
Questa “impreparazione” diffusa, che in effetti ha generato un “caos globale” poteva certamente essere attribuita a chi ha interesse al disordine per imporre un presunto nuovo ordine, (anche attraverso l’imposizione di misure securitarie), ma anche in questo caso la vicenda appare più semplice e meno contorta. I provvedimenti internazionali sono stati fondati sul principio della precauzione, di riduzione del danno e dei pericoli, per la salvaguardia della salute pubblica. Nella prima fase si è cercato di dare a tutti assistenza sanitaria aumentando i posti letto in terapia intensiva e aumentando gli ausili, diminuendo le occasioni di contagio con i distanziamenti e il divieto di assembramenti, fino alla decisione finale del “rimanere a casa”. Nella seconda fase quando è arrivata l’opzione terapeutica del vaccino, con la promozione della vaccinazione per salvaguardare i cittadini dal contagio e dal conseguente aggravamento con la possibilità del ricovero o addirittura del decesso. Ma l’unica risposta possibile che ha coinvolto a livello internazionale tutti gli stati a livello globale si è dimostrata adeguata? Vediamo alcune domande essenziali: si poteva essere preparati meglio con i piani pandemici mondiali e nazionali? Si doveva avere uno stoccaggio di ausili sanitari, come mascherine e ossigeno di scorta? Ci doveva essere un organismo europeo che nel rispetto del principio di sussidiarietà coordinasse in maniera uniforme i provvedimenti degli stati e aiutasse in tutte le fasi dell’assistenza sanitaria, come una protezione civile europea con ospedali da campo europei pronti? C’è stato un “ritardo” da parte dell’Oms nell’organizzare le informazioni per sostenere l’impatto a livello globale dell’emergenza? Dovevano gli Istituti di ricerca nazionali e pubblici “essere pronti” ad una pandemia ampiamente attesa? Doveva big pharma investire preventivamente nello studio e nella ricerca sulla diagnostica e sulle terapie per affrontare l’imminente pandemia? Ci doveva essere un “protocollo condiviso di informazione” che risolvesse i dubbi e le domande della popolazione, eliminando l’astruso e a volte insensato dibattito di pseudo scienziati, pseudo medici, pseudo virologi, pseudo epidemiologi, che si contraddicevano nelle risposte e nelle proposte della gestione pandemica? A tutte queste domande si può rispondere affermativamente e a tutte queste domande si doveva rispondere, mentre in prima battuta la risposta o non è arrivata in tempo o è stata quasi sempre negativa o insoddisfacente, non livello nazionale, ma a livello internazionale: da questo punto di vista c’è stata una “colpa diffusa”, di un sistema globale che non si è fatto trovare “pronto” nella reazione ad un evento improvviso, ma gestibile senza causare disagio e sofferenze, spesso con conseguenze direttamente o indirettamente parossistiche per la popolazione, che hanno determinato esiti ed eventi infausti.
In che modo il Comitato Nazionale per la Bioetica è intervenuto in tema di accesso alla cura?
Il Comitato Nazionale per la Bioetica, organo consultivo della Presidenza del Consiglio dei Ministri, ha emesso fin dall’inizio numerosi pareri sul Covid su tutti gli aspetti e i problemi bioetici riconnessi all’emergenza pandemica. Studiandoli attentamente emerge un’analisi approfondita delle diverse questioni bioetiche, approvate quasi sempre all’unanimità, in cui il Cnb ha semplicemente svolto il suo ruolo al meglio, com’è nel suo compito da statuto e come era prevedibile data la presenza di esperti che uniscono competenze umanistiche a quelle scientifiche al più alto livello. I pareri del Cnb testimoniano una best practice consultiva su tutte tematiche bioetiche, biogiuridiche e biopolitiche della pandemia, mettendo a confronto i diversi argomenti pro e contro e sviluppando una sintesi conclusiva da cui emergono delle proposte concrete e operative . Il Cnb si è fatto trovare “preparato” perché da più decenni emana decine di pareri che incidentalmente hanno toccato tutti gli aspetti della pandemia, per cui si è fatto trovare “pronto” e ha risposto puntualmente alle domande in tutti i pareri, a tal proposito consiglio l’attenta lettura dei pareri del CNB sul Covid accedendo al seguente link: https://bioetica.governo.it/it/pareri/i-documenti-del-cnb-sul-covid-19/
Si noterà che il principale criterio argomentativo che sottende a tutti i pareri sia quello della “giustizia” nel rispetto della “dignità della persona” in ogni condizione si trovi, con il dovere di tutelarla soprattutto nelle condizioni di fragilità e debolezza come quelli dell’emergenza pandemica.
