
di Massimiliano Papini
Mondadori Università
È mai esistita un’arte romana?
«Foggeranno altri con maggiore eleganza spiranti bronzi, credo di certo, e trarranno dal marmo vivi volti, patrocineranno meglio le cause e seguiranno con il compasso i percorsi del cielo e prediranno il corso degli astri: tu, ricorda, o romano, di dominare le genti; queste saranno le tue arti, stabilire norme alla pace, risparmiare i sottomessi e debellare i superbi». