
In parallelo all’ascesa di Dylan, la guerra nel Vietnam, seguita in tutto il mondo (almeno dovunque si possa accendere una radio o una televisione), imperversa e pone quesiti sul sacrificio di una generazione, le risposte ai quali volano nel e col vento. Come in un film impostato su una aspettativa (il giovane Presidente della democrazia e del cambiamento) improvvidamente delusa, l’evento nefasto del 22 novembre 1963 scuote l’America e la cultura occidentale per ramificarsi, pian piano, globalmente e temporalmente.
Due canzoni per partenza e arrivo dell’“importanza di Dylan per la cultura contemporanea”: A Hard Rain’s A-Gonna Fall (1962) e Murder Most Foul (2020), che completano, ad oggi, o forse più propriamente, al marzo scorso (durante la pandemia che, sull’onda dell’“io resto a casa”, ci consentiva di tirare le fila della ricerca per Bob Dylan and the Arts), l’arco della sua carriera.
Anche se solo enucleando il tema della terra che vive uno stato patologico molto prossimo alla fine o che avrebbe già raggiunto esiti catastrofici rendendo gli esseri umani (vedi Alessandro Portelli nel saggio lungo su pioggia e veleno in Hard Rain) “soli, smarriti e spaventati”, quel tema (i malori della terra) anticipa, in tempi ancora colpevolmente ‘non sospetti’, la profonda crisi dei cambiamenti climatici e i fenomeni atmosferici estremi cui si guarda con allarmante preoccupazione nonché il surriscaldamento globale e l’urgente necessità di tutelare i mari.
Anni dopo il cantautore settantanovenne, a casa per la pandemia, dirige il suo backward glance a un evento tragico, la morte di J. F. Kennedy, che inaugura un processo definibile con altre tre parole: decadenza, sradicamento e sospetto (Timothy Hampton). La novità, e l’importanza, del pezzo (lunghissimo, 17 minuti, salmodiato più che cantato, per accentuarne l’universalità) sono dovute al fatto che è la morte di una persona famosa, con varie implicazioni. È lo spirito del de cuius ad aggirarsi all’interno della canzone come un fantasma; uno che in quell’occasione può aver ossessionato chi nel mondo ne evocava la presenza o il ritorno; un fantasma che, complice il lungo elenco di cantanti e musicisti classici e alla ribalta nelle sei decadi in cui Dylan opera, ha interagito, in musica, con noi. La morte di Kennedy è tutto ciò – un esito non atteso, un Godot che, al contrario di quello beckettiano, arriva, senza che nessuno l’abbia convocato o atteso. Un Godot globale (‘planetario’, direbbe Carrera).
Il menestrello insignito del Premio Nobel alla Letteratura ha saputo, con la musica e la voce, attraverso gli anni e i luoghi del mondo, valorizzare “il ruolo vitale che ha la canzone nella sfera emozionale di ciascuno di noi” (Claudio Baglioni sulla portata della canzone a ‘Otto e mezzo’, LA 7, venerdì 26/02).
Quali tratti accomunano la carriera musicale e quella pittorica del menestrello di Duluth?
Fabio Fantuzzi: La sua ricerca pittorica è per molti versi opposta e complementare a quella musicale: da un lato, Dylan scrive canzoni come lo farebbe un pittore, per accostamento e accumulo di catene di immagini; dall’altro, dipinge come un cantautore, o meglio, come un cantastorie, cosa che fa dei suoi quadri prima di tutto dei racconti.
Cionondimeno, sono diversi i punti di incontro tra le due arti: entrambe sono frutto di una ricerca marcatamente intermediale, che non si lascia costringere nel perimetro di un mezzo e rifiuta di esaurirsi, aprendosi a interpretazioni multiple. Quello che Dylan cerca, sia nei panni del pittore professionista sia in quelli del cantautore, è di catturare un attimo nella sua vitalità, di fissarlo ed eternarlo nella sua durata, nel suo fluire. Ma, se nella canzone persegue questa sua ricerca adottando un approccio semi astratto, nei suoi dipinti, al contrario, tende a mantenersi nel solco del realismo americano.
