
“Teologia della Vittoria” è una definizione che possiamo applicare a un complesso di elementi che trova origine nel mondo ellenistico dopo le imprese di Alessandro e che ben presto viene introdotto anche a Roma da parte degli imperatores, i generali vittoriosi della tarda Repubblica.
Il nucleo della questione riguarda il potere che ora trova legittimazione nella vittoria militare: la vittoria è segno, contemporaneamente, del favore divino e delle capacità personali del condottiero vittorioso. Ma la vittoria militare deve essere trasformata in potere stabile, duraturo, possibilmente eterno: le scenografie del potere servono a questo, a trasformare la vittoria nel potere regale ellenistico, un potere assoluto cui si ispirano gli imperatores che agiscono sullo scenario politico della Roma tardo-repubblicana.
Come si sviluppò l’ideologia romana del Divi filius?
Alcune monete attorno al 38 a.C. segnalano la compiuta utilizzazione di questo titolo da parte dell’erede di Cesare. A questo proposito va rilevato che il nome Ottaviano, con cui solitamente indichiamo Augusto prima del 27 a.C., è del tutto convenzionale e rischia di far perdere alcune precise e importanti connessioni: Augusto prima di Augusto si chiama “Caesar divi filius” e questo è estremamente interessante perché il nome, in contesti di questo genere, non è un fatto personale e privato ma è un messaggio politico: Caesar vuol dire presentarsi anche visivamente come “alter Caesar” il cui ruolo è legittimato dall’essere “divi filius”. Questa definizione come dicevamo appare su alcune monete del 38 a.C. in cui troviamo per così dire ratificata l’avvenuta elaborazione di questo titolo che è presentato sulle monete con una legenda similmente a una magistratura, pur non essendo tale. Si tratta in realtà dell’introduzione a Roma – per la prima volta e in modo chiaro – di un progetto di potere dinastico del tutto simile ai modelli ellenistici. Il riferimento a questo tipo di modelli traspare anche dall’uso di simbologie come la stella – il sidus Iulium – di Cesare o l’adozione del Capricorno quale segno zodiacale preminente da parte di Caesar divi filius.
Cosa rappresentò l’adozione da parte di Ottaviano del titolo di Augustus?
Come dicevamo, il nome è un messaggio politico. Caesar divi filius – dopo la vittoria di Azio, la presa di Alessandria e il ritorno a Roma nel 29 a.C. dove celebra un grandioso trionfo che si prolunga per tre giorni – mette in scena la restituzione della Res publica al Senato e al Popolo di Roma che si completa nel 27 a.C. A questa nuova fase deve corrispondere un nuovo messaggio politico: le fonti raccontano che l’adozione del nuovo nome venne discussa addirittura in Senato, con pareri anche discordanti, ma alla fine prevalse un nome inedito, “Augustus”, precedentemente utilizzato esclusivamente come aggettivo in relazione a oggetti e procedure collegate al sacro. Ma le stesse fonti dicono anche che l’assunzione di questo nuovo nome, dopo il rifiuto da parte dell’interessato di chiamarsi Romolo, si ispirava all’”augusto augurio” a seguito del quale Romolo aveva fondato Roma. L’operazione è del tutto trasparente: Caesar divi filius da un lato rifiuta di assumere il nome Romolo ma dall’altro lato assume un nome che richiama direttamente l’atto sacro della fondazione per cui Augustus significava essere il nuovo Romolo, il nuovo fondatore di Roma.
Quale rappresentazione iconografica assumeva la Vittoria?
