“Biologia della letteratura” di Alberto Casadei

Prof. Alberto Casadei, Lei è autore del libro Biologia della letteratura edito dal Saggiatore: quali sono i presupposti biologico-cognitivi operanti nella creatività umana?
Biologia della letteratura, Alberto CasadeiLa questione è di grande attualità e naturalmente non è chiusa: non esiste cioè una formula scientifica per identificare un’opera creativa o addirittura per poter operare ‘creativamente’. Di certo molte componenti che riconosciamo ormai come perenni agiscono in vari tipi di creatività, artistica quanto scientifica (semmai, è un po’ diverso il processo dell’invenzione tecnica). Per la letteratura, io ho indicato come sicuramente attive una componente di attenzione, che serve innanzitutto a monitorare l’ambiente attimo per attimo, ma può essere diversamente orientata attraverso processi consci o inconsci; poi la ritmicità, con la quale verifichiamo il nostro stesso stato di esistenza (il cuore che pulsa ecc.); ancora, la capacità mimetica, sicuramente collegata agli ormai famosi neuroni specchio ma poi anche all’immaginazione di eventi che ci vengono raccontati e che non vediamo o percepiamo direttamente; infine la capacità analogico-metaforica, o anche di blending: è il campo in cui si sono registrate le più varie teorizzazioni e ricerche neurocerebrali negli ultimi trent’anni, e naturalmente ha una ricaduta diretta sia sulla letteratura che sul linguaggio in genere, ma anche per esempio sulle intuizioni scientifiche, che non dipendono solo dal ragionamento logico. Su queste basi è poi necessario lavorare con competenze diverse. Io ho letto moltissimi studi che riguardano le tracce cerebrali e corporee di queste propensioni biologico-cognitive, riscontrate dalle macchine mentre si fruisce di opere d’arte visive, musicali o scritte: e naturalmente è molto interessante conoscere esattamente quali sono le nostre reazioni. Per esempio, si può ormai sfatare il mito dell’emisfero cerebrale sinistro tutto dedicato alle operazioni logico-razionali e di quello destro invece deputato alle arti: come dimostrano esperimenti recenti, per esempio del MIT di Boston, le cose sono molto più complicate e spesso si attivano in contemporanea varie aree dei due emisferi. Ma il mio scopo non era quello di applicare questi esperimenti alla letteratura, perché sarebbe un po’ come se si volesse spiegare la bellezza di una supercar indagando esclusivamente quali pistoni o quali freni sono montati. Io ho cercato di focalizzare in quali ambiti artistici le propensioni biologico-cognitive sono state attive sin dalla preistoria (e infatti presento analisi che riguardano i disegni realizzati in grotte come quelle di Lascaux), e ho indagato quando possiamo cominciare a parlare di arte e non di semplice attività basilare. La mia idea è che il momento di distinzione coincida con il riuso finalizzato delle propensioni indicate sopra, e cioè con la nascita di quella ‘competenza superiore’ che realizza uno stile.

In che modo la fenomenologia classica ci aiuta ad interpretare la questione dello stile?
In realtà non solo la fenomenologia, per esempio le idee di Maurice Merleau-Ponty, ma in generale molte discipline critiche che toccavano l’interazione fra arte e componenti biologiche e antropologiche mi hanno offerto molti spunti: potrei citare gli studi di Aby Warburg, non a caso ripresi da un neuroscienziato e acuto studioso di estetica quale Vittorio Gallese; oppure quelli di Roland Barthes sul punctum, l’elemento che, in una fotografia, ci colpisce profondamente senza che nemmeno ci rendiamo conto del perché. Io parlo più in generale di ‘elemento attrattore’, cioè del fatto che nelle opere d’arte prima di tutto si sono cristallizzate componenti che miravano a sottolineare, e quindi rendere attraenti per l’attenzione, nuclei di senso particolari. Facciamo un esempio. Se io ho una serie di dadi bianchi a puntini neri, come di solito so che sono i dadi, e poi ne vedo improvvisamente uno rosso, la mia attenzione si concentra inevitabilmente su di esso: devo cercare di capire perché questo accada, magari si tratta di un segnale di pericolo e devo tenerne conto. Normalmente questi elementi non sono poi rilevanti, spesso sono casuali; ma se io, come proto-artista, voglio far capire bene un evento che ho percepito (e ricordiamoci che il ‘ritagliare’ la realtà in eventi è un’operazione concettualmente molto complessa), magari sfrutto proprio questa differenza forte e collego al rosso l’elemento su cui voglio che l’attenzione si concentri. In forme un po’ più complesse, questa diviene un’operazione stilistica, che rende pertinenti aspetti di solito generici, per esempio il ricorso degli stessi suoni in versi differenti (è quella che chiamiamo rima) oppure la ripetizione enfatica della stessa parola, ecc. Ora possono sembrarci soluzioni molto facili, ma è stata necessaria una lunghissima fase di preparazione culturale per poter comporre testi ‘letterari’, che in realtà, all’inizio, erano formule magiche o resoconti di imprese di un eroe o di un dio, ossia elementi da ricordare bene. Qualcosa di simile accade con il passaggio dalla pura imitazione della figura di un animale a una composizione concettualmente complessa come quella che si trova nella famosa Scène du puits a Lascaux: c’è un bisonte ma c’è anche un uomo morto, forse ucciso dal primo, e il pittore vuole rappresentare quell’evento, non soltanto essere preciso. Partendo da queste prime tracce di stilizzazione ho poi cercato di giustificare il continuo aumento di complessità delle opere d’arte e letterarie in particolare: l’incrocio di biologia, antropologia e storia è insomma fondamentale nel mio studio.

