“Bianco” di Bret Easton Ellis: trama e recensione

Bianco, Bret Easton Ellis, trama, recensioneBret Easton Ellis è uno degli autori più dissacranti del panorama letterario americano contemporaneo. Fin da Meno di Zero, e poi soprattutto con American Psycho, i suoi lettori si sono abituati a uno stile provocatorio e a storie sempre controcorrente. Con Bianco, recentemente tradotto per Einaudi da Giuseppe Culicchia, Ellis torna a far discutere e questa volta non con un’opera di finzione, ma con uno strano ibrido tra un’autobiografia, un saggio politico e un testo di critica sociale.

Bianco come maschio bianco privilegiato, a cui Ellis sa di appartenere, ma anche come riferimento a The White Album di Joan Didion, scrittrice anticonformista, che in quel saggio raccontava le bizzarrie e le contraddizioni dei miti e dei movimenti degli anni ‘60’ e ‘70.

Bianco è uno sguardo impietoso sull’America – o meglio, su un tipo molto specifico di americani, benestanti e facenti parte del mondo dello spettacolo, mondo a cui Ellis stesso appartiene – che viene descritta come un paese incline al vittimismo e all’autocommiserazione. Tra le altre cose, Ellis ridicolizza il modo a suo parere eccessivamente melodrammatico con cui è stata accolta, da una certa sinistra, l’elezione di Donald Trump, vissuta come una vera e propria apocalisse. Ma poi se la prende praticamente con tutti: dai millennial, incapaci di sopportare le critiche, alle “social justice warriors” che “si aggrappano inorridite alle loro collane di perle ogni volta che qualcuno ha un’opinione che non rispecchia la loro”; da “Teen Vogue” al “New Yorker”, da Barbra Streisand a Bruce Springsteen, dalla Pubblicità Progresso al cinema queer.

E prima di tutto sono da biasimare i social media, colpevoli di esacerbare il politicamente corretto ad ogni costo: chi non si conforma al pensiero corrente, dice Ellis, viene insultato, o estromesso. “L’insipida idea propria della cultura aziendale” lamenta Ellis parlando non solo di Facebook e Twitter, ma in generale delle corporation che vivono di recensioni, come Uber o Airbnb, “consistente nel farsi piacere tutto per proteggere sé stessi, nel risultare falsamente positivi così da non venire esclusi dal gruppo, si è fatta più forte e pervasiva. Ciascuno continua a postare giudizi positivi nella speranza di ottenerne a sua volta. Anziché abbracciare l’autentica natura contraddittoria di noi esseri umani”.

Bianco dà il suo massimo quando diventa difesa della libertà di parola, quando sottolinea che l’apertura mentale può derivare solo dal confronto con idee diverse dalla propria: “Volevo essere scioccato. Adoravo l’ambiguità. Volevo cambiare le mie opinioni su questo e su quello, praticamente su tutto”. Ed è intrigante nella sua irriverenza, nell’ironia pungente che non risparmia nessuno, nella determinazione con cui porta il lettore al di fuori della propria comfort zone, nel proclamare la libertà di non piacere a tutti.

Nel contempo, però, è Ellis stesso che sembra finire invischiato nelle dinamiche distorte dei social media, nella fastidiosa tendenza a prendersi troppo sul serio “Ad un certo punto negli ultimissimi anni” scrive nella prefazione “un vago eppure quasi opprimente e irrazionale fastidio ha preso a straziarmi fino a fino a una decina di volte al giorno […] e si accompagnava a un’ansia, a un senso di oppressione che provavo ogni volta che mi arrischiavo ad andare in rete, la sensazione che in un modo o nell’altro avrei commesso uno sbaglio per il semplice fatto di condividere ciò che pensavo a proposito di qualcosa”.

Si chiude il libro con un senso di sollievo. Avevamo ingenuamente immaginato star hollywoodiane, influenti produttori e scrittori incensati dalla critica trascorrere le proprie giornate a bere cocktail a bordo piscina, senza altra preoccupazione se non quella di trovare il modo migliore per spendere i propri soldi. E invece eccoli lì, un branco di adolescenti insicuri, ingobbiti sui cellulari a fare il refresh del proprio profilo social con mano tremante. Che sollievo per noi comuni mortali essere liberi di riempire i nostri profili social di innocui gattini. Oppure di avere la libertà di non averlo affatto, un profilo social.

Silvia Maina

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