“Boccaccio teologo. Per una rilettura del Decameron” di Antonio Fatigati

Prof. Antonio Fatigati, Lei è autore del libro Boccaccio teologo. Per una rilettura del Decameron edito da Mauro Pagliai. Nell’immaginario collettivo, lo scrittore di Certaldo rappresenta un «autore libertino, anticristiano, divertito e divertente narratore di vite alle quali Dio appare estraneo», eppure, egli ha attinto a piene mani alle più importanti discussioni teologiche del suo tempo: perché possiamo affermare che Giovanni Boccaccio è sia scrittore che teologo?
Boccaccio teologo. Per una rilettura del Decameron, Antonio FatigatiL’immaginario collettivo, che si costruisce attraverso la grande e plurisecolare fortuna popolare delle cento novelle del Decameron, avrebbe avuto probabilmente esito diverso se la storia personale di Boccaccio fosse stata maggiormente nota. Egli, infatti, pur essendo figlio di mercanti (il padre, Boccaccino, era mercante in Firenze, dove si era trasferito con tutta la famiglia lasciando le originarie terre di Certaldo) ebbe la ventura di trascorrere gli anni della formazione giovanile alla corte del re di Napoli, Roberto d’Angiò per il quale il padre era consigliere e ciambellano. All’età di 14 anni Giovanni si trovò così a vivere in uno degli ambienti culturalmente più vivaci del tempo e dove poté iniziare gli studi di diritto canonico entrando anche in contatto con figure culturali di ampio spessore, quale Cino da Pistoia (1270-1336), poeta amico di Dante e di Petrarca, Paolo da Perugia, autore di commenti a Persio e Orazio, Paolo dell’Abbaco, maestro in aritmetica, geometria, astrologia, Andalò dal Negro, astronomo e geografo, Graziolo de’ Bambaglioli, teologo tra i primi commentatori di Dante, Paolino Minorita, penitenziere apostolico ad Avignone, nunzio a corte e poi vescovo di Pozzuoli, che probabilmente introdusse il giovane Giovanni ai commentari biblici.

A Napoli Giovanni incontra soprattutto padre Dionigi di Borgo Sansepolcro (1300-1342), agostiniano, dottore in teologia presso la Sorbona di Parigi, amico di Petrarca a cui era molto legato. Sarà Dionigi a introdurre Boccaccio alla lettura delle opere di Seneca, Agostino, Petrarca. Nell’Epistola n. V, Boccaccio riferirà a lui come «il reverendo mio padre e signore maestro Dionigi».

Il pensiero teologico è dunque l’humus nel quale Boccaccio si forma e che gli consente di approfondire le grandi riflessioni del suo tempo, appoggiate fondamentalmente su due grandi colonne: quella tomista di san Tommaso d’Aquino e quella francescana che riferiva a Scoto, Ockham e al meno noto ma fondamentale per Boccaccio, De Wodeham.

Che rapporto esiste, per Boccaccio, tra poesia e la teologia?
Boccaccio ebbe modo di dedicare molte energie alla difesa della poesia a cui pretendeva venisse riconosciuta dignità teologica e nel suo celebre Trattatello in laude di Dante egli destina una parte importante dell’opera a ragionare su come fosse nata la poesia e quale relazione essa avesse avuto con le questioni relative alla divinità. Per Boccaccio gli antichi poeti avevano imitato lo stile dello Spirito Santo che in modo oscuro rivela Dio nella Sacra Scrittura: a loro volta essi hanno astutamente nascosto nelle loro opere ciò che al loro tempo avveniva o ciò che pensavano sarebbe avvenuto in futuro.

La conclusione naturale a una tale similitudine è la famosa dichiarazione presente nel Trattatello che: «la teologia e la poesia quasi una cosa si possono dire, dove uno medesimo sia il suggetto; anzi dico di più: che la teologia niuna altra cosa è che una poesia di Dio».

Boccaccio ritornerà sul rapporto tra teologia e poesia nelle De genealogie deorum gentilium, opera in latino dedicata ai miti antichi e composta nell’arco di vent’anni, a partire dal 1350 e fino a poco prima della sua morte. Le Genealogie ebbero molta fortuna perché fonte di informazioni preziose sull’arte e la poesia antica ma negli ultimi due libri, il XIV e il XV, Boccaccio si pone innanzitutto il problema di difendere il suo lavoro dalle possibili critiche di quanti avrebbero potuto riconoscervi l’esaltazione dei miti pagani, estranei alla fede cristiana. Il clima del tempo in cui egli scrive è infatti ancora quello della contrapposizione tra classicità e fede cristiana e il testo di Boccaccio si rivela come autentica fonte di informazione sulle ragioni del contrasto: egli infatti immagina che i possibili nemici della sua opera possano essere coloro che vedono la poesia come una perdita di tempo, o qualcosa di profano che nulla ha a che fare con le arti sacre.

