“Atene a processo. Il diritto ateniese attraverso le orazioni giudiziarie” di Laura Pepe

Prof.ssa Laura Pepe, Lei è autrice del libro Atene a processo. Il diritto ateniese attraverso le orazioni giudiziarie edito da Zanichelli: quale concezione del diritto avevano gli antichi Greci?
Atene a processo. Il diritto ateniese attraverso le orazioni giudiziarie, Laura PepeSe con “diritto” intendiamo una scienza astratta, provvista di una sua specifica fisionomia, dovrei rispondere a questa domanda affermando che i Greci non avevano alcuna “concezione del diritto”; in effetti la scientia iuris, o iurisprudentia, è invenzione dei Romani, che per primi si occuparono della formazione di figure specifiche di esperti e interpreti della legge (i iurisprudentes o iurisperiti). Tuttavia, l’assenza di una scienza del diritto o di professionisti del diritto non implica affatto l’assenza, presso i Greci, di un pensiero giuridico; implica solo la constatazione che questo pensiero non era teso all’elaborazione di principi giuridici astratti, ma aveva come suo centro di interesse i nomoi, cioè le leggi della città. Quelle leggi che venivano votate e approvate all’interno dell’assemblea a cui tutti i cittadini erano chiamati a partecipare, quelle leggi che dopo l’approvazione venivano scolpite su blocchi di pietra ed esposte nella pubblica piazza, divenendo in questo modo parte integrante e concreta del tessuto civico. La centralità della legge rende chiaro che la figura di riferimento, per i Greci, non è il giurista (come fu a Roma), ma il legislatore.

Vale anche la pena sottolineare come, nella concezione dei Greci, la legge è intrinsecamente giusta, e dunque è strumento indispensabile per garantire giustizia; solo una città che obbedisce alle leggi che si è data può essere una città ordinata e civile.

Quale importanza rivestono le orazioni pervenuteci nello studio del diritto greco?
La legge – che abbiamo detto essere elemento centrale nell’esperienza giuridica greca – aveva un suo uso pratico all’interno del tribunale, nel processo, ove serviva tanto come strumento di prova (in quanto tale prodotto dalla parte per dare forza alla propria posizione) quanto come criterio necessario per la formazione del verdetto dei giudici (che dovevano votare proprio basandosi sulla lettera e l’interpretazione corrente della legge). Ora, nel processo le parti coinvolte erano tenute ad accusare o a difendersi personalmente, senza la mediazione di altri; chi poteva permetterselo, tuttavia, pagava un logografo, cioè uno “scrittore di discorsi”, al quale commissionava il compito di scrivere l’orazione che avrebbe poi pronunciato di fronte ai giudici nel tribunale. I logografi non erano avvocati (proprio perché, come si è detto, in Grecia mancava una simile figura professionale); erano, invece, esperti di retorica, incaricati di redigere un discorso ben costruito che potesse servire al proprio cliente per vincere la causa. Le orazioni giudiziarie che ci sono pervenute attraverso la tradizione manoscritta (e che riguardano Atene, la polis greca che meglio conosciamo) sono proprio le opere dei più famosi logografi ateniesi, come Lisia, Demostene, Isocrate.

Per gli studiosi del diritto greco, le orazioni giudiziarie sono fonti di importanza fondamentale ed eccezionale, in quanto permettono di capire in che modo il diritto veniva applicato, quali erano le prassi processuali più tipiche e in che modo la legge veniva impiegata, interpretata, commentata e applicata. D’altro canto, bisogna essere ben consapevoli del fatto che si tratta di fonti insidiosissime, per la banale considerazione che esse sono scritte a tutto vantaggio di una delle parti in causa, al fine di far ottenere a quest’ultima un immediato risultato pratico, evidentemente di successo (con tutte le forzature che la necessità di ottenere tale risultato evidentemente richiedeva).

Quali tipi di azione prevedeva il sistema processuale ateniese?
Bisogna premettere che al diritto di Atene è sconosciuta una figura assimilabile a quella del nostro pubblico ministero. Questo significa che le azioni, lungi dall’essere promosse d’ufficio (anche nel caso di reati gravissimi) prendono sempre impulso dall’iniziativa di un singolo, privato cittadino, con la conseguenza che l’illecito non denunciato è destinato a rimanere impunito. Detto questo, le azioni principali potevano essere di due tipi: díkai e graphái. Le prime, più antiche, potevano essere esperite solo dalla parte lesa, ovvero – era per esempio il caso dell’omicidio – dai parenti più stretti della persona uccisa; le seconde, introdotte da Solone agli inizi del VI secolo a.C., potevano essere invece esperite da chiunque desiderasse denunciare un illecito. La distinzione posta dal diritto di Atene tra díkai e graphái è assimilata da diversi studiosi a quella moderna tra azioni civili e azioni penali; si tratta tuttavia di una assimilazione che dà adito a molti dubbi, per l’impossibilità di sovrapporre il pensiero antico a quello attuale: basti pensare, per esempio, al fatto che diverse graphái miravano a tutelare gli interessi privati del singolo che non era in grado di difendersi in giudizio da sé (e dunque non servivano a perseguire reati contro lo stato o la collettività, come nel caso delle moderne azioni penali), o ancora al fatto che l’omicidio, per noi reato per eccellenza, era percepito ad Atene come un’offesa all’individuo e al suo gruppo familiare, ed era dunque perseguito con una díke.

