
di Patrizia Arena e Arnaldo Marcone
Le Monnier Università
«La complessità della strategia che portò alla trasformazione da parte di Augusto del regime oligarchico tardorepubblicano a quello imperiale ha una componente decisiva nella creazione di una dinastia che implicava la legittima trasmissione della posizione di primato assoluto all’interno dello Stato nell’ambito strettamente familiare. Per un aristocratico romano era ambizione naturale quella di progettare di trasmettere trasmettere il potere accumulato con le proprie azioni ai discendenti. Augusto poteva ritenere di meritare gli onori e la posizione di Cesare, essendone l’erede. Né Cesare, né Augusto ebbero figli maschi, ma nessuno dei due pensò che il proprio potere potesse uscire dall’ambito della propria famiglia; in conformità con la prassi gentilizia romana la successione fu quindi cercata per via matrilineare.
Strumento fondamentale dei progetti di successione concepiti da Augusto fu una attenta pianificazione matrimoniale utilizzata con spregiudicatezza e lucidità.
Va considerato con attenzione in via preliminare il suo matrimonio con Livia che può essere ritenuto indicatore, a prescindere dalle circostanze occasionali, dei criteri di scelta di Ottaviano in campo familiare. Le fonti in merito sono numerose e apparentemente esaurienti, ma in realtà tutt’altro che assolutamente affidabili. È evidente che in molti casi riferiscono delle semplici voci o delle congetture che non sono in realtà suffragate da prove. […]
È stato plausibilmente sostenuto che è da ricondurre alla responsabilità di Antonio l’oltraggiosa diceria secondo la quale Ottaviano «rubò» Livia al suo precedente marito, Ti. Claudio Nerone. […] In realtà è verosimile che Livia, almeno in un primo momento, non dovesse essere particolarmente contenta di questo matrimonio. Subito dopo aver messo al mondo il suo secondo figlio sarebbe dovuta entrare nella casa di quello che in precedenza era stato il nemico giurato della sua famiglia. Solo due anni prima lei e il marito Tiberio Claudio Nerone durante la guerra civile erano fuggiti di fronte ai soldati di Ottaviano. Ma, mentre il padre di Livia aveva scelto il suicidio, Nerone agì in modo pragmatico e scelse di venire a patti con Ottaviano. Al di là degli aspetti opportunistici di questo comportamento, si trattò di una scelta concepita come una manifestazione della volontà di riconciliazione da parte della nobilitas con colui che aveva fatto assassinare molti prestigiosi esponenti della classe alta romana. Il matrimonio con Livia doveva contribuire anche a questo. Ad ogni buon conto la moglie apparteneva alla gens dei Claudi, una delle più antiche di Roma.
È difficile dire se sulla base di questo matrimonio si possa dedurre che Ottaviano abbia elaborato sin dall’inizio una strategia che includesse anche un piano di successione coerente. Le unioni matrimoniali a Roma nell’aristocrazia erano concepite da tempo certamente con finalità politiche. Il matrimonio con Scribonia, di soli due anni prima, era stato finalizzato a garantire l’accordo con Sesto Pompeo. Quello con Livia appare concepito per trovare il sostegno dell’élite conservatrice. Certo Ottaviano appare alla ricerca, già nei suoi primi anni di matrimonio, di un figlio maschio per garantirsi un erede: la sua prima moglie Scribonia gli aveva infatti dato solo una figlia, Giulia. Ma Livia, andata in sposa a 15 anni per la prima volta e già madre di due figli, a parte un figlio nato morto, non resterà mai incinta di Augusto. […]
Premessa necessaria al matrimonio tra Livia e Ottaviano fu il ripudio di Scribonia. È una scelta dal chiaro valore programmaticamente politico: Ottaviano segnalava così di rinunciare a perseguire l’alleanza con Sesto Pompeo e di puntare a una riconciliazione con la nobilitas. Ottaviano era ormai alla ricerca di nuove alleanze, meno occasionali. Membro dell’antica gens Giulia per adozione, ma per nascita esponente di un municipio, realizzava ora un legame con due famiglie di primo piano, i Claudi e i Livi; poteva inoltre ambire a generare con Livia dei discendenti che avrebbero potuto trarre vantaggio dalle risorse offerte da una famiglia così rilevante negli equilibri politici romani. […]
Ma discrezione e castità non possono spiegare da sole l’ascesa di Livia nel ruolo di moglie tanto influente del detentore del potere supremo a Roma. Il suo progetto più ambizioso fu probabilmente quello di dar vita a una nuova dinastia con lei alla testa come mater familias. Vero è che senza figli comuni il suo futuro sarebbe stato incerto. Intrecciò quindi con determinazione la propria famiglia, la gens Claudia, con quella Giulia di Augusto e utilizzò consapevolmente lo strumento matrimoniale in modo, si direbbe, in parte concorrenziale, in parte integrativo a quello del marito. Fece sposare sua nipote con il nipote di Augusto, Gaio. Suo figlio Druso di nuovo sposò una nipote di Augusto. È peculiare come la fusione interna della famiglia raggiunga il suo vertice in occasione della morte di Gaio e Lucio, considerati in quel momento dal Principe quali suoi successori: Tiberio, il figlio di primo letto di Livia, fu allora scelto come erede. Augusto aveva già provveduto, nel 12 a.C., a costringere sua figlia Giulia, che era appena divenuta vedova di Agrippa, a sposarlo. Quando Tiberio divorziò da Giulia nel 2 a.C. a causa della sua infedeltà coniugale, ed ella fu relegata, Augusto adottò il suo figliastro per garantirsi la successione.
Livia aveva così raggiunto di fatto il proprio obiettivo principale: come madre del futuro Princeps le era garantita una posizione di primo piano anche dopo la morte del marito.
Livia in effetti mantenne la propria posizione privilegiata dopo la scomparsa di Augusto, sebbene i suoi rapporti con Tiberio si contraddistinguessero per tensioni crescenti. Secondo la volontà del marito defunto venne adottata dalla sua famiglia e poteva ora fregiarsi del titolo onorifico di Iulia Augusta. Quando il senato, su sua sollecitazione, fece di Augusto un dio, fu nominata sua sacerdotessa. Una donna come sacerdotessa di un dio maschile: questo non si era mai visto prima nella storia romana. Se fosse andata a piedi per la città, aveva il diritto di essere preceduta da una guardia armata. A livello sociale era considerata di fatto sullo stesso piano di suo figlio. Ormai i documenti scritti lasciavano la casa con il suo nome accanto a quello del figlio.
L’eccezionale significato della posizione di Livia rispetto ad Augusto e del problema della sua successione rende particolarmente evidenti le contraddizioni fondamentali dell’organizzazione del Principato che riguardano in primo luogo il problema del trasferimento del potere alla morte di colui che deteneva il comando supremo con il titolo anomalo di «imperatore». È certamente erroneo e fuorviante pensare ad Augusto come a un monarca che fosse assolutamente libero di trasmettere la successione a un membro della sua famiglia. D’altra parte la stessa base costituzionale del suo potere era il frutto di un equilibrio complesso, essendo costituita dall’insieme delle cariche che gli erano state conferite nel corso del tempo dal senato e dal popolo e il suo fondamento sociale scaturiva dalle forme di patronato che era in grado di esercitare sui diversi ceti sociali. Comunque la parvenza di governo rispettoso della tradizionale prassi repubblicana da lui scelta suggeriva evidentemente ad Augusto una forma di cautela nella gestione delle modalità in cui trasmettere la propria straordinaria posizione all’interno dello Stato romano.
I poteri detenuti dal Principe venivano attribuiti con deliberazioni specifiche degli organi competenti: la stessa potestà tribunizia, così delicata nell’articolazione del potere augusteo, gli fu conferita nel 23 a.C. tramite un plebiscito. Le circostanze, alcune delle quali sfortunate, contribuirono a complicare la questione, anche se è difficile sostenere che, nel suo desiderio di trasferire a un membro della sua famiglia il potere da lui acquisito, Augusto potesse invocare dei precedenti nella tradizione repubblicana. La verità è che, a prescindere dall’ereditabilità o meno di tale posizione, era maturata rapidamente a Roma, si direbbe in modo irreversibile, soprattutto dopo le difficoltà degli anni 23-19 a.C., una consapevolezza decisiva che lo Stato dovesse essere governato da un reggitore unico.»