
Quale ruolo ha rivestito lungo il XX secolo, e sino ai nostri giorni, l’opera del Certaldese, come pure il “personaggio Boccaccio”?
Accanto al Decameron, il “personaggio Boccaccio” è il deuteragonista del mio studio. Poiché non sempre ci si ritrova al cospetto della riscrittura di una novella. Tra quelle che ho esaminato, un buon numero di opere d’invenzione (sono esclusi, ovviamente, tutti gli studi biografici e gli scritti critici) presentano un eroe che si chiama Giovanni Boccaccio. Non che sia una novità: nel primo Ottocento alcuni drammi storici inglesi e tedeschi avevano già contemplato Boccaccio tra i loro personaggi; e a voler andare ancora più addietro nel tempo si può menzionare una commedia di Pietro Aretino, Il Filosofo (1544) . Ma il secondo Ottocento inaugura una variante inedita: dapprima con la commedia vaudeville parigina del 1853 Boccace ou Le Décaméron, e poi con l’operetta viennese di Franz von Suppé Boccaccio oder Der Prinz von Palermo, del 1879 (che della prima è il libero arrangiamento in lingua tedesca), introducono alla ribalta d’Europa la figura di un giovane poeta, Boccace/Boccaccio, che, fattosi personaggio, prima di narrare/scrivere le sue storielle divertenti e ribalde, provvede a viverle di persona, tra autobiografia inventata, mitopoiesi, palcoscenico e metascrittura. Queste pièce sono prodotti di teatro leggero, a vocazione popolare, in cui le novelle del Decameron, destrutturate e destoricizzate, diventano le “indiscrezioni” irriferibili e immorali di un gazzettiere licenzioso, che narrando di sé e scrivendo dei vizi suoi e altrui, scredita e irride l’intera società borghese. In concreto, un’ennesima e rinnovata incarnazione del libertino don Giovanni, attagliata a uno scrittore medievale che alle sue novelle licenziose seppe accompagnare la ricamata leggenda dei suoi amori napoletani; e riconfigurata sulla falsariga di un avventuriero italiano, celebre e intellettuale, noto in tutta Europa: quel Giacomo Casanova la cui Histoire de ma vie, per l’appunto, era stata pubblicata (manipolata, censurata e condannata) in Francia, non molti anni prima, tra il Venti e il Trenta dell’Ottocento. Lo straordinario successo internazionale dell’operetta viennese fissò questa figura nell’immaginario popolare del pubblico di tutto il mondo, lasciando ovunque evidenti tracce di sé, le quali hanno lungamente resistito nel tempo. Tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento, Boccaccio torna di frequente in scena a interpretare (più che narrare) le sue novelle; per poi spostarsi, sin dagli albori del cinema, sui set d’Europa e d’America. E dagli anni Trenta in poi, questo carattere, ormai una sorta di maschera della commedia dell’arte che riassume su di sé il dongiovanni e il tombeur des femmes, il cinico libertino intellettuale e l’adorabile canaglia, ha saputo conquistarsi una tale autonomia da riuscire ad affrancarsi dallo stesso Decameron, per interpretare storie e copioni originali che verso il Centonovelle non hanno più alcun debito. Come nel caso di un paio di novelle, una spagnola e una inglese, di un paio di romanzi, uno tirolese e uno ungherese, e di due film europei: il tedesco Boccaccio, di Herbert Maisch, nel 1936; e l’italiano Boccaccio, di Marcello Albani, nel 1940. Il mito popolare di un Boccaccio impertinente e guascone è poi transitato, rafforzandosi, attraverso il cinema hollywoodiano (Decameron Nights, di Hugo Fregonese, nel 1953), per travasarsi nel cinema italiano degli anni Settanta (il cosiddetto Decamerotico); e permanere tuttora, alquanto sorprendentemente, nella scrittura di certi improvvidi divulgatori e commentatori.
Cosa rivela l’esame in ottica tematico-culturale dei testi che al Certaldese e alla sua opera maggiore si rifanno?
