“Atlante inutile del mondo. 100 luoghi che non hanno fatto la storia” di Albano Marcarini

Dott. Albano Marcarini, Lei è autore del libro Atlante inutile del mondo. 100 luoghi che non hanno fatto la storia edito da Hoepli; una raccolta di curiosità geografiche e reliquie geopolitiche ormai cadute nell’oblio ma ugualmente affascinanti: cosa accomuna i 100 luoghi da Lei celebrati?
Atlante inutile del mondo. 100 luoghi che non hanno fatto la storia, Albano MarcariniGiusto quello di riscoprire la geografia come il ‘racconto del mondo’. Temo che la difficoltà di apprendere la geografia nelle nostre scuole si debba implicare al modo elencativo e asettico con cui abbiamo mandato a memoria fiumi, monti, capitali, prodotti principali, vie di comunicazione ecc. E forse è uno dei motivi dell’attuale emarginazione della geografia nei programmi scolastici. Credo che dietro, o dentro, ogni montagna, indipendentemente dall’importanza della sua altitudine, ci siano storie da raccontare. Così come lungo i fiumi, negli Stati e nei territori. Oggi possiamo scrutare ogni angolo del globo grazie a Google Maps, fino a dettagli impudici, ma nessuno riesce ancora a dirci cosa c’è sotto ogni frame. Il modesto obiettivo di questo Atlante è proprio di scavare per fare emergere il lato B degli oggetti geografici. L’obiettivo di questo Atlante è di incuriosire e divertire chiunque ami la geografia e ancor più la cartografia.

All’inizio della lista troviamo un termine alquanto originale il cui contenuto non ci è però affatto alieno, autostralia: cosa indica questo termine?
Riguarda una delle prime tavole dell’Atlante. Ci si passa mille volte accanto e nessuno fa loro l’elemosina di uno sguardo caritatevole. Non appartengono a nessuno perché nessuno ci va e nessuno ci vive. Sono scampoli di un territorio inesplorato, come certe parti del deserto dell’Australia, impenetrabili come una centrale atomica, forse irreali. Non ci sono case e tanto meno numeri civici. Sono reliquie, anzi reliquati. Sono gli spazi di risulta degli svincoli autostradali – triangolari, rotondi, bislunghi – forme elementari dell’NPI (Nuovo Paesaggio Italiano). Se è vero che sono reliquie, allora dovrebbero essere oggetto di una fede sperticata, da flagelli sul corpo nudo, che pure la Congregazione per le cause dei Santi ammetterebbe fra le autentiche. Che qualcuno le protegga, al pari di una riserva naturale, poiché potrebbero diventare luoghi salvifici, dove radunare specie in estinzione, o al peggio, confinare geni mutanti. Non saremo i primi e neppure gli unici a spenderci per la loro sopravvivenza. Già lo fece, e in modo insuperabile, George Ballard, faro della letteratura post-modernista. In Concrete Island, un uomo, a causa di una sbandata in auto, viene catapultato all’interno di un’isola spartitraffico, vi rimane ferito e rinchiuso per giorni senza possibilità di uscita e senza che nessuno se ne accorga.

Di Semifonte si è totalmente persa memoria, com’era nelle intenzioni della rivale Firenze..
«Castello celebre che diede tanto da dire e non poco da fare ai Fiorentini, finché nel 1202 da questi fu preso e da capo a fondo rasato. Quindi fu emanato un decreto pubblico, che niuno ardisse mai più di fabbricare nel luogo dove esso fu, cioè sul poggio di Petrognano». Questa, in cruda sintesi, la vicenda di Semifonte, vera città oltre che castello, che osò opporsi a Firenze. Ne parlò nelle tavole dedicate all’Italia, fra le città estinte. Due volte i semifontesi furono avvertiti, per la verità più con le cattive che con le buone, scassando le fondamenta e le impalcature, atterrando i corsi delle mura. Ma non ci fu verso. Quello che si abbatteva di giorno si rifaceva di notte e tanto e di più: case, chiese, due monasteri, un ospitale per pellegrini, locande, palazzi da nobile e anche un borghetto fuori le mura, visto che queste si dimostrarono subito insufficienti a contenere la popolazione. Semifonte fu una città ben disegnata, con un’elegante pianta stellata, quasi un preludio alle città ideali del Rinascimento. Era una fiera comunità, che si liberò dell’autorità signorile per autogovernarsi, attirando invidie e gelosie come neppure Iago avrebbe saputo fare. Che i semifontesi fossero simpatici è una parola grossa. Il loro passatempo era depredare i viandanti sulla Via Francigena, compreso nel 1192 il Vescovo di Ostia, di ritorno a Roma, che valse loro l’inimicizia del Papa. Schiacciata fra Firenze e Siena, restò alla fine isolata e senza alleati. L’assedio durò quattro anni, poi gli assediati, traditi da colui che alla città aveva dato sostanza, dovettero scendere a patti. Salva la vita ma rase le torri e le mura, bruciate le case, tolte le pietre alle chiese. Gli esuli dispersi in Toscana, molti in Sicilia, altri a Gerusalemme a fare penitenza. Su Semifonte scese il silenzio e sul suo colle tornarono a crescere le rose selvatiche. Quel che resta di Semifonte si trova in località San Donnino, all’estremità orientale del comune di Certaldo, al confine con il comune di Barberino Val d’Elsa.

