
di Paul Zanker
Bollati Boringhieri
«Quando il Senato romano si riunì per deliberare sulle onoranze funebri di Augusto, uno dei senatori propose che l’intera epoca del defunto imperatore venisse chiamata saeculum Augustum e accolta così nel calendario (Suet., Aug. 100). Per quanto la proposta potesse nascere da motivi opportunistici, la sensazione di aver attraversato una svolta epocale era allora diffusissima. Dopo gli oscuri decenni delle guerre civili, Roma era vissuta per quarantacinque anni nella pace e nella sicurezza: la monarchia aveva dato finalmente un’amministrazione ordinata all’Imperium, una disciplina all’esercito, «pane e giochi» alla plebs e un grande slancio all’economia. Il Romano guardava ora al suo impero con una forte coscienza della propria missione morale. Ma agli inizi del potere assoluto augusteo (31 a. C.) regnava il pessimismo: molti ritenevano che lo Stato, travolto dalla propria immoralità, fosse sull’orlo della rovina. Come si giunse allora a un così drastico mutamento di clima, che grazie all’opera dei poeti augustei avrebbe condizionato l’immagine futura del saeculum Augustum?
La cultura romana è segnata in modo decisivo dal rapido processo di ellenizzazione iniziato nel secondo secolo a. C. con la conquista dell’Oriente greco, una società dalla struttura ancora arcaica si trovò sommersa dalla cultura del mondo ellenistico […]. Le ripercussioni sulle abitudini di vita, la religione, la morale, la mentalità furono enormi. Il contrasto fra i mores maiorum e quella che i conservatori avrebbero presto demonizzato come luxuria non poteva essere più grande. Da un lato, nelle città greche, uno stile di vita improntato a una raffinata cultura, le splendide scenografie del potere monarchico, la tradizione della cultura classica ateniese, le scuole filosofiche, il pensiero razionale, ma anche i culti misterici per soddisfare le esigenze religiose più individuali; dall’altro, una religione arcaica, tagliata su misura per un popolo di contadini e inscindibilmente connessa alla sfera politica, i solidi legami delle antiche famiglie patriarcali, uno stile di vita semplice e quasi immutato da molte generazioni, una cultura povera, senza lettere e senza immagini. Non c’è da stupirsi che l’incontro/scontro fra due mondi così diversi potesse scatenare conflitti e insicurezze profonde.
Tanto più che il processo di ellenizzazione si svolgeva in una società esposta a rapidi mutamenti politici e nella capitale di un impero oppressa da un enorme carico amministrativo. […] La rapida importazione dei modelli greci – e delle immagini greche – svolse in questi processi un ruolo importante. Alle famiglie romane già ellenizzate, soprattutto a quelle dei generali trionfatori, esse offrivano una cornice efficace in cui mettere in scena il proprio cosmopolitismo e le proprie ambizioni politiche. Ma su molti contemporanei quelle immagini avevano un effetto irritante: troppo forte era il loro contrasto con la tradizione. I valori tradizionali e antimoderni si cristallizzarono nella nota ideologia della romanità e dello Stato romano: ideologia che si trovava però spesso smentita nei fatti. Il primo capitolo del libro intende mostrare come le immagini importate dalla Grecia non solo abbiano rispecchiato quei processi di dissoluzione, ma abbiano contribuito alla crisi del tradizionale sistema di valori. Senza questo sfondo, senza cioè il potere distruttivo delle immagini, il nuovo linguaggio visuale dell’età augustea resterebbe incomprensibile.
