
Non c’è dubbio che la forma del libro ne valorizza il contenuto. Una delle figure più note e affascinanti di bibliofilo prodotte in campo letterario è il duca Jean Des Esseintes, trentenne anemico e nevrastenico votato fin da giovane agli appagamenti estetici, protagonista del romanzo Controcorrente o A ritroso (À rebours) (1884) di Joris-Karl Huysmans. A proposito di un’edizione delle opere di Baudelaire da lui posseduta, Des Esseintes dice che era un unico esemplare, stampato nel nero vellutato dell’inchiostro di China, vestito al di fuori e ricoperto dentro d’una autentica meravigliosa pelle di scrofa, color carne, picchiettata al posto delle setole e adorna di merletti neri impressi a freddo, assortiti con squisito gusto da un autentico artista. Palpeggiando religiosamente quel libro, Des Esseintes ha come l’impressione che le poesie di Baudelaire siano più belle, a testimoniare del fatto che è la forma del libro, la sua «inestimabile cornice», a rendere «più inebrianti del solito» le poesie di Baudelaire. La forma dei libri è cambiata tante volte nella storia e continuerà a cambiare ‒ ricorda Italo Calvino ‒ influenzando il nostro modo di leggere, anche se non possiamo prevedere come. In ogni caso, scrive ancora Calvino, ogni nuovo mezzo di comunicazione e diffusione delle parole, delle immagini e dei suoni può riservare sviluppi creativi nuovi, nuove forme d’espressione.
Nel mio libro – una raccolta di miei testi usciti nell’arco di tempo che va dal 2003 al 2015 in riviste, antologie, nel web o in forma di prefazione o postfazione – ho esplorato specificatamente le forme anomale, insolite del libro, elaborate fuori dai canoni tradizionali, gutenberghiani dell’editoria, delineando una piccola mappa di tipologie di libri bizzarri, la cui stranezza va rinvenuta non solo e non tanto nella dimensione fisica, ossia nel formato, ma anche nel materiale di cui sono fatti, nell’atipicità della loro struttura e ancora nella funzione ‒ estetica, ludica, comunicativa ‒ che pretendono di assolvere in modo originale e provocatorio, fino a rasentare qualche volta l’assurdo.
Così, invertendo l’ordine temporale, sono partito dalla forma digitale del libro, l’eBook, contrazione di «electronic book», un libro immateriale, evanescente. Senza entrare in particolari tecnici, si tratta, in un’accezione estesa del termine, di un testo compiuto, accompagnato da metadati descrittivi, disponibile in un qualsiasi formato elettronico che ne consente la lettura attraverso un qualche tipo di dispositivo, computer portatile o palmare, appositamente progettato per essere un lettore di e-book. Al riguardo vi racconto un piccolo aneddoto che mi riguarda. Un giorno cerco nella mia biblioteca un libro che ricordavo di aver letto tempo prima. Per molte ore ispeziono minuziosamente gli scaffali della mia biblioteca che conta non pochi volumi, inutilmente però. Il libro in questione non salta fuori. Riprovo il giorno dopo, ma anche questa volta la ricerca è vana. Allora penso di guardare su internet la copertina del libro che cerco, per vederne il colore e avere un indizio che mi aiuti: alla fine scopro che il libro di cui ho perso le traccia è un eBook, per questo non riuscivo a trovarlo negli scaffali.
Dopo l’eBook, mi sono occupato dei libri alchemici, magici che in genere hanno linguaggi e disegni strani. Il fantastico, come genere letterario, è ricco di spunti riguardanti i libri bizzarri, che potrebbero arricchire a buon diritto quella Biblioteca del Superfluo che, nell’auspicio di Calvino, dovrebbe trovare sempre posto nei nostri scaffali. Si pensi, tanto per fare un esempio, al Libro di Sabbia (1975) di Borges, un libro chiamato così perché, come la sabbia, non ha né principio né fine, è un libro infinito, e perciò mostruoso, un oggetto da incubo. Mi domando: quale forma sorprendente avranno i libri che circolano a Fatlandia (1882), mondo bidimensionale piatto come un foglio di carta, abitato da figure totalmente piatte, inventato dal reverendo Edwin Abbott Abbott?
La mia ricerca sulla forma bizzarra dei libri prosegue con i libri giocattolo, libri per bambini che nascondono al loro interno figure tridimensionali e elementi interattivi come linguette e congegni di vario tipo da azionare: nel mondo anglosassone sono conosciuti con il nome di pop-up books, da pop-up che significa «saltare su, fuori».
