“Bembo e Dante: storia di un disamore. L’invenzione dell’italico, un manoscritto petrarchesco perduto, controversie filologiche, cosmologiche e religiose, intrighi sentimentali e politici” di Antonio Sorella

Prof. Antonio Sorella, Lei è autore del libro Bembo e Dante: storia di un disamore. L’invenzione dell’italico, un manoscritto petrarchesco perduto, controversie filologiche, cosmologiche e religiose, intrighi sentimentali e politici edito da Franco Cesati: quali vicende segnarono la formazione di Pietro Bembo come filologo volgare?
Bembo e Dante: storia di un disamore. L’invenzione dell’italico, un manoscritto petrarchesco perduto, controversie filologiche, cosmologiche e religiose, intrighi sentimentali e politici, Antonio SorellaPietro Bembo era un nobile veneziano figlio d’arte. Suo padre, Bernardo, fu appassionato di letteratura fiorentina del Tre-Quattrocento e restaurò la tomba di Dante a Ravenna, quando vi fu mandato a governare la città dalla Repubblica Veneziana (1481-83). Pietro, dopo avere avuto un’ottima formazione nelle lingue classiche, anche sotto la guida di personaggi come Angelo Poliziano, capì che la letteratura volgare gli avrebbe potuto offrire una vita di successi amorosi oltre che di soddisfazioni e riconoscimenti nel mondo della cultura europea, che lo studio del greco e del latino già gli avevano tributato. Ideò a 26 anni i dialoghi degli Asolani, un trattato sul tema dell’amore, cui intendeva affidare il proprio successo, ma impiegò anni per terminarlo. Infatti, a un certo punto si rese conto del fatto che la sua conoscenza del volgare tosco-fiorentino non era adeguata e tra la fine del secolo e l’inizio del successivo si mise a scrivere un “libretto” di regole grammaticali basate sull’uso dei grandi trecentisti. Così, si mise in società con Aldo Manuzio per editare un’edizione petrarchesca e una dantesca, confrontando diversi manoscritti e stampe precedenti e applicando le “regole” fonomorfologiche del fiorentino “aureo” alla revisione dei testi. La sua intenzione era quella di stampare prima un’edizione della Commedia, anche per celebrare il ricordo dell’impresa del padre, restauratore della tomba di Dante. A un certo punto, però, riuscì a farsi prestare l’autografo-idiografo petrarchesco del Canzoniere, cioè quello che oggi conosciamo come il Vat. Lat. 3195, e lo utilizzò per perfezionare il suo “libretto”, potendo giovarsi di una fonte sicuramente affidabile per risalire alla fonomorfologia del fiorentino del Trecento. A quel punto, decise di stampare prima le rime di Petrarca e solo dopo la Commedia. Tale ricostruzione è stata possibile grazie al ritrovamento dei primi tre fascicoli “cancellanda” dell’edizione dantesca curata da Bembo, databili all’inverno del 1500/1501, in cui è evidente la sperimentazione dei caratteri corsivi che lo stesso Bembo, e non Aldo, si era fatti punzonare da Francesco Griffo proprio per stampare le due edizioni. La prima cassetta di quello che oggi in tutto il mondo è conosciuto come l’italico (o corsivo) non fu mai ceduta da Bembo ad Aldo, che dovette farsene allestire un’altra da Francesco Griffo per poter avviare la sua collana di classici latini (e poi anche greci) nel formato in ottavo (cioè tascabile) e in caratteri corsivi, nella primavera del 1501, perché Bembo non si decideva a consegnargli il testo de Le cose volgari di m. Francesco Petrarcha, dal momento che impiegò mesi per perfezionare la sua conoscenza del fiorentino trecentesco grazie all’autografo-idiografo petrarchesco.

Come si articolò preparazione delle edizioni aldine di Dante e Petrarca?
Bembo fu un grammatico perché filologo, e fu filologo perché grammatico. Ma il suo principale interesse fu quello di affermarsi come autore in volgare. Perciò, cercò di risalire alle “regole” del fiorentino trecentesco attraverso la filologia, cioè attraverso lo studio attento dell’uso linguistico dei grandi autori del Trecento. Tuttavia, una volta ricostruite le “regole” di quella lingua, cominciò ad applicarle in modo costante nei propri scritti, arrivando anche al punto di “correggere” Petrarca, quando gli pareva che deviasse dalla norma. Infatti, i tre grandi trecentisti avevano scritto usando la propria lingua parlata, che non era ancora registrata in una compiuta e coerente grammatica, cosicché Bembo si assunse il compito di scriverne una che fosse regolata come il latino, la “gramatica” per eccellenza.