Dopo il tramonto definitivo della vecchia res publica durante le lotte per il potere tra Cesare e Pompeo, e poi tra Ottaviano e Antonio, i Romani cominciarono a interrogarsi sulle cause di quel generale disorientamento, e ne addossarono la colpa in primo luogo all’abbandono degli antichi dèi e dei patrii costumi (mores maiorum). […]
Dopo aver raggiunto il potere assoluto (31 a. C.), Augusto si misurò punto per punto con i problemi evidenziati dagli slogan conservatori. Con un programma culturale di ampio respiro, perseguito con coerenza lungo un arco di oltre vent’anni, egli si propose, e ottenne nei fatti, un sostanziale rinnovamento della mentalità collettiva. Ai fasti celebrativi dei grandi generali oppose il culto del sovrano eletto dagli dèi; allo scandalo del lusso privato, un programma di grandiose opere pubbliche (publica magnificentia); all’indifferenza religiosa e all’immoralità, una campagna di rinnovamento religioso e morale (pietas e mores).
Un programma del genere richiedeva un nuovo linguaggio figurativo. Si tratterà dunque di esaminare i complessi rapporti tra l’instaurazione della monarchia, la riforma della società e i mutamenti avvenuti nella sfera delle immagini e nell’intero sistema della comunicazione visiva. Le esperienze moderne hanno fatto ipotizzare in questo caso l’esistenza di un preciso apparato propagandistico, che però non ci fu. Quello che ci appare, a posteriori, come un raffinato sistema di propaganda, risultò da un intreccio fra le iniziative celebrative del sovrano e gli omaggi più o meno spontanei offertigli dalla popolazione: un processo che non sembra obbedire, in gran parte, ad alcuna regia occulta. E si tratterà di mostrare come i soggetti coinvolti nell’elaborazione del nuovo linguaggio abbiano contribuito a quel processo, e quali interessi e vincoli sociali abbiano giocato nella sua diffusione.
Se in seguito parleremo sempre di «mondo» e di «linguaggio» figurativo o visivo, sarà appunto per sottolineare che l’obiettivo primario del lavoro non è l’interpretazione dei singoli monumenti: sono già stati descritti e analizzati abbastanza spesso, e in un tono che ricorda non di rado i panegirici dei poeti augustei. Quel che mi interessa è, invece, l’insieme delle immagini e il loro effetto sui Romani del tempo. E per immagini intendo qui non solo le opere d’arte, gli edifici e le visioni poetiche, ma anche i rituali religiosi, l’abbigliamento, le cerimonie di Stato e gli atteggiamenti del sovrano: insomma tutte le forme di rapporto sociale suscettibili di assumere una valenza visiva. Quello che mi interessa sono i rapporti tra le immagini e il loro effetto sull’osservatore.
Un mondo figurativo così inteso rispecchia lo stato interiore di una società e permette di cogliere aspetti dell’immaginario contemporaneo di cui spesso non rimane traccia nelle fonti letterarie.
Il potere delle immagini si concretizza secondo uno schema circolare: anche i potenti finiscono per soggiacere alla suggestione dei propri simboli. Sono i loro stessi slogan, e naturalmente quelli degli avversari, a condizionare in modo decisivo la loro identità e il loro ruolo. Quanto ai destinatari, le immagini non si riducono affatto a semplici portatori di un messaggio politico: anche in questo caso, e si tratterà di farlo vedere, esse vengono via via interiorizzate e usate come espressione di virtù e di valori personali.
Il significato delle immagini in epoca augustea non consiste però tanto nel fatto di pubblicizzare la monarchia: cosa che sarebbe stata pressoché superflua rispetto al popolo e inefficace rispetto all’aristocrazia repubblicana. Senza le legioni e le enormi ricchezze personali di Augusto le immagini non sarebbero servite a nulla. Ma la loro efficacia a lungo termine sulla mentalità generale rappresenta un fattore storico di cospicua importanza. Determinati valori, come il programma di rinnovamento religioso, acquistarono realtà solo attraverso la vastissima cassa di risonanza del linguaggio figurativo. Ma, soprattutto, attraverso le immagini poté prendere forma un mito imperiale e statale dalla semplice fisionomia eziologica e capace di imporsi come una realtà autonoma rispetto alle circostanze storiche effettive. Un mito capace di filtrare la realtà stessa e di produrre per intere generazioni la certezza di vivere nel migliore degli Stati possibili e nella pienezza dei tempi.»