Quale rilevanza assumono, nel contesto attuale, le questioni della libertà di cura come espressione del diritto di libertà della persona e i limiti riguardo all’esigenza di misure a salvaguardia della salute pubblica?
La salute pubblica sancita nella Costituzione nell’art. 32 come diritto umano fondamentale costituisce una dei più importanti beni pubblici della nostra società, secondo solo al diritto alla vita e alla sua incolumità. Lo stato ha quindi il dovere di garantire il bene salute come bene supremo e primario rispetto a tutti gli altri, come ad esempio la libertà personale di movimento e ad limite rispetto alla libertà di cura, che rimane come espressione del diritto di libertà all’autodeterminazione relativa e non assoluta.
A ben vedere questo principio relativistico dell’autodeterminazione (che deriva nella prospettiva ontofenomenologica dalla stessa nascita della persona, che non può autodeterminarsi), lo possiamo definire come uno dei paradossi della bioetica libertaria (cortocircuito libertario) in ambito biogiuridico: la mancata comprensione della compressione delle libertà di cura con l’obbligo di certificazione vaccinale per accedere a luoghi pubblici o aperti al pubblico o comunque a luoghi di relazione sociale, (come i luoghi di lavoro), avrebbe generato una “reazione libertaria” sul principio di autodeterminazione assoluta. In questo caso come previsto dalla riserva dell’art.32 a nessuno può essere imposto di vaccinarsi (come trattamento sanitario), “se non per disposizione di legge” (almeno di non voler utilizzare i trattamenti sanitari obbligatori per chi perda la capacità di intendere o di volere, ad agire, innanzitutto, a tutela di se stesso e degli altri). Questa extrema ratio dell’obbligo vaccinale nei luoghi di lavoro e in tutti i locali pubblici, può verificarsi solo in casi come l’emergenza sanitaria, (come ad esempio una pandemia), dove il pericolo e il rischio fondamentale per la salute pubblica, è innanzitutto quello di non poter garantire le cure necessarie o l’accesso ai pronti soccorsi per la “scarsità” dei posti di letto di fronte ad una domanda esponenziale e quindi di garantire un principio cardine dell’ordinamento democratico che è l’assistenza sanitaria gratuita universale per tutti i casi e pazienti, senza distinzione di condizioni.[1]
Di fronte allo scenario pandemico emergerebbe evidentemente che il dovere dello stato è garantire il diritto alla salute (e alla vita) dei cittadini e non di prevedere la possibilità di una sua eventuale autoeliminazione. Il favor vitae costituisce un “a priori biogiuridico” che innerverebbe tutta la struttura organizzativa e ordinamentale della biopolitica. Non si tratterebbe di riconoscere un “paternalismo bioetico” o statuale, ma di far emergere come la vita politica si nutre di vita sociale, in cui il singolo (e la persona “nasce in società” fin dal rapporto con i genitori), che vuole stare in una comunità politica, ha innumerevoli diritti, ma su di lui gravano anche dei “doveri umani” irrinunciabili, tra cui quello della “responsabilità sociale” verso se stesso e verso gli altri. Se non si vive da soli, ma “con gli altri”, non si può pensare solo a sé, ma anche agli altri che incontriamo e che ci circondano. In questo senso la misura dell’obbligo della certificazione vaccinale nei luoghi di lavoro e in tutti i locali pubblici, al momento, costituirebbe solo una misura eccezionale e straordinaria per tutelare il “bene vita” proprio e degli altri, come atto di solidarietà sociale e di bene comune.
Quale significato profondo è possibile identificare nella vicenda pandemica?