Pittura e musica, dunque, sembrano essere per lui due facce della stessa medaglia: quella di una creazione che mira a realizzarsi in un’opera aperta e in perenne evoluzione, mediante linguaggi diversi e tra loro interconnessi.
In che modo le teorie del suo insegnante di pittura, Norman Raeben, offrono uno sguardo privilegiato sulle meccaniche della poetica dylaniana?
Fabio Fantuzzi: Le lezioni di Raeben hanno avuto un’influenza cruciale sulla carriera di Dylan. Al tempo (correva l’anno 1974), stava attraversando una crisi creativa, durata diversi anni, di portata tale che in alcune interviste successive dichiarò di essere stato a un passo dal ritiro. Come ebbe più volte lui stesso a spiegare, con l’incidente motociclistico del 1966 qualcosa negli ingranaggi della creazione si ruppe e non fu più in grado di comporre intuitivamente, come aveva sempre fatto. Dopo anni di tentativi e risultati altalenanti, ci riuscì nuovamente, stavolta consapevolmente, proprio grazie all’incontro con l’anziano insegnante, che gli permise di comprendere le dinamiche creative e padroneggiarle in maniera più matura. Con le sue stesse parole, Raeben “mi insegnò a vedere. Mise in contatto la mia mente, la mia mano e il mio occhio”.
Il menestrello, però, non era semplicemente in cerca di una fonte di ispirazione, ma di un vero e proprio metodo creativo che di fornisse una sintesi tra le sue poetiche giovanili: quella delle canzoni a tema (o “finger-pointing song”, per usare una sua espressione) e quella degli album della svolta elettrica, più vicini alle tecniche del flusso di coscienza e della scrittura automatica. Certo ebbe molta fortuna a scorgerlo nel metodo di Raeben, ma fu anche straordinariamente abile e lesto nel trasporlo e adattarlo nel campo della canzone. Il primo risultato fu Blood on the Tracks, l’album che inaugura la produzione della maturità, che molti considerano il suo migliore disco.
La grande differenza con i dischi precedenti, ci dice Dylan, è che “c’è un codice nelle liriche e non c’è senso del tempo”. A quarant’anni dalle lezioni, i lettori possono finalmente addentrarsi nello studio di Raeben e avvicinarsi alla decifrazione di questo affascinante codice senza tempo.
Quale uso fa Dylan delle tecniche cinematografiche e teatrali nelle sue canzoni e nella sua musica?
Alessandro Carrera: Dylan non ha mai posseduto la tecnica del cinema nello stesso modo in cui ha posseduto e possiede la tecnica delle canzoni, e in parte anche della pittura. Lo provano i suoi tentativi di fare del cinema, dove le idee, che pure ci sono, si scontrano con un totale dilettantismo, a volte perfino imbarazzante. Ma questo non significa che non ci sia tecnica cinematografica nelle sue canzoni, anzi ce n’è molta. Una canzone come Fourth Time Around, ad esempio, potrebbe benissimo essere un film nouvelle vague: la continua alternanza di punti di vista dai quali la storia viene narrata corrisponde a una serie di “piani” che potrebbero benissimo essere visualizzati in uno storyboard e poi filmati. Ciò che accosta le canzoni narrative di Dylan al cinema è una delle sue intuizioni più geniali, cioè quella di superare o ignorare: 1) la linearità cronologica; 2) la necessità di essere guidato da un io narrante sempre uguale dall’inizio alla fine. Nelle canzoni narrative di Dylan noi “vediamo” cose e persone, e sentiamo la voce di un narratore che si sta rivolgendo a qualcuno. Ma quel qualcuno può benissimo essere assente dalla canzone, può essere un destinatario di cui non sospettiamo l’esistenza finché non arriviamo all’ultima strofa. Succede in forma spontanea in alcune canzoni di Blonde on Blonde e John Wesley Harding, succede in forma più meditata nelle canzoni di Blood on the Tracks. Dylan aveva disimparato quello che era riuscito a fare a metà degli anni sessanta perché allora aveva agito per puro istinto, e ha bisogno delle lezioni di Norman Raeben per recuperare quella capacità in parte perduta. I risultati si vedono anche a lungo termine.
