
Il primo interrogativo che emerge dall’analisi comparata è se la concessione da parte del legislatore costituente di statuti speciali di autonomia abbia risposto ad una esigenza di affrontare in modo unitario le questioni relative alle minoranze etnico-linguistiche presenti nel paese o più in generale gli squilibri territoriali con i quali ancora oggi ci troviamo drammaticamente a fare i conti, o se, al contrario, le risposte che sono venute siano state dettate dalle complesse e peculiari vicende di ciascuno dei territori regionali interessati dalla concessione della specialità amministrativa e legislativa e dalla necessità di scongiurare eventuali pericoli per l’unità nazionale. La risposta che emerge con chiarezza è che alle spalle della creazione delle regioni a statuto speciale operano condizioni assolutamente specifiche di ogni singolo territorio e la riprova più chiara ed evidente è che per alcune regioni non si è attesa neppure l’elezione dell’Assemblea Costituente per la redazione e la concessione degli statuti di autonomia.
Il saggio di apertura, ad opera di Francesco Bonini, illustra le discussioni generali in Assemblea costituente e sottolinea la consapevolezza da parte dei costituenti dell’urgenza di trovare una soluzione speciale per alcune aree particolarmente sensibili del paese. Per la prima volta nella storia dell’Italia unita si introduce un ordinamento politico-amministrativo differenziato (in passato vi erano state al più leggi speciali per singole aree o città). La questione regionale, che aveva attraversato senza risultati concreti la storia dell’Italia liberale, diventa ora una vera questione di “storia costituzionale” e la scelta del legislatore costituente a favore dell’ordinamento regionale, nonostante la crisi del III governo De Gasperi che portò all’esclusione delle sinistre dalla compagine governativa e nonostante il successivo capovolgimento delle posizioni delle forze politiche, rimarrà alla base della struttura dello Stato repubblicano.
Quali vicende hanno accompagnato la redazione dello statuto regionale siciliano?
Come noto, e come illustra con dovizia di particolari il saggio di Daniela Novarese, lo statuto speciale della regione siciliana è anteriore all’elezione della stessa Assemblea costituente. La precoce liberazione dell’isola pone sin da subito il problema dei rapporti con il governo monarchico, dopo che quest’ultimo ha abbandonato la capitale, e con il governo militare alleato. Ma impone altresì di fare i conti con il radicato autonomismo che viene assumendo piuttosto le tinte del separatismo e dell’indipendentismo. La nomina dell’Alto Commissario civile per la Sicilia (18 marzo 1944), affiancato poi da un organismo collegiale denominato successivamente Consulta regionale (28 dicembre 1944) con il compito di “formulare proposte per l’ordinamento regionale” sono i primi atti dell’ordinamento speciale siciliano. Su impulso di quest’ultima si giungerà alla nomina di una Commissione, presieduta da Giovanni Salemi, che procederà all’elaborazione e alla redazione dello Statuto regionale, approvato quasi senza discussione dalla Consulta Nazionale nell’aprile del 1946 a causa delle preoccupazioni per l’azione politica del movimento separatista siciliano. Come noto, il testo dello statuto speciale della Regione Sicilia contiene norme che esorbitano dalla forma dello Stato regionale, per non dire federale: basti pensare all’istituzione di un organo di giustizia costituzionale regionale, l’Alta corte per la regione siciliana, che tante contraddizioni produrrà in seguito in rapporto all’ordinamento generale dello Stato, nel quale per vedere istituita la Corte costituzionale sarà necessario attendere il cosiddetto “disgelo costituzionale”.
In che modo radici storiche e contingenze internazionali hanno favorito l’autonomia della Valle d’Aosta?
L’autonomia regionale valdostana è il punto d’arrivo di vicende particolarmente complesse, che presentano analogie con quelle siciliane, per via della tendenza separatista maggioritaria nella regione, ma anche peculiarità di estremo interesse, come ad esempio il radicamento del movimento resistenziale e i valori dell’autonomia e del federalismo che si esprimeranno nella famosa Carta di Chivasso tra i cui firmatari figura Émile Chanoux, personaggio di primo piano dell’autonomismo valdostano delle origini. Il saggio di Alessandro Celi illustra molto bene non solo la complessità delle vicende regionali e le diverse interpretazioni storiografiche ma anche la delicata situazione internazionale (le truppe francesi rimangono in valle fino al giugno del 1945) nonché i rapporti con il governo centrale. I decreti legislativi luogotenenziali del 7 settembre 1945 (nn. 545 e 546), che concedono alla circoscrizione della Valle d’Aosta, abolendo la provincia di Aosta, prerogative autonomistiche (sfruttamento delle acque e delle miniere, erezione del territorio a zona franca) qualificano l’ordinamento autonomistico pre-costituzionale della Valle. Essi non sono altro che l’esito del radicato autonomismo del CLN dell’Alta Italia e della forte preoccupazione che genera l’appoggio francese del generale De Gaulle agli autonomisti valligiani favorevoli all’annessione alla Francia. Proprio questi elementi spingono i governi della transizione, prima quello presieduto da Ivanoe Bonomi e poi quello di Ferruccio Parri, alla concessione dei decreti di settembre.