Il Dito di Caprivi rappresenta una vera e propria stranezza cartografica: qual è la sua storia?
Qui siamo di fronte alla più bizzarra anomalia confinaria del continente africano. Basta fissare lo sguardo su una carta politica per notare come i confini dell’Africa del Sud-Ovest, già gloriosa colonia tedesca col nome di Deutsch-Südwestafrika, oggi conosciuta come Namibia, presentino un’innaturale e pronunciata protuberanza verso oriente. Il suo nome è “Dito”, o “Lembo di Caprivi” (Kaprivi Zipfel, Caprivi Strip), lungo 500 chilometri e largo 80. Considerato sotto il profilo anatomico si tratta di una striscia di savana, stretta fra i fiumi Okavango e Kwando. Georg Leo Graf von Caprivi di Caprara di Montecuccoli, nome certamente più lungo del suo dito, fu successore di Otto von Bismarck nella carica di cancelliere della Germania, fra il 1890 e il 1894. Per alcuni in modo piuttosto indegno. Perseguì una politica riformista mentre sul piano internazionale cercò un avvicinamento alla Gran Bretagna. Nel primo caso scatenò le ire dei conservatori, nel secondo quelle dei nazionalisti. Il suo colpo migliore fu però il “dito”, infilato fra le pieghe del trattato firmato nel 1890 con i britannici, relativo allo scambio fra le isole di Helgoland e Zanzibar. In tal modo la Germania ottenne un corridoio – un ‘dito’ appunto – per accedere al fiume Zambesi, il cui mitico richiamo livingstoniano superava però di molto l’effettiva possibilità di navigarlo.

Tra i toponimi, Zzyzx desta certamente curiosità, capace com’è di conquistare l’ultimo posto nell’ordine alfabetico di qualsiasi enciclopedia: dove si trova questa località?
Zzyzx è un luogo da post apocalisse al margine del deserto di Mojave, fra i più invivibili al mondo. Dichiarato dal Reader’s Digest il toponimo in assoluto «più difficile da pronunciare», Zzyzx ebbe diritto di esistenza dal Consiglio per i nomi geografici degli Stati Uniti il 14 giugno 1984. La sua storia cominciò nel 1944, quando un predicatore evangelista di Los Angeles – lo Springer appunto – si appropriò di una fetta di deserto nota come Soda Springs (si noti l’attinenza dei due nomi), trasformando alcune maleodoranti sorgenti in un profetico resort salutistico. Sul Boulevard of Dreams si affollarono i seguaci di una terapia dove il fumo era incoraggiato e dove l’Hollywood Pep Cocktail fungeva da sostitutivo del Margarita: un intruglio di carote, sedano, rape, prezzemolo, zucchero di canna. Agli ospiti erano riservati due sermoni quotidiani che compensavano l’adeguata e anticipata donazione in contanti. Oltre all’albergo, Zzyzx ebbe una chiesa, una tipografia, una stazione radio, un aeroporto. Come in un qualsiasi outlet, vi si poteva arrivare in bus navetta da Los Angeles. Purtroppo la vicenda finì in modo poco onorevole. Nel 1974 il Governo della California s’avvide che lo Springer aveva occupato abusivamente quel territorio e non aveva mai versato un dollaro di tasse. Deluso da quanti non colsero il suo contributo al benessere dell’umanità, Springer si ritirò nel 1986, scontando una modesta condanna. Si spense all’età di 90 anni ponendo qualche ragionevole dubbio sull’inefficacia delle sue terapie. Oggi Zzyzx è abitata da un eremita. Sopportando temperature da altoforno, si occupa del Tui-chubé-Mohave, un cavedano in via di estinzione che sguazza nella piscina lustrale della ex-città.

Cosa rende assolutamente straordinario il Nullarbor Plain?
Nullarbor Plain, nell’Australia Meridionale, è la cruda essenza dell’Outback. Non esiste altra desolazione al mondo e il nome, a scanso di equivoci, lo dice chiaro e netto. Nullarbor viene dal latino ‘nullus arbor’, nessun albero. Designa un orizzonte di 200 mila chilometri quadri (due terzi dell’Italia; la mappa ne raffigura solo una minima parte) dove ombra è un concetto ignoto, dove trovare una specie vegetale dalle parvenze arboree – delle oltre 950 che crescono in Australia – farebbe notizia sui giornali. Sbaglia però chi pensa a un deserto totale. Niente sabbia, solo un duro suolo calcificato e permeabile, peggio di uno scolapasta, che si solleva a scaglie come le croste rapprese di un’escoriazione mal curata. Se ne avvidero saggiamente gli aborigeni che evitandolo, chiamarono il luogo Oondiri, ‘senza acqua’. Difficile mettere radici. Una landa talmente spoglia dove – dicono – si riesce a distinguere all’orizzonte la curvatura del pianeta. Un luogo ideale per il mio Atlante inutile del Mondo.

Albano Marcarini, urbanista, scrive guide itinerarie. Ha curato vari atlanti per De Agostini, Touring Club Italiano e Istituto Geografico Militare

ISCRIVITI ALLA NEWSLETTER
Non perderti le novità!
Mi iscrivo
Niente spam, promesso! Potrai comunque cancellarti in qualsiasi momento.
close-link