Ci sono poi i libri oggetto. La storia del libro-oggetto o libro-scultura o scultolibro è abbastanza recente. Inizia in pratica con le avanguardie storiche nei primi anni del Novecento. Famosi nell’ambito dell’esperienza futurista sono il libro imbullonato di Fortunato Depero, il Depero futurista (1927) realizzato nella tipografia Mercurio di Rovereto, con una rilegatura ideata da Fedele Azari che consiste in due grossi bulloni con dadi e copiglie, i quali tengono insieme i fogli; la raccolta Parole in libertà futuriste olfattive tattili termiche (1932) di Marinetti, un libro metallico con pagine di latta realizzato dalla ditta Vincenzo Nosenzo di Savona, la cui veste grafica è ideata da Tullio d’Albisola, pittore futurista che nel 1934, sempre presso Nosenzo, pubblica L’anguria lirica. Lungo poema passionale, libro in lito-latta in 101 esemplari, di cui 50 in commercio, con la cerniera metallica e le illustrazioni di Bruno Munari. Quest’ultimo crea una serie di Libri illeggibili, libri senza testo, ma pieni di comunicazione visiva e tattile. Questi libri comunicano qualcosa attraverso la natura della carta, lo spessore, la trasparenza, il formato delle pagine, il colore della carta, la texture (trattamento per rendere ruvida una superficie liscia), la morbidezza o la durezza, il lucido e l’opaco, le fustellature e le piegature. Un libro illeggibile comunica se stesso e non un testo che gli è stato stampato sopra: ad esempio, nota Munari, un libro di carta da lucido, quella usata da architetti e ingegneri per i loro progetti, dà un senso di nebbia: sfogliando quelle pagine è come entrare in un paesaggio brumoso.
Un particolare tipo di libro oggetto è il libro monocromatico, composto di pagine tutte di un colore, senza alcun testo stampato sopra. Un chiaro esempio in senso stretto è rappresentato da Life and Work (1962) di Piero Manzoni, libro con pagine bianche di cui esiste una versione del 1969, stampata da Jes Petersen a Berlino in 100 esemplari, fatta di fogli trasparenti.
Un libro oggetto, come ho detto, può essere fatto dei materiali più inconsueti. Quando si tratta di sostanze commestibili, il libro diventa mangiabile. L’atto o la consuetudine di mangiare libri (cartacei) si chiama bibliofagia. I bibliofagi possono essere distinti in due categorie: i bibliofagi per scelta deliberata e quelli per costrizione, cioè che vengono puniti da un’autorità a mangiare un libro. Nel 1976 Carlo Belloli ha realizzato dei poemi commestibili offerti dallo studio Santandrea di Milano in occasione dell’esposizione «Omaggio a Carlo Belloli precursore della poesia visuale e concreta». Questi poemi, scrive Belloli, potevano considerarsi «pagine d’artista» e vennero divorati dagli invitati alla vernice della mostra come parole di dessert.
Esistono libri che solo in apparenza sono tali, ovvero hanno la forma riconosciuta dei libri comuni, ma in realtà sono dei similibri, dei libri fotocopia, concepiti per usi diversi dalla lettura: ad esempio per nascondere armi (pistole, coltelli, ecc.), come si vede nei film polizieschi, oppure per fare bella mostra, in un corpo fatto di legno o di polistirolo, sui mobili esposti nei negozi d’arredamento o nelle librerie private, per pura ostentazione. Già Seneca nelle Lettere a Lucilio aveva denunciato che «Molte persone ignoranti usano i libri non per studiare, ma per arredare le loro stanze». Personalmente possiedo un libro di vetro che contiene del whisky.
Qual è la storia dei libri immaginari?
Ne Il labirinto dei libri falsi, inesistenti e immaginari (2002), a proposito di «libri inesistenti e immaginari», Roberto Palazzi distingue fra: a) libri stampati, ma non pubblicati; b) libri citati in bibliografia, ma in realtà mai esistiti; c) libri cassati dai cataloghi storici delle case editrici; d) libri annunciati, ma non pubblicati; e) libri che risultano stampati, ma di cui a tutt’oggi non sono stati trovati esemplari; f) libri inventati, e infine g) libri che l’autore non si rende conto di avere scritto (a quest’ultimo genere appartengono quelle opere pubblicate, generalmente postume, cui l’autore aveva però rinunciato).