I significati della vicenda pandemica sono molteplici. Inizialmente con i lunghi lockdown e la chiusura degli spazi pubblici è emersa insieme alla costrizione della libertà di movimento e di relazione esterna, una possibile interiorizzazione personale. Si è passati improvvisamente da una società aperta all’esercizio di tutte le libertà, costituita da innumerevoli “mondi di occasioni, di incontro e di svago”, ad una “società chiusa” e ripiegata su stessa con la propria interiorità o familiarità. Apparentemente la mancata fuoriuscita con le attività esterne è apparsa “rinchiudere” le persone nelle proprie abitazioni e nella solitudine. Superata questa fase il “forzato” rapporto con se stessi per alcuni è stato una straordinaria occasione di conoscenza attraverso il mondo della rete o attraverso l’opzione “meditazione” e riflessione su di sé e la propria vita. Improvvisamente abbiamo scoperto di essere “fragili”, soli, potenzialmente contagiati, con il rischio di ammalarsi e aggravarsi. Siamo in qualche modo stati costretti ad una meditatio mortis, con i continui aggiornamenti sui decessi e i ricoveri in terapia intensiva. Inoltre la limitazione degli spazi e la compressione dei rapporti personali ha determinato situazioni diffuse di stress correlato alla situazione. Questa condizione particolare ha certamente generato preoccupazione per il proprio futuro (non solo lavorativo) e la propria condizione di salute: ci siamo improvvisamente resi conto di “avere un corpo” che poteva ammalarsi non solo delle solite patologie, ma anche di un’altra invisibile e potenzialmente devastante. In questo senso la pandemia ci ha costretto a riappropriarci della nostra condizione umana, fragile e caduca, anche facendo prevalere il sentimento della paura dell’altro come possibile portatore di contagio. Inoltre la pandemia ha fatto vacillare il mito del tecno-ottimismo (anche per come si è evoluto nell’ottica transumanista), dell’idea che la tecnica, la bioscienza e le biotecnologie potessero prevedere tutti i problemi e risolvere ogni situazione complessa con potenti analisi o competenze sofisticate. Lo stesso livello di comprensione e di comunicazione scientifica ha generato esiti diversi, a volte contraddittori. La pandemia ci lascia quindi una lectio irrinunciabile: oltre a implementare l’interconnessione tra ricerca scientifica internazionale e applicazioni biomedicali e farmaceutiche, innanzitutto ha fatto emergere il dovere personale (non delegabile) di “prenderci cura di noi stessi” e della nostra corporeità: il corpo non è solo uno strumento a disposizione della volontà o dei desideri esteriori, ma ha i suoi limiti, i suoi ritmi e ha bisogno di molta “attenzione e cura”. Dall’altro la pandemia ci lascia la necessità di rivedere a livello nazionale e internazionale le procedure previsionali dei piani emergenziali (non solo pandemici o della medicina delle catastrofi) e una profonda attenzione all’informazione scientifica che dovrà in futuro essere chiara, semplice, accessibile e aperta alle domande e a i dubbi di ciascuno. Inoltre la pandemia ci ha insegnato come la vera libertà di cura è quella di “prendersi cura” innanzitutto di sé stessi, prevenendo le patologie e avendo uno stile di vita il più possibile corretto, sano e sostenibile. Su questo aspetto ognuno dovrebbe elaborare delle strategie per coltivare la propria salute, completandola e integrandola con un percorso specifico, in relazione allo studio e alla conoscenza del proprio corpo e alla propria condizione psicofisica. Infine sulla dimensione farmacologica del vaccino, una volta vagliate l’efficacia, le reazioni avverse e le controindicazioni da parte delle preposte agenzie scientifiche indipendenti, si dovrebbe riconoscere la sua validazione e accoglierlo come un “primo bene” da utilizzare, poiché costituisce un’arma disponibile per contenere l’emergenza pandemica.
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[1] In questo senso ho trovato sempre interessante e paradigmatico il dibattito internazionale non solo sul diritto di rifiuto delle cure, ma sulla richiesta di libera eutanasia attiva (come massima espressione dell’autodeterminazione assoluta), senza particolari restrizioni o requisisti oggettivi o soggettivi, se non la libera manifestazione del consenso espresso e inequivocabile e la condizione oggettiva di una sofferenza auto-percepita (o presunta) come “insopportabile”. Al di là del dovere di usare tutte le opzioni palliative per la terapia del dolore, il “paradosso eutanasico” potrebbe avere una conseguenza implicita nel suo uso autolesionistico: “ad absurdum” se fosse diffusa in larga scala e se “tutti” (o un gran numero di persone) utilizzassero questo insindacabile e personalissimo diritto di libertà (inteso come diritto a morire), si potrebbe avere come conseguenza la stessa dissoluzione sociale (intesa come autodissoluzione della stessa società, cioè dell’elemento del popolo come costitutivo dello stato nazionale). Da questo punto di vista un riconoscimento pubblico del diritto esteso all’eutanasia diretta (anche indiretta), come diritto assoluto e personalissimo (e quindi riconnesso al suicidio assistito tout court in strutture ospedaliere pubbliche), manifesterebbe la volontà dello stato di riconoscere la possibilità (remotissima, ma possibile) della sua stessa progressiva estinzione per “eccesso di esercizio di diritto di libertà”.
Francesco Zini è Professore Aggregato di Filosofia politica presso il Dipartimento di Scienze Politiche e Internazionali dell’Università degli Studi di Siena