Come accennavo sopra, il Decameron (e in subordine la leggenda, primieramente autoalimentata, di Boccaccio) offrono al fruitore (più o meno disinvolto, più o meno osservante, più o meno fedele) una vastissima gamma di temi e motivi; a partire da quello della peste/apocalisse per arrivare, passando attraverso elementi ora comici, ora allegri, ora tragici etc., a quello di un mondo rifondato sull’ordine e sul bel parlare. Di volta in volta, questi molteplici elementi, ora enucleati ora addoppiati e/o confusi tra loro, hanno generato lunghe filiere di opere e manifestazioni differenti. Prevedibilmente, una delle tematiche più frequentate è quella comico-sessuale, che senza soluzione di continuità riaffiora in maniera ricorrente e costante dall’epoca delle frizzanti pochade tardo-ottocentesche (che mutuano i plot di alcune novelle) agli spot pubblicitari contemporanei. Nel mezzo c’è davvero un po’ di tutto: commedie e riviste musicali, musical e calendarietti da barbiere; ci sono film brillanti e pellicole erotiche, DVD soft-core e hard-core, novellette e fumetti per adulti, giornaletti pornografici. Questa tematica, complice l’involontario Pasolini, genererà addirittura un sottogenere cinematografico, che verrà chiamato Decamerotico. Il neologismo nasce dal calembour che fonde il titolo Decameron con l’aggettivo “erotico”, e designa la prima fase della lunga stagione della commedia erotica italiana (e prima incarnazione nostrana del fenomeno internazionale noto come sexploitation); parola attestata nei più recenti libri di storia del cinema, ormai, e usualmente resa all’estero con il calco Decamerotic. E tuttavia, questo non è certamente il solo tema rintracciabile. Il motivo della peste, ad esempio, della fine del mondo per pandemia (attualissimo, ovviamente, e recuperato in instant movie e instant book recentissimi: quando ormai avevo chiuso la stesura del libro, la più viva attualità mi ha superato in velocità, e io non ho fatto in tempo a riportare notizia di alcuni titoli), o per chissà quale altro orribile cataclisma, è un fil rouge che attraversa tutto il XX secolo, sino ai nostri giorni: lo ritroviamo nei primi romanzi anglosassoni di science fiction, nella letteratura e nella filmografia distopica (spesso declinato in chiave di satira socio-politica), e nel più recente rock scandinavo, i cui gruppi black metal e death metal scelgono il termine Decameron come nome della band o come titolo dei loro album o delle loro canzoni, per parlare di violenza, limiti estremi della sopravvivenza, ribellismo nichilista, e per toccare argomenti che girano intorno alla blasfemia, la misantropia e la morte, o si avvicinano al satanismo, il neopaganesimo, l’anticristianesimo. Dal costitutivo motivo della “onesta brigata” (e dal suo ribaltamento antifrastico) discendono una serie di opere narrative e filmiche che si interrogano, più o meno austeramente, sul senso dell’appartenenza sociale e politica, sul disimpegno, l’estraneità e la fuga dalle responsabilità, sul ruolo del diverso e del deviante nel tessuto collettivo. A non dire delle novelle patetiche, eroiche o tragiche che hanno continuato a fornire spunti per il melodramma e le arti visive contemporanei. La lista potrebbe continuare a lungo. Insomma, come ha ben scritto Aldo Busi nell’introduzione al suo celebre volgarizzamento del Decameron, l’opera di Boccaccio è come la Bibbia: «si muove, è mercuriale nel tempo, capricciosa e faziosa, pacifica e sanguinaria nel suo muovere con sé gran parte dell’umanità secolo dopo secolo: non conosce stasi ermeneutiche perché è un’opera scatenatamente ballerina».
Quale funzione socio-culturale svolge, nella rielaborazione del personaggio e dell’opera di Boccaccio, il film Decameròn di Pier Paolo Pasolini?