Quello degli pseudobiblia, o libri immaginari, è ormai un vero e proprio genere letterario, su cui si sono esercitati numerosi scrittori. Si pensi in primo luogo a François Rabelais che, con il suo burlesco catalogo della Biblioteca di San Vittore esposto nel Gargantua e Pantagruele, è un po’ l’inventore di questo tipo di fantasie bibliografiche. Ecco, nella bella traduzione di Augusto Frassineti, alcuni titoli tratti dalla biblioteca inventata da Rabelais: Ars honeste petandi in societate di mastro Ortuino, De modo cacandi, Il coglionatico dei Promotori ecclesiastici, Il friggiculo dei poetastri, Il tric trac dei monaci puttanieri, La martingala dei cacatori.
Più recentemente nel campo delle «finzioni da bibliofilo» si sono esercitati Jorge Luis Borges (fa parte della leggenda di Borges – racconta Calvino nelle Lezioni americane – l’aneddoto che il racconto El acercamiento a Almotásim, scritto fingendo che il libro sia di un ipotetico autore sconosciuto, è creduto, quando appare nella rivista «Sur» nel 1940, davvero una recensione al libro di un autore indiano), e ancora Stanisław Lem con una serie di recensioni a libri finti apparse in Vuoto assoluto (1974) per arrivare fino al falso manuale di letteratura contenuto ne La letteratura nazista in America (1996) di Roberto Bolaño.
A proposito di recensioni curiose mi piace ricordare quelle «fisiognomiche» di Maurizio Salabelle, autore di libri bellissimi, animati da personaggi bizzarri e stralunati, come Un assistente inaffidabile (1992), Il mio unico amico (1994), Il maestro Atomi (1997), Il caso del contabile (1999), L’altro inquilino (2002) e La famiglia che perse tempo (2015). Salabelle recensisce libri che non esistono, ma invece dei libri, della loro trama e dello stile narrativo in cui sono scritti, si dilunga a parlare degli aspetti fisici dei loro autori; sono recensioni, apparse su «il Caffè illustrato», che sarebbero piaciute a Cesare Lombroso.
Esistono poi i libri giocattolo.
La storia dei pop-up books, o libri giocattolo, su cui mi soffermo nel mio libro, è antica: esempi di libri con elementi interattivi, che stimolano il lettore al gioco manuale, si trovano già nel XIII secolo. Il primo libro di questo genere, un testo matematico di Euclide, contiene una piramide in rilievo la cui funzione è illustrare gli angoli. Un maestro innovativo di «paper engineering» è Lothar Meggendorfer (1847-1925), inventore di libri con scene animate tradotti in tutto il mondo.
Nelle «Istruzioni per l’uso» poste a introduzione di Cent mille milliards de poèmes (1961), Raymond Queneau confessa di essersi ispirato non ai giochi surrealisti tipo «cadavere squisito», ma a un libro per bambini intitolato Têtes Folles, libro le cui pagine sono divise in tre strisce separabili: sulla striscia in alto è disegnata la testa di un personaggio, al centro il busto e in basso le gambe; agendo sulle strisce si ottengono combinazioni di figurine con teste e abiti differenti.
Il libro di Queneau permette a chiunque di comporre a piacimento centomila miliardi di sonetti, naturalmente tutti quanti regolari. E questo in ragione del fatto che Queneau ha scritto dieci sonetti con le stesse rime e con una struttura grammaticale tale che ogni verso dei singoli sonetti è intercambiabile con ogni altro verso situato nella stessa posizione. Per ciascun verso si avranno così dieci possibili scelte indipendenti; dato che i versi sono 14, si avranno in totale 1014 sonetti, cioè centomila miliardi di poesie. La particolarità di questa specie di macchina per fabbricare poesie è che le pagine del libro ‒ un vero e proprio libro oggetto, che figura sulla copertina del mio libro ‒ sono formate da una serie di striscioline svolazzanti su cui è riprodotto il verso di un sonetto, di modo che, alzando a discrezione le striscioline, il lettore crea il suo personale sonetto.
Quali libri rientrano nella categoria dei «libri falsi»?
Il falso, sostiene Luciano Canfora, risponde a un bisogno intellettuale e pratico: mira a colmare un vuoto, a completare quanto la tradizione avara o l’ingiuria del tempo ci hanno sottratto. Canfora aggiunge che le ragioni per cui lo si crea sono innumerevoli, il guadagno è solo una di esse, e forse la meno importante, in realtà il falso è innanzi tutto un’opera d’arte.