Come si è espresso il regionalismo nel caso della Sardegna?
Le vicende che hanno portato all’autonomia speciale della Sardegna sono state anzitutto segnate dallo stato di isolamento vissuto dall’isola negli anni del secondo conflitto mondiale e della sua conclusione. Un altro aspetto che va colto e che la storiografia non ha mancato di rilevare è il rapporto molto stretto con le vicende siciliane (tanto che Lussu e gli azionisti proporranno alla Consulta nazionale di estendere alla Sardegna proprio lo Statuto siciliano), anche se il separatismo in Sardegna non si è espresso con la stessa forza e non ha destato le medesime preoccupazioni per l’unità nazionale. Le analogie col modello di sviluppo autonomistico siciliano attengono alla figura dell’Alto commissario nominato già nel gennaio 1944 con il compito di coordinare le attività delle amministrazioni statali e degli enti pubblici operanti nell’isola, al quale verrà affiancata una Consulta regionale nel successivo mese di dicembre. Ma ciò che sorprende nel caso sardo è il ritardo con cui si giunge alla redazione dello statuto per un’isola nella quale i valori autonomistici erano certamente molto radicati e si erano espressi già ai tempi della perfetta fusione con il Piemonte sabaudo un secolo prima. Ma la Consulta, rinnovata più volte, non procederà all’elaborazione dello statuto e il risultato finale non sarà particolarmente innovativo per la valorizzazione delle specificità autonomistiche della Sardegna, tanto che Salvatore Mura e Francesco Soddu, estensori del relativo contributo in questo volume, parlano di “regionalismo moderato”.
Come si è giunti alla creazione della Regione Friuli Venezia Giulia?
Pur essendo stata inserita nella carta costituzionale repubblicana tra le cinque regioni dotate di condizioni di particolare autonomia, la Regione Friuli-Venezia Giulia è stata l’ultima regione speciale ad essere istituita, a distanza di un qundicennio, nel 1963. Le ragioni di questo ritardo vanno rintracciate nelle complesse vicende che hanno storicamente caratterizzato il confine orientale, un confine geopolitico ma anche ideologico, e nella particolare situazione della città di Trieste, rimasta fino al 1954 con il territorio circostante soggetta al governo militare alleato. Va inoltre considerato, come a ragione sottolinea Davide Rossi, che il territorio della Regione si presenta estremamente frammentato e diviso in aree peculiari caratterizzate da un pluralismo linguistico e culturale molto pronunciato. Le questioni di carattere internazionale, legate ad un confine che storicamente è stato particolarmente “mobile”, e la plurale conformazione del territorio hanno pertanto portato alla tarda attuazione del dettato costituzionale.
Cosa ha significato l’introduzione del secondo statuto di autonomia del Trentino-Alto Adige/Südtirol in relazione al percorso di autonomia regionale?
Un’attenzione particolare è rivolta nel volume al caso regionale trentino-sudtirolese e al suo primo statuto di autonomia, a proposito del quale si mettono in evidenza sia il protagonismo autonomistico sia le posizioni delle diverse forze politiche maggioritarie in Trentino e in Sudtirolo. Così come le questioni relative al quadro internazionale visto che non si può prescindere nel valutare l’autonomia regionale trentino-sudtirolese dell’ancoraggio internazionale (l’Accordo tra i due ministri degli esteri italiano, Alcide De Gasperi, e austriaco, Karl Gruber, fondativo dell’autonomia, era parte integrante dell’Accordo di pace stipulato a Parigi). Ma contemporaneamente ci si spinge a tematizzare anche la crisi dell’istituto regionale negli anni Cinquanta, alla quale si arriva per i ritardi nell’emanazione delle norme di attuazione e per le contraddizioni che affiorano nella gestione dell’autonomia. Ritardi e contraddizioni che porteranno il partito di raccolta sudtirolese a ritirare l’appoggio alla giunta regionale (è il momento del Los von Trient pronunciato a Castel Firmiano dall’Obmann della Südtiroler Volkspartei, Silvius Magnago), portando la DC a governare con una maggioranza politica del tutto inedita comprendente il Movimento sociale italiano, il partito più nazionalista della compagine italiana. Si realizzavano cioè i timori paventati dai sudtirolesi all’epoca dell’elaborazione e dell’approvazione del primo statuto di autonomia quando si discuteva del frame, vale a dire dell’ambito territoriale di applicazione dell’autonomia (al solo Sudtirolo o all’intera regione).
Non si può prescindere pertanto da queste premesse per analizzare le vicende che porteranno al varo, dopo un’intensa fase preparatoria, del secondo statuto di autonomia che ha capovolto l’ordinamento regionale, concedendo la quasi totalità delle competenze alle due province autonome che unite formano la Regione. La stagione delle riforme introdotte nel nuovo clima politico creato dall’allargamento della compagine governativa (centro-sinistra) è la medesima che porta anche alla creazione delle regioni a statuto ordinario, a più di vent’anni dalla loro previsione costituzionale. Ragion per cui si celebra oggi il cinquantenario di entrambi questi momenti, il varo delle regioni ordinarie e la seconda autonomia del Trentino-Alto Adige.