Dopo le raffinate e aristocratiche barbarie di Medea, Pasolini cominciò a pensare a «un film sul popolo, di popolo, ma anche per il popolo», che fosse «molto divertente». Nacque così il Decameròn, che dopo il Festival di Berlino, uscì in Italia nel 1971. Fu il primo episodio della cosiddetta Trilogia della Vita, che si completerà con I racconti di Canterbury del 1972, e Il fiore delle Mille e una notte del 1974; poi soggetta ad Abiura nel 1975. Il Decameròn di Pasolini (l’accento era espressamente previsto e richiesto dal regista) si compenetra, tra gli altri suoi elementi, di una componente comico-sessuale che fu premiata da uno straordinario e inatteso successo di pubblico: all’epoca quasi cinque miliardi di lire l’incasso al botteghino, una cifra enorme. Tale successo, replicato e irrobustito dagli altri titoli della Trilogia, dette origine a un convulso fenomeno di proliferazione che, nel giro di pochi anni, fece proiettare sugli schermi italiani (e poi del mondo) oltre cinquanta film riconducibili, a vario titolo, alla novellistica medievale, rinascimentale e orientale. Un fenomeno che, dagli anni Novanta in poi, ha preso il nome generale di Decamerotico, come ho detto sopra. Anche se Pasolini ne sarebbe assai contrariato (ebbe modo di dichiararlo più volte), parlare di “funzione socio-culturale” del suo film significa dover parlare anche del Decamerotico, che in parte è all’origine di quella sua radicale abiura che lo porterà all’estremo Salò o le 120 giornate di Sodoma (1975). Il Decameròn di Pasolini è un film polimorfo e «ideologico», come lo definì egli stesso, in cui l’innesto della sua autobiografia (come si ricorderà, il regista vi recita il ruolo del migliore allievo di Giotto, nella seconda parte della pellicola) è, alla lettera, «aggressivo»: al fine di estirpare, taglio dopo taglio, selezione dopo selezione, la coercitiva visione boccacciana di quel mondo premoderno, cosmopolita e borghese, e di imporre la sua personale visione, regressiva e napoletana, «popolare» (per non dire sottoproletaria). Dichiarò Pasolini in un’intervista radiofonica:
Io ho deciso di fare un film sul Decameron soltanto quando ho pensato di scegliere i racconti napoletani, le storie napoletane. Soltanto a questo punto ho deciso di fare il Decameròn. Però farò anche una certa coazione: porterò a Napoli, ambienterò a Napoli certi racconti del Boccaccio ambientati invece altrove. Cioè, l’idea è di fare le storie napoletane del Decameròn, di fare un grande film popolare napoletano. Perché, in conclusione, ho scelto Napoli? Per una serie di selezioni e di esclusioni. Dal momento in cui io ho pensato di fare un film profondamente popolare, nel senso proprio tipico, classico di questa parola, ho dovuto escludere piano piano tutti gli altri possibili ambienti. Mi è rimasta Napoli, fatalmente, perché Napoli proprio fatalmente, storicamente oggi è la città d’Italia, il luogo d’Italia dove il popolo è rimasto più autenticamente se stesso, simile a quello che era nell’Ottocento, nel Settecento, nel Medioevo. E io lo considero un fatto meravigliosamente positivo.
Ma quella «innocente gioia di vivere popolare» che Pasolini cercava nei corpi dei suoi sottoproletari, generò inaspettatamente (anche e soprattutto per lui) un corto circuito reazionario e consumista, che nel 1975 lo portò a scrivere, nel celebre articolo Abiura dalla Trilogia della vita: «la lotta progressista per la democratizzazione espressiva e per la liberalizzazione sessuale è stata brutalmente superata e vanificata dalla decisione del potere consumistico di concedere una vasta (quanto falsa) tolleranza». Che cos’era successo? L’enorme e invidiabile successo commerciale del Decameròn aveva riempito gli schermi italiani di una pletora di multiformi e pittoreschi “decameroni” che, giovandosi in prima istanza della sentenza di assoluzione dal reato di oscenità emessa per il film di Pasolini, e sfruttando Boccaccio come ignaro complice, introdussero nello spettacolo di massa il nudo (esibito e gratuito), la simulazione del rapporto sessuale e il racconto osceno, infiacchendo il “comune senso del pudore” e riducendo il sesso e i corpi a mera merce. Se poi il cinema erotico popolare degli anni Settanta abbia davvero contribuito alla rivoluzione sessuale del paese, o se invece esso ne rappresenti una sorta di specchio deformato, è cosa che devono dirla i sociologi.
Quali, a Suo avviso, tra i numerosi esempi di riscritture “boccacciane”, rivestono maggiore interesse?