Certo, Boccaccio non nasconde che, come sostengono molti critici, i poemi sono spesso oscuri ma questo non può essere ragione di condanna perché, proprio sulla linea dell’azione dello Spirito, che ha ispirato Scritture che richiedono acutezza e passione per essere comprese nella loro pienezza, così anche i poeti hanno voluto evitare di svelare ogni verità.

Quelle verità devono rimanere impenetrabili ai torpidi di intelletto affinché non sviliscano per un eccesso di semplicità. Ma quelle stesse verità sono sempre comprensibili quando a loro si avvicini un’intelligenza acuta.

D’altra parte, il velamento della verità, come modalità scelta dallo Spirito nell’ispirare le Scritture, è riconosciuta e apprezzata anche da sant’Agostino che in alcuni passaggi della Città di Dio e delle Enarrationes in Psalmos sostiene che l’oscurità dei testi è necessaria affinché gli uomini possano generare molte conoscenze e così arricchirsi.

Per Boccaccio, dunque, la poesia, agendo come lo Spirito Santo, non svela immediatamente la verità sottesa per non toglierle quel valore che essa ha e che risalta quando l’uomo è costretto a impegnare il proprio intelletto per comprenderla.

Ecco perché ai poeti spetta pienamente, a parere di Boccaccio, il titolo di teologi.

Quale profonda riflessione religiosa sviluppa il Certaldese nella sua opera più celebre?
Attraverso la sua opera Boccaccio compie una vera e propria (e alquanto misconosciuta) operazione di tipo pastorale accompagnata a un principio di filosofia morale: ai lettori delle novelle, egli intende insegnare come ci si deve comportare, come si persegua la virtù, come si riconosca il male, come si scelga il bene.

Sulla linea aristotelica tomistica, che prenderà definitivamente il sopravvento nella decima e ultima giornata, ragione e logica sono gli strumenti che Boccaccio privilegia: fin dalle prime battute le sette donne che si incontrano a Santa Croce per decidere di uscire dalla città dando vita a un nuovo rinascimento morale, dimostrano di essere in grado di condurre una riflessione che proprio nella logica ha il suo punto di forza.

Se poi nelle prime novelle Boccaccio parla di Dio, regalandoci una visione privilegiata del suo sguardo di credente convinto della assoluta misericordia di Dio e della presenza dello Spirito nella Chiesa di Cristo, nelle successive storie uomini e donne sono messi a nudo nelle loro piccolezze e fragilità dando vita a una commedia umana che si svolge sotto lo sguardo divertito ma compassionevole dell’autore. Una commedia umana che trova la sua inevitabile conclusione nella lezione morale conclusiva, quella che riporta la teologia al centro del Decameron.

Anche lo sguardo compassionevole dell’autore merita un suo rilievo: Boccaccio dichiara subito in apertura che avere compassione degli afflitti è qualcosa che appartiene agli uomini, che caratterizza in modo profondo l’uomo. La lezione opposta che se ne ricava è che senza compassione è impossibile essere uomini. Che se ciò che caratterizza Dio è la misericordia, ciò che caratterizza l’uomo è la compassione.

La misericordia di Dio viene dichiarata subito, in partenza, nella prima e nella seconda novella. La compassione degli uomini avrà modo di emergere, nei suoi chiaroscuri, nel resto dell’opera dove anche coloro che appaiono come vincitori o astuti, in realtà si dimostrano vittime di un male di vivere che prende forme diverse.

Ottantasette storie compongono di fatto la commedia umana. Ottantasette perché alle cento novelle vanno sottratte le prime tre che narrano di Dio, della Chiesa, della religione e le ultime dieci che sono invece l’esempio della rinascita, la descrizione di come Dio vorrebbe gli uomini, l’epopea dell’amicizia, della grandezza d’animo, dell’altruismo.

Il teologo Boccaccio si rivela una continua sorpresa, una fonte ininterrotta di stimoli e di riflessioni. Egli che ridendo castigat mores non è dunque l’autore licenzioso da leggere arrossendo o sogghignando, ma lo straordinario scrittore umanista capace di raccontare l’uomo e di indicargli la via da percorrere.