In che modo il regionalismo «speciale» ha influenzato l’evoluzione della regionalizzazione in Italia?
Si tratta dell’interrogativo che si era già posto, nel momento in cui ci si accingeva a varare gli statuti delle regioni a autonomia speciale, il giurista Antonio Amorth, lasciando trasparire un certo ottimismo circa la possibilità di contagio nei confronti delle altre regioni ordinarie. Come noto, il processo di regionalizzazione subì invece una brusca interruzione a causa della lotta politica e del più volte riscontrato, nella storia italiana, capovolgimento di posizioni a seconda dell’inserimento delle forze politiche nella maggioranza di governo o all’opposizione. In anni recenti invece, e soprattutto dopo il varo della riforma del Titolo V della carta costituzionale, unica riforma costituzionale ad essere stata confermata dal referendum popolare consultivo, si è assistito ad un allargamento delle competenze delle regioni ordinarie, costringendo in alcuni casi quelle speciali a rincorrere.
Il problema di fondo della nostra struttura politico-costituzionale e dell’ordinamento dei pubblici poteri, non sta tanto, a mio avviso, nel rapporto di competizione o conflittuale tra regionalismo speciale e regionalizzazione ordinaria, ma piuttosto nella scarsa cultura autonomistica che ancora oggi si osserva e che caratterizza il sistema partitico italiano, organizzato e orientato a base nazionale.
Alla luce del processo di differenziazione regionale in atto, quali prospettive, a Suo avviso, per il regionalismo in Italia?
Il regionalismo differenziato o asimmetrico introdotto dalla riforma costituzionale del 2001 continua a far discutere, anche se ci si dimentica spesso che la differenziazione già esiste nell’ordinamento regionale italiano e risale giustappunto alla carta costituzionale repubblicana del 1948. Questo processo ha subito un’accelerazione, pur tra tante polemiche, negli anni addietro, con i referendum della Lombardia e del Veneto e l’iniziativa della Regione Emilia-Romagna, mentre si è successivamente arrestato per il cambio di maggioranza di governo ma soprattutto a causa dell’emergenza sanitaria che ha sconvolto il quadro politico e ancor prima la vita quotidiana di tutti noi.
Ritengo che rispondere a questa domanda sia particolarmente difficile in questo momento. Si rischia infatti di rispondere a caldo, sulla scia dei condizionamenti che inevitabilmente si scontano per via dell’attribuzione di responsabilità circa la causa dei problemi che sono sotto gli occhi di tutti relativamente alla gestione dell’emergenza pandemica. È indubbio che il tema della sanità rappresenti, non solo dallo scoppio di questa emergenza, la principale criticità del sistema regionale e dei rapporti tra Stato e regioni; va ricordato che nel nostro paese opera un Sistema sanitario nazionale, fondato sull’universalità del diritto alla salute, sancito nella Costituzione, e che questo sistema sanitario funziona su base regionale, scontando perciò il peso di quegli squilibri territoriali che da sempre frenano il perseguimento di obiettivi unitari. In campo sanitario si scontrano pertanto l’obiettivo di assicurare a tutti i cittadini i medesimi diritti e le condizioni particolari in cui si trovano ad operare le sanità regionali. L’emergenza epidemica dalla quale non riusciamo ancora a intravvedere, nonostante rassicurazioni e ottimismi obbligati, una via d’uscita ha reso ancor più difficile e complesso il rapporto tra Stato centrale e regioni.
L’unica risposta che sono in grado di dare è che dalle frizioni e dalle polemiche quotidiane, che registrano comunque, non bisogna mai dimenticarlo, mancanza di risposte alle esigenze e ai bisogni dei cittadini, se ne esce soltanto riconsiderando nel suo complesso l’ordinamento dei pubblici poteri. Nonostante le polemiche nelle quali è rimasta coinvolta la riforma costituzionale del 2001, che va ricordato ha capovolto lo schema dell’ordinamento politico-amministrativo della repubblica affermando che quest’ultima si compone di Comuni, Province, Regioni e Stato, credo sia opportuno ripartire da questa impostazione. Per un sano regionalismo occorre un sano centralismo, vale a dire uno Stato efficiente e rispettoso delle autonomie. Senza scordare che sulla scena non operano comunque solo lo Stato e le Regioni, sia che siano ordinarie, speciali o aspiranti alla differenziazione.
Luigi Blanco è professore ordinario di Storia delle istituzioni politiche all’Università di Trento. Fra le sue ultime pubblicazioni: Orizzonti di cittadinanza. Per una storia delle circoscrizioni amministrative dell’Italia unita (curato con F. Bonini, S. Mori e F. Galluccio, Rubbettino, 2016) e Le origini dello Stato moderno. Secoli XI-XV (Carocci, 2020).