Señor del 1978 è assolutamente un film, ma un film non lineare, in cui le scene sono tagliate e incomplete di proposito. Lo stesso accade in Brownsville Girl del 1986, che peraltro è stata scritta con il commediografo, regista e attore Sam Shephard, e in Highlands del 1997, ma anche con Tempest del 2012 e la sua narrazione obliqua dell’affondamente del Titanic. Quello che potrebbe sembrare frustrante, cioè l’incompletezza delle storie raccontate, i loro salti temporali, logici e prospettici, è in realtà la chiave della riuscita di quei brani. Una canzone che dice “tutto” ci stanca dopo pochi ascolti. Una canzone che accenna e tace, tace e accenna, stimola l’ascolto – ovviamente per l’ascoltatore che apprezza il gioco e vuole partecipare. Per qualche equivalente negli anni sessanta potrei fare i nomi di Godard e Fellini, ma si potrebbe anche pensare alle ellissi, ai vuoti improvvisi e a i bruschi rovesciamenti di punti di vista che troviamo in certi film di Abbas Kiarostami, come in Sotto gli ulivi o Copia conforme. Questo non significa che ci sia mai stato il minimo rapporto tra i due. Voglio solo dire che se Kiarostami ha teorizzato un “cinema incompleto” dove lo spettatore ci deve mettere del suo, anche Dylan fa la stessa cosa con canzoni come Tangled Up in Blue o Idiot Wind. Fanno eccezione alcune canzoni di Desire scritte con il regista Jacques Levy, come Hurricane e Black Diamond Bay, che sono altrettanto cinematografiche (Hurricane comincia con una serie di indicazioni di scena: colpo di pistola, entra Patty Valentine, vede il barista a terra ecc.) ma an che molto più lineari. Nello stesso album, però, Romance in Durango e Isis sono scritte “alla Dylan”. Romance in Durango è un Western senza conclusione e Isis è altrettanto circolare di All Along the Watchtower.
In che modo Dylan si confronta con i temi ebraici e la cultura afroamericana?
Alessandro Carrera: Questa è una domanda a cui si può rispondere o con una frase o con un libro di mille pagine. Il compromesso è il capitolo che ho scritto per Bob Dylan and the Arts, un’analisi, forse fantasiosa e immaginaria, ma non credo più di tanto, di un problema che ha assillato Bob Dylan soprattutto negli anni Ottanta: il desiderio di raccontare una storia d’amore e d’avventura tra un ebreo americano e una donna di colore (nera ispanica o nera americana) e appartenente a una fede diversa. Non ci è mai riuscito per tanti motivi forse anche personali, era una cosa che lo toccava troppo da vicino (la sua seconda moglie, con la quale è stato sposato dal 1986 al 1992 e dalla quale ha avuto una figlia, è afroamericana), ma ha lasciato tracce in canzoni scritte dal 1978 al 1986. Ho cercato di analizzare queste tracce nel mio contributo al libro, legando l’intera tematica al riferimento biblico di Re Salomone, la Sulamita dalla pelle scura e la Regina di Saba, che era certamente nera anche se i pittori del Rinascimento la raffigurano bianca. Ma il problema è ben più profondo, non è solo personale, e riguarda ad esempio i rapporti tra musicisti ebrei e musicisti afroamericani, una storia ricchissima e che attraversa tutto il Novecento, come anche l’incomprensione e i dissapori tra le due “razze della diaspora”, che non si possono ignorare e che il tempo non ha risolto. È un argomento infinito.
Quale rilevanza assumono i riferimenti biblici nelle liriche di Bob Dylan?
