“Artisti in fuga da Hitler. L’esilio americano delle avanguardie europee” di Maria Passaro

Artisti in fuga da Hitler. L'esilio americano delle avanguardie europee, Maria PassaroArtisti in fuga da Hitler. L’esilio americano delle avanguardie europee
di Maria Passaro
il Mulino
 

«Quando Hitler sale al potere, il primo obiettivo della sua politica culturale è la condanna dell’arte d’avanguardia. In un clima dominato dalla censura e dal controllo, la propaganda nazista si propone di ripristinare l’antico ordine classico dopo quella che viene considerata la furia modernista. L’attacco più feroce è l’accusa di «degenerazione» rivolta a tutta la cultura artistica moderna e la sua espulsione dalla Germania.

Il regime aveva creato un sistema di controllo minuzioso e capillare. Basti pensare all’emanazione della Legge sulla revoca della naturalizzazione e la privazione della cittadinanza tedesca. Il decreto nazista ordinava l’espulsione e la confisca dei beni di tutti i cittadini che «si stavano comportando in modo contrario al dovere di lealtà verso il Reich».

Per gli artisti non allineati al regime del Führer nessuna indecisione. Accettano l’irrimediabilità dell’esilio. Dal 1933 fino al 1941 circa 25.000 apolidi lasciano la Germania e i luoghi occupati dai nazisti per cercare rifugio altrove. Nell’impossibilità di essere liberi in patria e privati del loro spazio pubblico, scelgono una nuova vita, lontano dalla barbarie nazista. La maggior parte di loro opta per gli Stati Uniti.

Da un’Europa frantumata si ricompone in America un nuovo sistema del sapere destinato a cambiare radicalmente l’assetto sociale, politico e culturale statunitense. Qui, l’arrivo in massa dei profughi contribuisce a instaurare un generale clima di cambiamento che corrisponde a una febbrile attività organizzativa, favorita anche da adeguate normative politiche in materia d’immigrazione che prevedono, tra l’altro, la speciale condizione di «visitatore d’emergenza»: Max Reinhardt, Stefan Zweig, Roman Jakobson entrano negli Stati Uniti con il visto speciale, e lo stesso succede a due premi Nobel, Albert Einstein e Thomas Mann.

Il campo che si delineerà in queste pagine è quello dell’esilio degli artisti dall’Europa dei totalitarismi, dell’incontro culturale e scientifico con il nuovo paese che li accoglie, dell’evoluzione delle loro ricerche e delle difficoltà di cambiamento. […]

L’interrogativo che il libro pone è semplice: cosa è rimasto della rispettiva cultura d’origine nel momento in cui gli artisti esuli hanno cominciato a lavorare negli Stati Uniti, e cosa ha significato l’americanizzazione da un punto di vista artistico, sia in termini positivi che negativi? Lasciare la patria equivale necessariamente a una commercializzazione e, quindi, alla perdita dell’ispirazione più pura? O, invece, il confronto con una diversa cultura ha esaltato i loro talenti e portato a risultati che non avrebbero mai potuto conseguire nelle rispettive terre d’origine?

Questo modo di procedere ha portato a capovolgere la nozione stessa di esilio così come si è andata configurando nella più recente storiografia. Gli studi sull’esilio artistico tendono, infatti, a ragionare solo delle privazioni, della perdita e dello sradicamento che l’esperienza dell’esilio produce nell’arte dei rifugiati. E, molto più spesso, il ragionamento si ferma al momento dell’abbandono della terra d’origine, come se gli anni dell’esilio coincidessero con la perdita dell’identità anche artistica. […]

È vero, negli ultimi anni l’Exilforschung ha rappresentato un ambito disciplinare specifico e riconosciuto negli studi internazionali. È da tempo, infatti, che siamo passati dalla fase della memoria a quella di una ricerca più propriamente storica e con una precisa identità. […]

Tuttavia, si tratta di ampie ricognizioni e studi sull’intero fronte dell’arte in esilio, che comprende la musica, la letteratura, la poesia, l’architettura, il cinema e la pittura. Studi sicuramente importanti e necessari, fin troppo generici e senza una precisa proposta metodologica. […]

Dalle pagine di questo libro emergono, invece, figure di artisti che scelgono il luogo dell’esilio come una nuova opportunità di comunicare, con i mezzi della propria pittura, un discorso coerente e in continuo svolgimento. Artisti che non guardano all’America con gli occhi del rifugiato che racconta della privazione e del distacco forzato dalla propria patria ma che approfittano della nuova terra per ripensare la propria poetica e, a volte, per iniziare con un nuovo entusiasmo. […]

Lo studio della produzione dell’arte americana ha significato scoprire episodi della vita artistica di questi esuli finora trascurati dalla critica. Episodi che testimoniano una complessità di ricerca che non può più essere tralasciata e che suggerisce la messa a punto di altri mezzi d’interpretazione. […]

Prima di tutto c’è la furia censoria nazista da cui tutto ha inizio. Le pagine che seguono cercano di mostrare come la strategia del regime di Hitler abbia esiliato dal paese tutto il fronte dell’arte d’avanguardia privandolo dello spazio pubblico. Esiliato sia fuori che dentro l’Europa. Si può essere esuli anche in casa propria.

Fra le prime tappe dell’esodo c’è Parigi, e qui troviamo Wassily Kandinsky, subito dopo la chiusura forzata del Bauhaus di Berlino.

