nell’assemblaggio cartaceo tipico di questo immenso artista. Su questo dipinto scrissi anche un breve racconto, molti anni fa. Poi nel 1996 con l’editore e libraio antiquario napoletano Gaetano Colonnese pubblicai Piccola storia del segnalibro, che conteneva allegati anche sei segnalibri con frasi legate al libro. L’interesse e lo studio di questi manufatti grafici ha poi comportato che iniziassi a raccoglierli, da quelli moderni fino a quelli di un certo pregio, realizzati tra la fine dell’800 e la metà del 900. Presso la libreria Colonnese di Napoli organizzai anche una piccola mostra di segnalibri, che riscosse un certo successo. Da allora ho continuato sia a collezionarli e sia a studiarne l’origine concreta, al di là dei significati simbolici che ho detto. Infatti come oggetto funzionale il segnalibro ha comunque un’origine storica che in questo mio saggio rivelo. Questo interesse si è poi rivolto a individuare alcuni settori particolarmente legati al segnalibro, come la libreria e ovviamente l’editoria, ma molti altri settori merceologici ne fanno largo uso. E in editoria ho così studiato il caso della casa editrice Sellerio e della sua prima Collana editoriale, ‘La civiltà perfezionata’, ideata e curata da Leonardo Sciascia. Ebbene questa prima Collana fece largo uso del segnalibro che utilizzava per ciascuno dei titoli in essa pubblicati, caso unico nell’editoria italiana del Novecento. All’epoca uno scambio di lettere con Elvira Sellerio, che mi donò anche quasi l’intera collezione, mi mise in condizione di scrivere un ampio saggio sui segnalibri della Sellerio, un lavoro al quale sono particolarmente legato anche perché mi ricorda la straordinaria donna ed editrice che fu Elvira Sellerio, e la sua personalità e umanità.

Nel libro, Lei definisce il segnalibro come «un elemento filosofico prima ancora che materiale»: cosa intende?
Sì, come ho detto il segnalibro è un elemento paratestuale che travalica il suo essere oggetto materico funzionale allo scopo, che è quello di mantenere il segno della lettura interrotta e da ritrovare in seguito. Esso ci mette in contatto con significati direi filosofici legati alla lettura: cosa significa interrompere la lettura, perché avviene, perché è importante riprenderla ritrovarla. E ancora: cosa è il signacolo veramente? È giusto ritrovare il luogo dove ci siamo interrotti? dove la nostra lettura muta e solitaria ha cessato di essere? (mentre nel medioevo, è bene ricordarlo, la lettura era fatta a voce alta). Perché tenere il segno? E poi riflettiamo sul fatto che il primo segnalibro che l’uomo ha potuto utilizzare è il suo stesso dito, indice o l’intera mano. Siamo noi stessi dei segnalibri, e anche questo particolare dell’indice che tiene il segno fa parte di tanta ritrattistica cinquecentesca, non a caso proprio un particolare dell’indice femminile inserito nel cosiddetto Petrarchino, cioè in un Petrarca di formato tascabile (che inizia a fine Quattrocento con Aldo Manuzio e l’utilizzo del formato in-ottavo, rispetto agli scomodi formati grandi in-folio), venne utilizzato dalla Mondadori come logo della sua celebre Collana di poesia. Insomma il segnalibro è un oggetto materico, grafico-simbolico e funzionale denso di significati.

Come tenevano il segno lettori famosi del passato?
Questo ambito direi ‘logistico-funzionale’, cioè cosa veniva e viene utilizzato per tenere il segno nel libro è un altro di quegli ambiti affascinanti che lasciano la mente spaziare perché la tipologia è davvero molto ampia. Ricordo un curioso articolo dedicato a questo argomento che Guillaume Apollinaire pubblicò sul “Mercure de France” il 16 aprile del 1918 e che si intitolava Objets oubliés dans les livres, tradotto in italiano dall’editore Henry Beyle nel 2012 con una bella nota del giornalista Stefano Salis, e dove emerge il fatto che praticamente tutto può diventare utile per mettere il segno in un libro che stiamo leggendo, e dove il segnalibro classico, quindi, è forse l’oggetto più banalmente conosciuto.

Quali sono le abitudini più diffuse per tenere il segno quando si interrompe la lettura di un libro?
In esergo al mio libro riporto un brano di un bel romanzo di Laurent Binet, che mi colpì molto, perché ricordava la morte del filosofo Roland Barthes e di cosa avesse utilizzato per segnare il punto dove si era interrotta la sua lettura dei Saggi di linguistica generale di Jakobson, poco prima che venisse investito da un furgoncino di una lavanderia. Ebbene come segnalibro Barthes aveva usato un foglio bianco piegato in quattro. Quindi tutto può diventare utile per segnare la nostra interruzione di lettori, tutto quanto abbiamo sottomano, e se non abbiamo nulla di materico ricorriamo, molto spesso, a fare una piccola orecchia alla pagina. Nel mio libro poi ricordo un celebre aneddoto in un libro settecentesco dove si ricordava l’abitudine davvero poco urbana di un celebre letterato, erudito e bibliofilo, Antonio Magliabechi, che tra l’altro fornì il nucleo bibliografico iniziale dal quale scaturì poi la Biblioteca Nazionale di Firenze, ebbene Magliabechi che aveva abitudini di vita spartane ed era sempre completamente immerso nella lettura di libri, a volte per non perdere tempo a cercare altro inseriva nei libri, a modo di segnalibri, ciò che in quel momento stava mangiando, come fette di salame ad esempio. Lo ricordava il prete padovano Gaetano Volpi, episodio celeberrimo poi ripreso nel Novecento dal celebre bibliografo Giuseppe Fumagalli nei suoi aneddoti bibliografici.