Maria Anita Stefanelli: Dei riferimenti biblici nelle liriche scrive Renato Giovannoli, il quale, ipotizzando che la qualità dello stile dylaniano sia biblica, ne registra le trasformazioni chomskyane che dimostrano come dalla struttura profonda (dove c’è la Bibbia) si passi a quella superficiale (le parole della lirica). Con la trilogia pubblicata anteriormente al saggio, l’esegeta già offriva al pubblico la chiave per dischiudere i segreti non di un libro, ma piuttosto, come autorevolmente suggerisce Northrop Frye nel suo seminale The Great Code, quelli di una piccola biblioteca, quale ta Biblia (I libretti) in realtà è, e proporre quale Dylan personalmente li interiorizzi. L’impatto della Bibbia sull’immaginazione creatrice del Nostro non può non offrire ulteriori spunti per riflettere sulla retorica dylaniana come funzione di significanti che trasmettono mistero, illuminazioni e spiritualità.
Quale legame unisce il menestrello di Duluth a Roma?
Maria Anita Stefanelli: Il legame più significativo di Dylan con Roma è l’incontro con il Vescovo della dioecesis urbis seu romana che avviene, tuttavia, a Bologna, il 27/10/1997 in occasione del concerto per il XXIII Congresso Eucaristico Nazionale. Tutto questo quando l’avventura (posso chiamarla?) o la parentesi (piuttosto) dell’“esperienza di rinascita” in cui consistette la conversione di Dylan al cristianesimo, è ormai lontana nel tempo e il riavvicinamento alla religione ebraica già avvenuto. In smoking con banda argentata e l’immancabile cappello da cowboy Dylan canta Knockin’ on heaven’s door e A hard rain is a-gonna fall davanti a un pubblico di trecentomila spettatori (difficile contarli) prima di salire gli scalini (inciampando sul secondo) per recarsi a rendere omaggio a Giovanni Paolo II e concludere, infine, con Forever young, che accenna alla costruzione metaforica (da parte del pontefice?) di una ladder to the stars a disegnare il percorso che lega perpetuamente terra e cielo. Il papa citerà, nel suo discorso a suggello di un virtuale ponte tra i contenuti della musica e i valori della parola, i versi di Blowing in the wind intravedendo nel vento il soffio dello Spirito Santo. Quel legame è quanto di più sacro – nel senso originale di adesione alla divinità, seguace di una divinità, ovvero ‘consacrato a un dio’ (il dio in cui, in quel momento, crede) – sia potuto avvenire tra Dylan e l’Urbe (da urvare, nel senso speciale di ‘segnare la delimitazione religiosa’, legato a una radice sanscrita che vale ‘elevare, far crescere’). Quel contatto, in sostanza, può dirsi il forte legame di Dylan con Roma, sede del Vicario di Cristo.
Maria Anita Stefanelli, già professore ordinario di Lingua e Letterature Angloamericane presso l’Università ‘Roma Tre’, ha scritto, tra gli altri, su Whitman, Dickinson, W.C.Williams, Ferlinghetti, Patchen, e i Beat; sul teatro di A. Miller, T. Williams, E. Albee, D. Mamet e sul cinema di S. Clarke, S. Coppola e C. Dunye.
Alessandro Carrera è professore di Italian Studies e World Cultures and Literatures alla University of Houston, in Texas. È autore di La voce di Bob Dylan (Feltrinelli 2001 e 2011) e per Feltrinelli ha tradotto le canzoni e le prose di Dylan (Chronicles 2005, Tarantula 2007, Lyrics in tre volumi, 2016-2017).
Fabio Fantuzzi è dottore di ricerca in letterature angloamericane presso l’Università Roma Tre. Ricercatore, cantautore e polistrumentista, i suoi interessi di ricerca sono rivolti alle intersezioni tra poesia, pittura e musica. Suoi articoli e saggi focalizzati sull’attività artistica di Bob Dylan, sono usciti sulle riviste Musica&Realtà (2014), Pagine Ebraiche (2016) e per Edizioni Ca’ Foscari (2017).
Insieme hanno curato il volume Bob Dylan and the Arts presso Edizioni di Storia e Letteratura (Roma 2020).