“Banalità. Luoghi comuni, semiotica, social network” di Stefano Bartezzaghi

Banalità. Luoghi comuni, semiotica, social network, Stefano BartezzaghiProf. Stefano Bartezzaghi, Lei è autore del libro Banalità. Luoghi comuni, semiotica, social network edito da Bompiani: la banalità è il nostro nuovo demone?
Demone è una parola abbastanza adeguata: ma dobbiamo intenderci sul suo significato. Il demone è qualcosa che viene temuto o che si impadronisce di noi e il cui timore o il cui dominio determinano i nostri atti. Io penso che la paura di essere banali – insieme all’inconsapevolezza di quando lo si è – determini molti dei nostri comportamenti sociali, fuori e dentro la Rete. Sentiamo la pressione sociale che ci invita a essere originali – una cosa che aveva notato già Giacomo Leopardi e che dunque risale agli albori della società borghese. Ora, che siamo al crepuscolo, la smania dell’originalità è diventata parossistica e ovviamente non ci accorgiamo che la banalità consiste in ciò che è comune a tutti. Quindi il desiderio di essere originale, se è comune a tutti, diventa in sé banale. Questo è il paradosso in cui ci dibattiamo, fra snob, trasgressivi, eccentrici e gregge. Ognuno partecipa di ogni gruppo, spesso contemporaneamente.

La banalità alligna solo nei social network?
È dai tempi dell’invenzione del telefono, ma forse anche prima (chi ha studiato Platone dice che è dai tempi dell’invenzione della scrittura), che si dà la colpa di ogni male all’ultimo medium che è stato inventato. Alla fine dell’Ottocento si vedeva con molta preoccupazione la diffusione della lettura nelle masse popolari e si sgridavano i ragazzini che leggevano “troppo”, come ora li si sgrida per la playstation. Dire che Facebook ci ha reso banali è come dire che se siamo grassi è colpa della Nutella: è cioè una grossa stupidaggine. Per me la banalità non è né un male né un bene, è un elemento necessario alla società perché comprende tutto ciò che è comuni a tutti. Non è che lascio il dito sotto il martello perché sarebbe banale toglierlo: il luogo comune per cui è meglio non tirarsi martellate è benefico e l’ho personalmente trasmesso alla prole. Nei social network la banalità si manifesta, come è naturale che sia. Ma dato che nei social non chiacchieriamo a voce, ma scriviamo (o meglio trascriviamo quanto diremmo a voce), la banalità lì diventa più visibile, più condivisa e più permanente. Questa particolarità da un lato amplifica la banalità, mettendola in rete e rafforzandola con il conforto di chi la condivide; dall’altro lato la codifica, la registra, la formatta e la rappresenta, rendendola anche più disponibile allo studio. Quindi i social network diventano un campo privilegiato per la banalologia.

Di cosa è fatta la banalità contemporanea?
È fatta di tutto quello che condividiamo, nel nuovo senso della parola per cui io non condivido l’opinione di qualcun altro (quando la adotto) ma condivido la mia opinione (quando la faccio conoscere). Come sempre il senso comune, che è la faccia rispettabile della banalità, è formato da diversi strati di buon senso che si affiancano e a volte si combattono. Per esempio c’è la banalità del politicamente corretto e quella del “cantare fuori dal coro” (che naturalmente forma un coro a sua volta, e assordante). Un carattere molto specifico delle correnti di pensiero che vengono rafforzate dall’azione dei social è l’erosione dell’autorevolezza: le grandi agenzie della cultura – università, editoria, centri di ricerca, “esperti” – sono viste come “fonti ufficiali” di cui perciò diffidare. Discutibili comportamenti tradizionali, mai corretti più di tanto, configurano gli esperti come “casta”, attenta solo alla riproduzione propria e dei propri privilegi. Lo si vede disastrosamente in campo medico, dove si arriva ad ammalarsi o a non curarsi pur di rifiutare approcci terapeutici “ufficiali” e considerati perciò loschi.

È possibile rinvenire un valore culturale e sociale dei social network?
L’essere umano è un animale sociale e tutto ciò che aumenta le possibilità di comunicare tra esseri umani ha di per sé un valore sociale e culturale, questo per definizione. Società e cultura sono appunto gli ambiti di scambio e di sedimentazione di usi comuni resi possibili dalla comunicazione. La possibilità di essere in contatto continuo e quotidiano anche senza prossimità fisica è stato un guadagno inestimabile per tutti noi, per le nostre relazioni affettive, per il nostro divertimento, spesso per il nostro lavoro: nel campo della ricerca, per esempio, le massime autorità in ogni settore sono diventate raggiungibili, a volte anche direttamente. Informazioni e conoscenze sono condivisibili con facilità estrema. Risvolti negativi di questa socialità senza prossimità fisica non mancano.

Perché è necessario saper convivere con la banalità?
Non è strettamente necessario, ma è consigliabile: ciò che mi pare urgente è comprendere che vivere cercando di non essere banali sarebbe un inferno, con la frustrazione di non potersi mai avvicinare a un simile obiettivo. Il “ban” era il villaggio e poi è diventato il “bando” che raggiungeva tutto il villaggio grazie alla lettura pubblica che ne dava l’araldo. Questo è l’etimo di parole come “banale” e come “banalità”. Come potremmo vivere senza? Banale parlare del tempo meteorologico con i vicini di casa, banale pensare che il tempo passa e non torna più, banale pensare che quello che conta è la salute, banale fermarsi quando il semaforo è rosso… Con la banalità insomma conviviamo già, per forza di cose. Facciamo fatica a rassegnarci a convivere con il pensiero che la banalità ci circonda e ci include.

Come sopravvivere alla banalità?
Di banalità muore solo chi non cura malattie severe per fare un dispetto alla medicina ufficiale. Per il resto, non muore nessuno. Per consolarsi del pensiero di essere banali, si pensi che nessuno è davvero banale, visto da vicino. Coltivare le proprie caratteristiche peculiari, avere qualche segno di distinzione, eccellere in qualcosa è alla portata di tutti. Ma avete presente quei tizi che sembrano volervi far ridere ogni volta che aprono bocca e che sembrano non parlare mai sul serio? Voler essere originali in ogni evenienza è fortemente sconsigliabile. Sicuramente ci saranno state circostanze in cui Albert Einstein ha pronunciato una stupidaggine o in cui Lord Brummell ha sbagliato un accostamento di colori. L’importante non è evitare sempre di essere banali; l’importante è fare la differenza nel momento in cui occorre.

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