È importante ricordare che a giudicare le cause erano, praticamente sempre, dei privati cittadini (l’unica eccezione, come vedremo tra breve, riguardava l’omicidio). Proprio la natura popolare dei tribunali ateniesi ha acceso un vivace dibattito dottrinale circa la competenza dei giudici e la loro capacità di garantire un processo giusto e rispettoso della legge.

Quali erano e come venivano sanzionati gli illeciti contro la polis?
Il senso di appartenenza degli Ateniesi alla loro città era tale che essi indicavano quest’ultima non già con il toponimo, “Atene”, ma con il collettivo hoi Athenáioi, “gli Ateniesi”. Essere Ateniese era un privilegio, riservato (almeno a partire dalla metà del V secolo a.C.) soltanto a chi fosse figlio di due Ateniesi, sulla base di un rigorosissimo ius sanguinis. Inutile dire che qualsiasi offesa fatta alla città era sentita come offesa fatta ai cittadini, da reprimere in modo molto severo. Gli illeciti contro la polis erano moltissimi, e di natura varia: rientravano nel novero, per esempio, il fatto di attentare alle istituzioni democratiche, di non prestare servizio militare, di essere debitori allo stato di una somma di denaro, di usurpare la condizione di cittadino. Uno degli illeciti contro lo stato più curiosi, dal nostro punto di vista, è la asébeia, “empietà”: che non era soltanto un’offesa di carattere religioso (come il termine italiano potrebbe lasciare intendere), bensì il reato commesso da chi non rispettava i fondamenti del vivere civile alla base della polis. Di asébeia – perché sospettato di non credere negli dei della città, di introdurre nuove figure divine e di corrompere i giovani – venne accusato uno dei più celebri filosofi del V secolo, Socrate, che venne infine condannato a morte dalla dalla giuria popolare, in uno dei processi più chiacchierati di tutti i tempi.

Quali norme punivano l’omicidio? 
Un caso felice ha conservato la stele sulla quale gli Ateniesi, verso la fine del V secolo, decisero di ritrascrivere la legge del loro primo legislatore, Draconte (621/0 a.C.), tesa proprio a disciplinare l’omicidio, in greco phónos. Anche se l’interpretazione della legge è controversa (anche perché il testo epigrafico conservato è molto danneggiato), si può affermare con certezza che una delle principali finalità di Draconte dovette essere quella di limitare il ricorso dei gruppi familiari alla vendetta, imperante in età precedente. Nelle sue disposizioni, il primo legislatore Ateniese stabilì innanzitutto che l’omicida fosse sottoposto a processo (e non lasciato alla mercé dei parenti della vittima, come accadeva prima); in caso di condanna, il colpevole subiva una pena diversa a seconda che egli avesse commesso un omicidio volontario o involontario. Nel primo caso, egli sarebbe stato condannato a morte; nel secondo, sarebbe stato esiliato. Vi erano tuttavia dei casi in cui chi uccideva non era soggetto a pena: rimaneva impune, per esempio, colui che avesse ucciso il ladro colto a rubare di notte, o l’amante colto in flagrante con una delle donne di casa soggette alla sua potestà.

È significativo che, a differenza di tutti gli altri illeciti – giudicati da tribunali composti da cittadini privati –, l’omicidio era di competenza di speciali tribunali di sangue, in cui sedevano tutti i magistrati usciti di carica.

Come veniva punita la violenza fisica e verbale?
Uno dei termini più noti con cui i Greci indicavano la violenza era hybris. Per il vero la hybris è una violenza particolare, che non contempla solo il ricorso alla forza bruta, ma implica anche il piacere di umiliare l’altro. Come ricorda Aristotele, infatti, la hybris “consiste nel fare o nel dire qualcosa che rappresenta una vergogna per chi la subisce, non per ottenere qualche altro vantaggio personale che non sia l’azione stessa, ma per provare piacere”. La gravità dell’offesa spiega dunque perché a denunciarla potesse essere, tramite graphé, qualunque cittadino. Le orazioni giudiziarie, tuttavia, pur ricordando moltissimi episodi di hybris, fanno solo sporadici riferimenti a processi per hybris; un’esiguità di casi giudiziari che viene generalmente giustificata con la constatazione che la hybris comportava un particolare “atteggiamento mentale” difficile da dimostrare in tribunale. Era in effetti molto più frequente che chi si proclamava vittima di hybris, per punire il proprio aguzzino, ricorresse a un’azione che perseguiva la violenza fisica pura e semplice, ben più facile da provare.

Ma i Greci non punivano soltanto la violenza fisica; consideravano grave anche quella verbale. In particolare, sanzionavano con una pena pecuniaria chi avesse pronunciato parole “proibite”, indicate dalle leggi di Atene come “tabù”. Peraltro, l’orazione (di Lisia) che che ricorda un caso processuale teso proprio a perseguire in giudizio un individuo ritenuto colpevole di aver apostrofato un concittadino con una di queste parole, è un interessante terreno di verifica per capire in che modo le leggi ateniesi venivano interpretate.

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