Quali altre componenti risultano fondamentali per l’inventio letteraria?
La domanda che mi sono posto è la seguente: di cosa può parlare un’opera letteraria? Ossia, quali sono i limiti dell’immaginabile da parte di uno scrittore? Anche in questo caso le cose non sono affatto scontate. Noi pensiamo magari che il racconto complesso e ramificato a intreccio, che adesso ci sembra normale e addirittura necessario appunto per attrarre il lettore, sia naturale se non addirittura genetico, ma non è così: i primi racconti che ci sono giunti sono brevissimi e lineari, addirittura si può dire che la necessità di narrare nasce quando si vuole trasmettere non un mero fatto ma un evento, magari con una causa o con un esito. A questo proposito ho impiegato il termine inglese eventfulness, che indica appunto la ‘pienezza’ di quello che si narra: in altri termini, il proto-narratore sfrutta tutte le sue capacità per far sì che il suo racconto di un determinato evento, ovvero del nucleo di senso che vuole trasmettere, sia credibile. Perciò sfrutta esattamente tutte le capacità stilistiche di cui abbiamo parlato precedentemente, le assonanze e le rime, le ripetizioni enfatiche e così via (non a caso tutte le narrazioni epiche antiche sono in versi): crea uno stile adatto finalizzando alcuni elementi prima separati. Se sono un narratore più moderno, che ha alle spalle vari modelli e cioè una tradizione riconosciuta, posso poi complicare molto le cose perché progressivamente mi rendo conto che un evento si capisce meglio se conosco le sue cause, le sue implicazioni, i suoi effetti al completo: e allora occorre intersecare il punto di vista di vari personaggi, e arrivo quindi alla narrazione a intreccio finalizzato, che adesso consideriamo normale. Ma non è così, tanto è vero che le più innovative tra le ultime serie televisive preferiscono lasciare aperti i finali, non concludere o fornire più di una spiegazione. Tutto questo fa parte di scelte ancora una volta stilistiche, orientate ad attrarre su elementi diversi e a volte imprevedibili. Per questa strada si può giungere al polo opposto del ‘dicibile’ in letteratura, ossia la piena oscurità. In genere associamo questa componente alle poesie, per esempio dei simbolisti francesi o degli ermetici italiani ecc. Ma io intendo l’oscurità come la descrizione di un mondo e di uno spazio indefinibili con i normali strumenti logici, e quindi necessariamente da interpretare. Ci sono molti tipi di oscurità, diversi anche questi a seconda dei periodi storici, ma ancora una volta si tratta di un ambito in cui, grazie all’elaborazione stilistica, si mettono in rilievo nuclei di senso che vogliono (o non vogliono) interpretare la realtà come la vediamo. Il fatto è che interpretare l’ignoto ci è indispensabile per la sopravvivenza, e certa letteratura (come l’arte astratta!) si concentra e si realizza su questo.