Quali collegamenti esistono tra le storie narrate nel Decameron e le riflessioni teologiche?
Nella sua opera Boccaccio riprende la riflessione di Agostino sulla libertà dell’uomo di esercitare la propria volontà, il pensiero di Scoto secondo cui è la volontà divina ciò che guida ogni, la teologia di san Tommaso che attinge a piene mani dall’Etica Nicomachea di Aristotele per definire il bene e come compierlo.

Altro teologo le cui riflessioni avranno particolare importanza sulle narrazioni di Boccaccio è Ockham, che sulla libertà arriva a concludere che essa è tale se può indifferentemente far agire o non agire in un senso o nel suo contrario. La conseguenza è che volontà e libertà non si distinguono, formano un’unica cosa, una non è data senza l’altra.

Se Scoto riteneva che il fine dell’uomo fosse il desiderio di Dio e la Sua visione beatifica ma che la volontà dell’uomo fosse libera di scegliere se volere o non volere questo fine, per Ockham attraverso il solo pensiero razionale non è invece possibile dimostrare che questo sia il fine dell’uomo. A sostegno di questa intuizione vi è per il francescano l’evidenza dell’esperienza quotidiana di gran parte degli uomini che si orientano verso felicità più immediate e attuabili nella vita terrena. E i protagonisti del Decameron sembrano proporsi come esempi assoluti di questa riflessione.

In quali, tra le cento novelle che compongono il Decamerone, emerge maggiormente la matrice teologica?
Senz’altro nelle prime tre novelle e nelle ultime dieci.

Le prime tre novelle si pongono tre grandi obiettivi immediatamente dichiarati dai narratori: dimostrare come la misericordia di Dio sia superiore alla fallacia umana, evidenziare come, malgrado i malcostumi del clero, lo Spirito Santo sia presente e agisca nella Chiesa di Cristo, dichiarare la correttezza dell’agire del papa nel difendere gli ebrei assurdamente perseguitati come untori della peste del 1348.

Nella prima novella, celebre per la figura del malvagio protagonista Ciappelletto, la falsità e l’inganno del notaio pisano, pessimo uomo e grande peccatore che riesce a farsi credere santo, risuona la teologia francescana di Scoto, Ockham, de Wodeham convinti che ognuno è responsabile del male che compie e che Dio è assolutamente libero nel suo agire tanto da poter accettare la preghiera che gli uomini gli rivolgono scegliendo l’impostore come loro intermediario.

Nella seconda novella emerge invece pienamente l’apocalittica di inizio millennio e la convinzione del prossimo sorgere di una nuova Chiesa spirituale in cui cristiani ed ebrei avrebbero vissuto insieme superando ogni distinzione. È notevole qui la ripresa che Boccaccio fa di due grandi teologi spirituali del XII e XII secolo, il calabrese Gioacchino da Fiore e il francescano francese Pietro di Giovanni Olivi, fautori della rinascita spirituale della Chiesa.

Nella terza, famosissima novella dei tre anelli, Boccaccio realizza poi una sublime difesa dell’agire del papa che nelle terre di Avignone concede protezione agli ebrei in opposizione al malcostume dei sovrani europei di perseguitarli in ogni modo e per ogni ragione al fine di impadronirsi del loro denaro e eliminare una abilissima concorrenza mercantile.

La teologia di San Tommaso è invece la protagonista della decima giornata dove finalmente Boccaccio conclude la sua opera morale dimostrando, attraverso esempi narrativi, come si comporta chi desidera perseguire il bene resistendo ad ogni avversità e alla malvagità degli uomini. Il culmine lo si raggiunge nell’ultima, celebre novella, con protagonista Griselda: la donna, vittima del crudele marito Gualtieri, marchese di Saluzzo, resiste ad ogni avversità e violenza inflittale dall’uomo. La sua pazienza, così simile a quella biblica di Giobbe produrrà infine i suoi frutti guarendo il marito dalla matta bestialità da cui è afflitto.

Antonio Fatigati (Monza, 1964) è diacono permanente della Diocesi di Milano. Ha conseguito la laurea in Scienze Politiche presso l’Università degli Studi di Milano e il dottorato in Teologia – Studi biblici presso la Facoltà teologica dell’Italia Settentrionale. Ha pubblicato i saggi Genitori si diventa (Franco Angeli, 2005-2015), Ti ho chiamato figlio (ETS, 2009), L’amore secondo papa Francesco (Paoline, 2017), Storie di ordinaria famiglia (Paoline, 2018), I figli secondo Francesco. Essere genitori nelle parole del papa (Paoline, 2019), Boccaccio teologo (Mauro Pagliai, 2021).

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