
In un angolo di campagna, dove la presenza di un albero non riesce a riempire il vuoto, in una sera che non passa mai, due barboni aspettano un certo Godot. Non l’hanno mai visto, non sanno neppure perché lo attendono. Sperano di ottenere qualcosa da lui, ma non sanno che cosa. Ciò che li trattiene, vago come il paesaggio, è questo dato di fatto: ha promesso di venire. L’attesa serve loro da alibi, dà pretesto per restare insieme fino a notte fonda, fornisce una ragione per non impiccarsi se non un modo di ammazzare il tempo. E il tempo è ribelle, ostinato e subdolo, passa come gli pare, ha il gusto della contraddizione, gli piace trascinarsi e attardarsi quando si vorrebbe che passasse in fretta; sembra compiacersi in compagnia di questi poveracci così penosamente sprovvisti di immaginazione e di risorse. La giornata non finirà dunque mai? Quando scoccherà l’ora in cui apparirà Godot? Estragon e Vladimir se lo domandano e ridomandano: Godot è il loro principale argomento di conversazione.
Si ha l’impressione che essi interroghino l’eco, il deserto sordo che li circonda. Irrisorie, le loro voci si perdono. L’eco si spegne. Il cielo è vuoto. Non accade nulla. Sono là, insieme, e non sanno più neppure il perché. L’abitudine… Tuttavia fanno fatica a sopportarsi. Spesso uno dei due se n’è andato per la sua strada, vagando nel nulla. Ma l’abitudine è la più forte delle catene: ha fatto sì che si ritrovassero insieme, che ricominciassero a parlare delle loro piccole miserie, del vuoto della loro vita, di ricordi così vaghi, così sfocati, così incerti; di fatti che potrebbero accadere e, in realtà, non accadono mai, dell’ipotetica venuta di Godot. Si ripetono: il loro dialogo è più monotono del più monotono dei monologhi.
Beckett riesce mirabilmente a farlo sentire senza mai cadere in questo difetto. Si ripete con tanta abilità che l’azione teatrale non annoia e anzi guadagna dal punto di vista comico. Se non v’è azione in questa strana opera teatrale, v’è tuttavia una diversione. Sulla scena appare una coppia ancora più singolare di quella formata da Estragon e Vladimir: un padrone e il suo schiavo. L’uno tratta l’altro in modo odioso, peggio di un cane; non contento di dargli come unico pasto gli ossi del pollo che egli ha divorato, lo frusta con crudeltà folle. Eppure, come Estragon si rassegna a Vladimir, lo schiavo subisce il padrone. E la sofferenza inflitta non dà alcuna gioia al tiranno.
Con questo breve riassunto della vita quotidiana l’Autore sembra denunciare lo sfruttamento dell’uomo da parte dell’uomo, tanto nella società quanto nella coppia dove, troppo frequentemente, l’uno impone il suo giogo all’altro senza trarne alcun profitto. I due passanti restano là un po’ di tempo a stupire Estragon e Vladimir e, alla fine, legati uno all’altro in un carro grottesco, se ne vanno rumorosamente. Cade il silenzio. “Be’, ha fatto passare il tempo” dice Vladimir. “Sarebbe passato lo stesso” risponde Estragon. “Sì, ma più adagio” dice Vladimir. Poco dopo un ragazzo annuncia che Godot non verrà questa sera, ma domani; giunge il “domani” e tutto ricomincia. Stesso dialogo sconclusionato, insignificante, penoso (ma, proprio per questo, irresistibilmente buffo). Ricompaiono i passanti del giorno prima, invecchiati: il tiranno ora è cieco, lo schiavo muto. La coppia barcolla, cade, si rialza faticosamente. Godot manda di nuovo il ragazzo per scusarsi: verrà, sicuramente, ma domani.
Era inevitabile che un tale teatro, così decisamente nuovo, provocasse reazioni violente. Aneddoto, sociologia, psicologia, politica, lirismo, religione, morale, satira: tutto ciò a cui il teatro, da Eschilo in poi, si era ispirato, si trova relegato superbamente nel deposito degli accessori. Con l’audacia del genio, Beckett mette in scena una rivolta, una sofferenza, una disperazione tanto assolute che è quasi una scommessa pensare di portarli su di un palcoscenico dove la mancanza di movimento, di brio, di vivacità, di fantasia, di splendore parrebbe votare inevitabilmente al fallimento. La dolorosa assurdità della vita si riflette in una quantità di dettagli semplici e umili, tratti dalla vita di tutti i giorni da cui è facile, per Beckett, ricavare delle gags estremamente gustose che affiorano nelle banali formule della conversazione quotidiana e usate con finta ingenuità, ritrovano la loro freschezza, avvincono, divertono. Innocentemente creano un clima grottesco, insolito, doloroso e tenero grazie al quale quest’opera rivoluzionaria entrerà a far parte dei classici.»