Su quali presupposti biologico-cognitivi si fonda il concetto di «classico»?
In questo caso le componenti in gioco sono ancora più numerose: provo a sintetizzare al massimo. Le opere che vengono salvaguardate, o magari recuperate a distanza di secoli dalla loro creazione, quale elemento biologico-cognitivo possono mantenere attivo? Facciamo l’esempio di Dante o di Shakespeare: perché sono attualmente gli autori più imitati, citati, riscritti e trasposti persino in videogame a livello mondiale? Di certo valgono il prestigio acquisito nel corso dei secoli e la larga presenza di traduzioni: ricordiamo però che entrambi hanno attraversato periodi di rifiuto se non di disprezzo. Non bastano quindi gli aspetti sociologici, ma occorre effettivamente notare che, in questi autori, sono riconoscibili nuclei di senso che non esauriscono il loro effetto nell’immediato, come capita a quasi tutte le opere d’arte ‘normali’, ma riescono a intercettare componenti che solo in nuovi contesti riescono a diventare significative. Dante descrive azioni rapidissime, seleziona molto rispetto a tutti i narratori suoi contemporanei, e addirittura cambia all’improvviso prospettiva, unisce elementi concretissimi e altri astratti, per esempio quando vuole descrivere il Paradiso, che sarebbe ora l’equivalente di un luogo virtuale. Sono tutti aspetti che ci permettono di immaginare un mondo altro, così come facciamo adesso al cinema o con internet: ma appunto siamo noi a cogliere queste potenzialità nella rappresentazione del mondo di Dante, mentre i suoi contemporanei badavano a elementi molto più banali. L’idea di fondo è che, in un lasso di tempo lungo, diventano ‘classiche’ le opere che riescono a veicolare non solo rappresentazioni del già noto, ma ipotesi sull’ignoto (ossia sugli aspetti non razionalizzati della nostra biologia, nel senso più ampio di questo termine). Questo assunto non contrasta con le ipotesi di tipo sociologico, ma spiega meglio la questione del riuso di opere ormai superate sul piano dei meri contenuti.

In che modo il web ha segnato le figure dell’autore, del libro-testo, nonché del lettore e delle sue capacità di ricezione?
Persino nell’epoca del web, della rete e adesso addirittura della nuvola-cloud, alcune potenzialità biologico-cognitive continuano ad agire: ma come? Facciamo un passo indietro. Spesso si è considerato un mero regresso il ritorno a forme semplici e immediate a partire dalla metà del Novecento, e infatti si è parlato di industria culturale, arte di massa e recentemente di ‘capitalismo artistico’. Però è vero che, a livello percettivo-cognitivo, una forma riconoscibile può avere, in prima istanza, un impatto molto più forte di una complessa: ad esempio è ben spiegabile che, alla fine di una parabola come quella della ‘musica classica’, diventata troppo cerebrale, si è sentita la necessità di tornare a motivi riconoscibili e riproducibili. Più o meno nello stesso periodo, sono state ipotizzate varie forme di collaborazione fra l’autore e il lettore, sino a rendere il testo quasi un ‘pretesto’: ma alla lunga questo ha relegato la critica e l’autocritica a un ruolo marginale, dando spazio a forme di scrittura piuttosto immediate, come quelle giovanili o giovanilistiche esplose alla fine del secolo scorso, che erano comunque altre forme semplici di forte impatto. Arrivando a internet, al Web, in prima battuta si è registrata un’espansione incontrollata di scritture scarsamente elaborate, nemmeno testi bensì canovacci spesso basati su stereotipi stilisticamente poverissimi, ma progressivamente invece è rinata una consapevolezza, quella di dover trovare nuove ibridazioni per distinguersi nell’oceano delle forme artistiche ormai banali. Ecco allora che il concetto di Cloud, ossia la possibilità teorica di fondere, fare un blending di tante componenti diversissime, costituisce ora un’opportunità forte, perché si possono creare nuovi tipi di stilizzazione senza rinunciare all’impatto garantito dalle forme semplici. È verosimile che aspetti visivi, sonori e linguistici (scritti e orali) siano destinati a interagire secondo modalità inedite, come in parte è già accaduto in alcune forme miste ora seguitissime, i videoclip o le graphic novels. Si può andare oltre, per cercare ulteriori sottolineature stilistiche, e i tentativi non mancano, magari per adesso senza un pubblico ampio e tuttavia apprezzati: penso a opere come quelle di Mark Z. Danielewski o a Cloud Atlas di David Mitchell, poi suggestivo film di Lana e Lilly Wachowski. Ma ci sono ancora molti passi da compiere nella direzione di una integrazione effettiva delle arti, che potrebbe riaprire i giochi stilistici e interpretativi.

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