Senza dubbio il volgarizzamento di Aldo Busi è un vero capolavoro. Quindi, personalmente trovo molto belli alcuni adattamenti. Certamente il mediometraggio d’animazione a passo uno di Jiří Trnka, Archanděl Gabriel a paní Husa [L’arcangelo Gabriele e la signora Oca], realizzato a Praga nel 1964; che traspone la novella seconda della quarta giornata, quella di Berto della Massa alias frate Alberto e della sciocca Lisetta Quirini. Da vedere e rivedere. E altrettanto certamente il rifacimento a fumetti del francese Vincent Vanoli Le Décaméron. Un divertissement d’après Boccace, stampato nel 2000. Una piccola meraviglia in b/n dal tratto grafico grottesco e marcato, in cui la riscrittura delle novelle è artisticamente sensata e sensibile, operata per mezzo dell’adozione di logiche di lettura differenti e inedite, che passano attraverso il taglio e la selezione, il mutamento di prospettiva, l’alterazione dei caratteri, la riflessione a posteriori. Tramite la decostruzione, la variazione e la ricomposizione, le rielaborazioni di Vanoli mirano a cogliere, all’interno delle novelle decameroniane, gangli emotivi segreti, sviluppi emozionali inediti, effetti inaspettati e ripercussioni imprevedibili. E ciò senza mai tradire intimamente l’opera originale. Interessante e arguta è poi la falsa novella boccacciana scritta e commentata da Andrea Camilleri nel 2007. Peraltro, accanto a queste e ad altre riscritture di pregio, nel mio libro indago anche molte opere brutte e cialtrone, ridicole, o volgari. Al di là del materiale porno (di cui ognuno può farsi l’idea che vuole), metto in repertorio romanzetti insulsi e mal scritti, film imbarazzanti, trasmissioni televisive trash. O dichiarazioni deliranti: come quelle di chi ritiene che Boccaccio non sia mai esistito e che il Decameron sia opera di Cecco Angiolieri (purtroppo non sto scherzando…), o di chi sostiene, prove alla mano [sic], che lo scrittore di Certaldo apparteneva alla setta dei Templari, ed era un membro occulto dei Fedeli d’Amore. Mi si potrebbe domandare: perché operare questi recuperi? Non sarebbe meglio lasciar cadere nel dimenticatoio certe bizzarrie? Premesso che la corretta analisi delle opere di Boccaccio la si deve cercare altrove, nei contributi dei filologi, rispondo dicendo che, alla luce del dibattito sull’intreccio tra high culture, midcult, popular culture e masscult, così ricco e animato in questi ultimi decenni, l’obiettivo del mio lavoro, sin dal titolo e sottotitolo, è appunto quello di esplorare quella dimensione pop di Boccaccio, che, all’interno di un “sistema culturale di massa globalizzato”, tipico della contemporaneità, è alla portata diretta di quell’uomo-massa (definibile mediante sostantivi collettivi generici come “pubblico” e “audience”) che, reagendo allo stimolo di stereotipi interiorizzati e non vagliati che gli provengono dal “consumo” di prodotti comunicativi medi e bassi, si comporta come la «antitesi della figura dell’umanista colto» (come sostiene José Ortega y Gasset). In un tale contesto, peciò, non è tanto la qualità della riscrittura che fa la differenza; ma semmai è la quantità (per quanto relazionalmente aberrante) a denotare la sorprendente versatilità, la poliedrica adattabilità di Boccaccio e della sua opera al mondo di oggi (fenomeno che assai raramente si ritrova in altri scrittori del passato), la sua capillare immersione nel presente, la sua indiscutibile “attualità”.
Marco Bardini insegna Letteratura Italiana Contemporanea all’Università di Pisa. In passato si è occupato di storiografia e poesia politica rinascimentali; il suo primo libro fu Borbone occiso. La tradizione storiografica del sacco di Roma del 1527 (Pisa, 1991). Si è poi dedicato all’opera di Elsa Morante; tra i suoi molti contributi le monografie Morante Elsa. Italiana. Di professione, poeta (Pisa, 1999) e Elsa Morante e il cinema (Pisa, 2014). Di recente ha scritto su Sciascia e Silvana Grasso. Tra i suoi interessi attuali ci sono la traduzione intersemiotica e la contaminazione tra cultura “alta” e subculture.