Tutti siamo talvolta ricorsi al segnalibro “d’emergenza” (la classica “orecchia”), ne esistono in realtà anche di pregiati: vuol farne qualche esempio?
Era inevitabile, soprattutto tra fine Ottocento e prima metà del Novecento, che il segnalibro, che già vantava qualche secolo di vita, diventasse piano piano anche oggetto di collezionismo minore. Un fenomeno che allora non si è mai interrotto al punto che esistono vari collezionisti internazionali di segnalibri, con raccolte formate da migliaia di pezzi, così come Biblioteche che hanno tra le loro raccolte di libri anche raccolte di segnalibri, librerie antiquarie che spesso inseriscono nei loro cataloghi pregiati esemplari, o addirittura pongono in vendita raccolte complete di segnalibri. Nel libro segnalo tutti questi casi, così come in bibliografia riporto tutta una serie di volumi dedicati al segnalibro e nei quali è possibile vedere quanti artisti e grafici si sono dedicati al segnalibro, cito solo due appartenenti a generazioni diverse: Federico Seneca e Pablo Echaurren. Al primo si devono due importanti segnalibri commissionati dalla Perugina, uno dei quali riporta quel passo dei Promessi Sposi manzoniano dove Don Abbondio leggendo il breviario e dovendo interromperne la lettura, mise appunto in esso l’indice della mano destra, e la didascalia pubblicitaria scrive che fece ciò perché non conosceva il segnalibro della Perugina. Un segnalibro molto bello e importante la cui quotazione sul mercato, considerando però il suo stato di conservazione, può raggiungere anche 50/80 euro, quotazione assai elevata per questo genere di manufatti.

Tornando all’«orecchia» segnalibro: è accettabile a Suo avviso?
Io personalmente faccio largo uso dell’orecchietta, certamente molto di più su libri di studio e romanzi, assolutamente no invece per libri antichi o di particolare pregio. Però la trovo molto funzionale perché intrinseca al libro cioè non si rischia di perderla, come accade ai segnalibri classici, e poi è sempre a portata di mano. In genere non amo molto gli estremismi e quindi ho un atteggiamento molto tollerante per chi usa fare le orecchie ai libri, anzi spesso il segno che resta sulla carta, anche quando le togliamo, mi ricorda il mio passaggio tra quelle pagine. L’unica cosa sulla quale sono abbastanza intransigente è che le orecchiette, in uno stesso libro, abbiano tutte la stessa angolazione di piegatura e in genere preferisco le orecchiette medio-piccole, ma non troppo piccole, a quelle grandi.

Come si è evoluto il segnalibro con gli e-book?
Il segnalibro che ho studiato e che amo studiare è essenzialmente quello cartaceo. Già ho qualche problema con quelli in seta (che peraltro, come nastrini, sono tra i più antichi in assoluto, pensiamo ai messali medioevali), in pelle, in plastica o addirittura in legno o metallo. Figuriamoci quelli virtuali, coi quali comunque ho fatto i conti nel mio libro che termina, e non poteva non farlo, proprio con una citazione paradossale e assai bella di Umberto Eco, bibliofilo raffinato ed esigente ma anche uomo di straordinaria ironia. Certo ogni struttura che abbia elementi di comunicazione scritta ha bisogno, o avrebbe bisogno, di un segno che possa interromperne la lettura per poi esser ripresa. E infatti anche il virtuale non poteva sottrarsi all’utilizzo terminologico identico per il cartaceo e il virtuale: bookmark.

Massimo Gatta è bibliotecario dell’Università degli Studi del Molise. Studioso di editoria del Novecento, bibliografia, storia della bibliofilia e di aspetti paratestuali del libro. Ha collaborato al supplemento domenicale de «Il Sole 24 Ore». Collabora al periodico «Charta», oltre che a «La Bibliofilia», «Bibliologia. An International Journal of Bibliography, Library Science, History of Typography and the Book», «ALAI. Rivista di cultura del libro», «la Biblioteca di via Senato», «L’Esopo», «Wuz», etc. Fa parte del comitato di redazione di «ALAI. Rivista di cultura del libro», organo dell’Associazione Librai Antiquari d’Italia e del comitato scientifico de «la Biblioteca di Via Senato». È direttore editoriale della casa editrice Biblohaus di Macerata, specializzata in bibliografia e bibliofilia. È autore di circa cinquecento pubblicazioni, tra le quali: L’Aldo degli scrittori. La figura e l’opera di Aldo Manuzio nell’immaginario narrativo (secoli XVI-XXI) (Biblohaus, 2018), Metallibri. Latta, ferraglia & bulloni nell’editoria futurista (Biblohaus, 2018), Segnalibro (Babbomorto editore 2018), Librai, librerie et amicorum. Appunti per una bibliografia (Biblohaus, 2018), Come e perché mantenere in perfetto disordine i propri libri (FuocoFuochino, 2019).

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