A Londra fuggono Piet Mondrian e László Moholy-Nagy. L’arte tedesca, espulsa dalla Germania, trova in Inghilterra un clima abbastanza favorevole, anche se alcune espressioni artistiche, di carattere prevalentemente politico-sociale, sono poco gradite. Il governo inglese, infatti, dava agli esuli tedeschi una protezione condizionata all’impegno chiesto di non fare attività politica. Molti di loro si fermano solo per qualche anno per poi stabilirsi definitivamente a New York e a Chicago. Qui, si uniscono alla comunità di esuli arrivata direttamente dalla Germania fra cui, come si vedrà, Lyonel Feininger e Max Ernst.

Un’altra ondata di esuli arriva in America subito dopo la resa della Francia, nel 1939. La storia della fuga da una Francia ormai occupata dai nazisti sembra tratta dalle pagine di un romanzo. Il protagonista è un eroe americano, Varian Fry, che arriva a Marsiglia con una lunga lista di nomi di grandi artisti che dovrà salvare su commissione del governo americano. Tra di loro anche André Breton, Fernand Léger e Marc Chagall.

Sebbene molti artisti francesi disdegnino la cultura americana, essi contribuiscono a tradurre l’avanguardia europea per i giovani americani, soprattutto per quelli che di lì a poco faranno parte dell’Espressionismo astratto. Ma non solo. I principi della nuova pittura astratta, quella più geometrica ed essenziale, saranno fondamentali per le teorie artistiche degli anni Sessanta. Per il Minimalismo, in particolare.

L’imponente ondata delle fughe dall’Europa ha l’effetto di cambiare radicalmente il paesaggio artistico internazionale del XX secolo. Un cambiamento che è stato favorito anche dalla collaborazione delle istituzioni artistiche americane e che produce un effetto potenziato. Non dimentichiamo che l’accoglienza americana era stata già preparata da importanti mostre che hanno avuto il compito di consolidare definitivamente la fama di questi rifugiati speciali. Pensiamo al MoMA e al coinvolgimento del suo primo direttore, Alfred Barr Jr., impegnato a sostenere e a promuovere l’arte degli esiliati europei ma attento a elaborare nuove strategie di mercato.

Ci sono anche le gallerie, come quella di Pierre Matisse, figlio di Henri, che nel 1942 a New York organizza la mostra Artisti in esilio. 14 esuli trovano, nello spazio espositivo di Pierre Matisse, un’occasione per mostrarsi in gruppo, compatti e uniti. Gli artisti presenti erano, fra gli altri, Mondrian, Léger, Miró, Ernst, Tanguy, Chagall, Breton, Masson. Un episodio fin troppo trascurato dagli studi sull’esilio e che ora, nelle pagine di questo libro, trova ampio spazio. […]

La fine della guerra, nel 1945, pone agli esuli il problema del rientro in patria. Il primo a partire è André Masson, nel 1945. L’anno dopo rientrano in Francia anche Breton, Chagall, Léger. Persino Peggy Guggenheim ritiene ormai esaurito il suo compito: chiude Art of This Century, la sua galleria d’arte newyorkese, e torna in Europa.

Molti di loro hanno vissuto gli anni americani come un’interruzione, una parentesi, un’esperienza provvisoria. L’esilio ha significato, per loro, lasciare forzatamente la propria terra e, per questo, si sono sempre rifiutati di seppellire la propria lingua e, soprattutto, di parlare quella dell’America. Questo è il motivo per cui non c’è molto spazio, per loro, nel libro. […]

Altri, invece, vivono l’esilio come liberazione, come scelta, che significa anche l’abbandono della propria lingua e la richiesta di diventare cittadini di quel paese fino alla fine dei loro giorni. Questi artisti scelgono il luogo dove vogliono vivere e parlare una nuova lingua.

La pensa così Max Ernst. Germania, Francia, Stati Uniti: l’artista tedesco non si è mai fermato a lungo in un posto. La sua opera è indifferente ai luoghi nonostante il suo indomito nomadismo. In Francia si unisce al gruppo dei dadaisti, poi incontra Breton che parla del suo mondo fantastico e magico, elementi essenziali della pratica surrealista. Nell’esilio americano, Max Ernst mette a punto una nuova tecnica che chiama «oscillazione». Lascia gocciolare il colore da un contenitore, più precisamente da un barattolo forato, sospeso a una lunga cordicella che faceva oscillare con ampi movimenti sopra la tela.

L’oscillazione è dunque una tecnica pittorica innovativa che, se in un primo momento amplia il ventaglio di pratiche artistiche del Surrealismo, finisce poi per anticipare il drip-painting di Jackson Pollock, con il quale Ernst ha anche una breve ma intensa frequentazione.

Il caso di Max Ernst è particolare. L’artista rientra in Europa nel 1950 ma non torna in Germania, sua terra d’origine. Sceglie di vivere in Francia. Per lui l’esilio si è trasformato in un viaggio infinito senza ritorno. […]

Un altro capitolo interessante di questa storia ha a che fare con la diffusione negli Stati Uniti dell’insegnamento artistico di matrice europea, grazie al lavoro di artisti esuli che in Europa hanno rivoluzionato il sistema educativo dell’arte. Gli Stati Uniti li accolgono e li invitano in college e scuole d’arte per educare il pubblico americano ai principi dell’arte più avanzata. Per gli americani l’istruzione, la formazione e lo sviluppo delle capacità artistiche sono fattori di crescita democratica, economica e sociale. […]

Gli esiliati con i loro insegnamenti rivoluzionari hanno formato intere generazioni di artisti americani. È questo il senso della profonda trasformazione che ha segnato il sistema educativo statunitense in quegli anni e che arriva fino ai nostri giorni.

L’esodo intellettuale dall’Europa ha cambiato il volto culturale dell’America e, come scrive Edward Said, è in gran parte il prodotto di esuli, rifugiati, emigrati.»

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