Che rapporto ebbe Bembo con Dante e la Commedia?
Inizialmente, Bembo aveva ereditato dal padre l’amore per l’opera dantesca. Tuttavia, fin dall’inizio egli progettava di diventare un grande scrittore in volgare applicando i criteri delle letterature classiche, secondo i risultati del dibattito critico sviluppatosi nel Quattrocento, il secolo dell’umanesimo. Fu proprio per questo che Bembo non poteva non considerare Dante uno scrittore non adeguato a quei criteri seguiti dagli scrittori greci e latini. A differenza di Petrarca, che gli parve subito come un perfetto autore lirico, sulla scia di Alceo e Saffo, capace di adottare una lingua pura, come quella dei lirici greci e latini, Dante gli sembrava irrimediabilmente “medievale”, nel senso deteriore, tanto che anche nei cancellanda dei primi tre fascicoli della sua edizione aldina, stampati sperimentalmente nell’inverno del 1500/1501, aveva ribattezzato l’opera Le terze rime di Dante, come a dire che non era né un poema, né tanto meno una commedia, nel senso classicistico, bensì, tecnicamente, una successione di capitoli in terza rima. Ciò fece infuriare i fiorentini, e soprattutto Girolamo Benivieni, che condusse contro Bembo una lunghissima polemica, dalla quale il veneziano uscì vincitore, grazie alla sua superiorità tanto filologica, quanto linguistica. È da notare che nei cancellanda Bembo aveva intitolato l’opera a “Dante Alighieri”, utilizzando il nome vulgato, ma nell’edizione definitiva, stampata nell’estate del 1502, il cognome del poeta figurava come “Alaghieri”. Ora, poiché da documenti d’archivio risulta oggi che il cognome di Dante fosse proprio “Alaghieri” e poiché Bembo tra il 1501 e il 1502 non si recò a Firenze per fare ricerche archivistiche, sarà stato il padre Bernardo a suggerirgli la correzione, dal momento che aveva risieduto a Firenze in qualità di ambasciatore veneziano per alcuni anni e avrà avuto l’accesso a documenti originali, grazie alla sua amicizia con Lorenzo de’ Medici, per scoprire il vero cognome del poeta da lui tanto amato. È curioso che nessuno, in quest’anno del centenario, in cui si fanno conferenze di ore per ricostruire la corretta lezione di un verso o anche di una sola parola della Commedia, si sia preoccupato di sottolineare che Bembo avesse ragione a chiamare Dante “Alaghieri”, mentre sbagliamo noi a continuare a seguire la tradizione consolidata.

Come si svilupparono gli studi neotestamentari dell’umanista veneto?
Qui entriamo in un settore di studi che è ancora al suo stato iniziale. Mi limito ad alcune considerazioni. Nell’epistolario di Bembo, editato da Ernesto Travi, possiamo trovare indubitabili attestazioni del suo interesse per gli studi neotestamentari. Tali studi, finora ricondotti a una presunta simpatia di Bembo per i pensatori della Riforma, furono, a mio parere, soprattutto dettati da interessi filologici. In quanto segretario ai brevi di Leone X, Bembo ebbe accesso agli archivi in cui erano conservate le più antiche copie dei Vangeli sinottici, dallo studio dei quali avrebbe potuto venire a conoscenza dell’interpolazione dei testi vulgati, per l’evidente assenza di alcuni passaggi nelle copie più antiche, per esempio dei versetti finali del Vangelo di Marco. Abbiamo testimonianze di una conversazione di Bembo con Leone X nella quale i due avrebbero parlato degli aspetti mitologici depositatisi nei vangeli, nel corso della trasmissione dei testi. Tale conversazione potrebbe essere avvenuta allorché Bembo avrà riferito i risultati delle sue ricerche filologiche sui testi dei quattro Vangeli dopo la stampa del Nuovo Testamento da parte di Erasmo da Rotterdam, nel 1516. È ovvio pensare che il papa, cui l’edizione era stata dedicata da Erasmo, avesse chiesto ai suoi migliori teologi di fargli un resoconto del contenuto di quei testi. Erasmo, a differenza di Bembo, non aveva potuto consultare le copie conservate negli archivi pontifici e perciò si era limitato a “ripulire” i testi da un punto di vista soprattutto linguistico. Sta il fatto che Leone X approvò l’edizione di Erasmo, che divenne per secoli la vulgata, mentre Bembo si guardò bene dal rivelare in uno scritto le sue ipotizzabili considerazioni filologiche. Tra le sue carte, quando morì nel 1547, non furono trovati documenti di quegli studi filologici, forse perché lo stesso autore le aveva distrutte nel corso degli anni Quaranta, allorché, trovandosi a Roma come cardinale, l’aria cominciò a cambiare e divenne pericoloso e compromettente parlare di certi argomenti. Per lo stesso motivo, non ci sono stati conservati i suoi scritti burleschi, di cui parla l’Arsiccio nella Cazzaria, e che ci avrebbero testimoniato la sua adesione se non altro alla moda di accademie rinascimentali come quelle romane dei Vignaiuoli e dei Virtuosi, frequentate dai migliori ingegni dell’epoca, del calibro di Annibal Caro.

Antonio Sorella è professore ordinario di Letteratura italiana dal 2016, dopo esserlo stato per un quindicennio di Storia della lingua e linguistica italiana, presso l’Università di Chieti e Pescara. È direttore della rivista internazionale “Tipofilologia”, fondata nel 2007 con Conor Fahy. Ha pubblicato articoli, saggi e libri da Dante ai giorni nostri, ma si interessa soprattutto di letteratura rinascimentale.

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