La storia dei falsi cataloghi a stampa di libri immaginari, cataloghi realmente editi e spacciati per veri, in molti casi persino messi in vendita, è ricca di casi affascinanti. Nel mio libro mi limito a ricordare solo alcune di queste «opere d’arte» in campo librario: fra di esse il Catalogo dei libri del conte di Fortsas apparso nel luglio 1840, spedito ai principali bibliografi e bibliofili e alle maggiori librerie del Belgio e della Francia, tirato in 60 copie nell’operosa cittadina di Mons presso lo stampatore-librario Emmanuel Henri Hoyois, rue de Mimy, al prezzo di 50 centesimi. L’asta, si precisa nel libretto, si farà in contanti, con un aumento del 10% in aggiunta al prezzo d’aggiudicazione. Con l’eccezione di 3 titoli, su 52, tutti gli unica, numerati da 3 a 215, contenuti nel catalogo del conte di Fortsas sono inesistenti, come lo è del resto lo stesso conte di Fortsas, personaggio inventato, provvisto tuttavia di una credibile e onorevole nota biografica.
Fra i falsari di opere letterarie c’è un giovane e promettente poeta italiano che il 1° maggio del 1817 pubblica su «Lo Spettatore italiano», rivista quindicinale fondata da Anton Fortunato Stella, un componimento di 203 endecasillabi sciolti intitolato Inno notturno. Il testo, arricchito da un apparato di note dottissime, viene presentato come la traduzione di un originale greco di autore ignoto. Il giovane traduttore dedica la sua impresa a un non ben specificato «Cavaliere», indicato come l’amico scopritore del manoscritto inviatogli in regalo. L’Inno notturno viene accolto favorevolmente e riscuote una certa fortuna nell’ambiente classicistico romano.
Sei anni dopo, lo stesso giovane traduttore, compie un’altra lodevole impresa: nell’ottobre-dicembre 1822 appronta la cura di un’operetta intitolata Martirio de’ Santi Padri, suddivisa in diciotto brevi capitoli, volgarizzamento di un testo greco effettuato da un ignoto autore toscano del trecento. Nel testo si racconta l’eccidio, da parte di una banda di Saracini, di alcuni santi Padri, nutriti di silenzio e di pochi datteri e così impalpabili da sembrare degli «angioli». Anche il Martirio de’ Santi Padri ottiene un certo successo: il maggior esperto di trecentismo letterario dell’epoca, l’abate Antonio Cesari (1760-1828), lo giudica «una cosa mirabile, e di qualche ottimo autore del trecento».
Ebbene i testi tradotti dal greco, volgarizzamento incluso, non sono nient’altro che un clamoroso falso e il falsario è uno dei maggiori poeti del secolo XIX ovvero Giacomo Leopardi che, nell’intento di ridere «saporitamente degli Arcadici» e dei puristi, dimostra da buon erudito notevoli doti tecniche di falsificazione.
Sempre nel Suo testo, Lei dà voce ai libri, che ci svelano il loro vissuto libresco: cosa raccontano i libri?
La seconda parte del mio libro è dedicata al «lato ricreativo dei libri». In questa sezione ripropongo miei lavori sui cosiddetti «libri-placebo», libri che assolvono senza lasciarlo intendere una funzione consolatoria, rassicurante e che in buona fede uno crede siano fatti di idee balsamiche, mentre in realtà non contengono alcuna sostanza rigenerativa, ardimentosa; un altro lavoro riguarda la «sindrome del bibliofilo inappagato», disposto a tutto pur di entrare in possesso di un libro che non ha; espongo delle brevi «istruzioni per mangiare un libro»; parlo del ruolo che il vero libraio dovrebbe svolgere, ovvero segnalare ai propri clienti i libri che gli scrittori ancora non hanno scritto; racconto del mio incontro al caffè Paszkowski in piazza della Repubblica a Firenze con un mio postero che mi confessa, ahimé, di non aver mai letto i miei libri, e altre frivolezze del genere.
C’è poi uno scritto, intitolato «Scene ordinarie di vita da libri», in cui sono i libri a parlare direttamente del loro vissuto di libri, in prima persona, e dicono cose di questo tipo: «Un libricino indolente e sfaccendato rispondeva sempre ai genitori che lo sgridavano, alzando le spalle: “Menabò!”»; «Un libro si fece visitare da un oculista, gli era entrato un opuscolo in un occhio»; «Un libro di narrativa entrò in banca e chiese un estratto del suo racconto»; «Per non ingrassare e mantenersi in forma, un libro seguì una dieta rigida a base di epigrammi e mottetti a colazione, un limerick fuori dei pasti e non più di tre aforismi al giorno»; «Un libro-oggetto andò a una riunione di femministe per denunciare che tutti lo trattavano come un libro-oggetto»; «Giunto all’ultima pagina, un libro ebbe un brutto presentimento: avvertì che si approssimava inesorabile il “finito di stampare”».