L’iconografia di Vittoria alata è ben nota e diffusa – si tenga conto a questo proposito della recente ricollocazione della Vittoria di Brescia che permette di osservare un modello straordinario – ma nel libro la celebrazione della Vittoria è indagata soprattutto attraverso quelle che possiamo definire le scenografie del potere che risultano indispensabili, come abbiamo visto, a trasformare la vittoria militare in un potere politico stabile e duraturo. In questa prospettiva, ad esempio, svolgono un ruolo fondamentale il grandioso monumento su due terrazze alla Vittoria di Azio costruito a Nikopolis, la città che venne fondata presso il luogo della battaglia proprio per ricordare anche nel nome la vittoria di Caesar divi filius; oppure il santuario di Apollo sul Palatino dove Virgilio ambienta il trionfo di Augusto; oppure il vero trionfo che venne celebrato nel 29 a.C. quando Caesar divi filius torna per la prima volta a Roma e il triplice trionfo mette in scena non solo la sconfitta dell’Egitto ma la conquista della Oikoumene, l’intero mondo abitato; oppure il complesso scenografico del Campo Marzio che vede letteralmente sorgere il potere di Augusto prima con la coppia monumentale costituita dal Mausoleo e dal Pantheon e successivamente dall’Horologium e dall’Ara Pacis; oppure il nuovo Foro di Augusto inaugurato nel 2 a.C. che attraverso la simbologia delle insegne recuperate dai Parthi mette in scena il trionfo assoluto e senza limiti di Augusto assimilato al primo trionfo della storia di Roma che Romolo aveva istituito; infine anche il funus è costruito in modo da porre in primo piano il potere vittorioso di Augusto che legittima la sua divinizzazione, la sua trasformazione in divus. Sulla Gemma Augustea di Vienna, visibile anche sulla copertina del libro, Augusto compare in una iconografia del tutto simile a quella di Giove mentre gestisce il trionfo da cui si origina il nuovo potere di Roma.
Quale memoria del Principato intese tramandare il Princeps con il Mausoleo e le Res Gestae?
Nel Foro di Augusto, inaugurato come si diceva nel 2 a.C., nelle esedre e lungo i portici laterali erano collocate come ben noto due lunghe esposizioni di statue marmoree che rappresentavano i summi viri e gli antenati della gens Iulia risalenti fino a Enea. La scenografia del nuovo Foro metteva in scena gli uomini illustri che avevano contribuito ad ampliare i confini e il dominio di Roma: a partire da Romolo e Enea la storia di Roma si dipanava attraverso una selezione mirata di uomini – le cui gesta erano narrate mediante tituli e elogia – e il tutto si completava nella quadriga posta al centro della piazza in cui spiccava l’iscrizione con il titolo “pater patriae”, una definizione che richiamava Romolo e la nuova fondazione di Roma. Le guerre civili erano dimenticate e anche personaggi come Pompeo, l’acerrimo nemico di Cesare, erano chiamati a scrivere la storia di Roma che culminava nel nuovo Romolo. Sappiamo che il funus di Augusto comprendeva una teoria di summi viri che doveva essere del tutto simile a quella già resa visibile nel Foro: a conclusione delle cerimonie funebri davanti al Mausoleo, realizzato già da tempo, vengono innalzati i pilastri che sostengono le tavole con le Res Gestae. Se ci mettiamo nei panni di un osservatore e di un cittadino alla fine dell’epoca augustea, guardando e leggendo le Res Gestae si poteva ripercorrere quanto avvenuto negli ultimi decenni e molti di quegli avvenimenti potevano esser stati vissuti direttamente; volgendo lo sguardo verso il Capo Marzio lo stesso osservatore poteva vedere il Pantheon, l’Horologium, l’Ara Pacis e ritornare al Mausoleo con le Res Gestae: le imprese di Augusto erano elencate nella lunga iscrizione ed erano rese visibili anche dai monumenti del campo Marzio, la vittoria militare era stata pietrificata e trasformata in potere assoluto e potenzialmente eterno grazie al meccanismo della successione dinastica, il nuovo skyline di Roma tracciava il nuovo potere di Augusto il quale, avendo portato a termine imprese straordinarie e grandiose, aveva meritato l’apoteosi secondo uno schema pienamente ellenistico ma che si poteva leggere anche come una rifondazione di Roma da parte di un nuovo Romolo. Questa ambiguità è stata la vera mossa decisiva per l’operazione augustea che, muovendo da un potere assoluto di stampo ellenistico, ha costruito una nuova “comunità immaginata” secondo le regole della tradizione di Roma e del suo fondatore. Augustus segnala tutta la volontà di ricollegarsi alla tradizione di Roma e, contemporaneamente, segnala tutta la novità dei tempi successivi alla vittoria di Azio.
Mauro Menichetti è Professore Ordinario di Archeologia e Storia dell’Arte Greca e Romana presso l’Università degli Studi di Salerno. Tra le sue pubblicazioni, Archeologia del potere. Re, immagini e miti a Roma e in Etruria in età arcaica (Milano 1994)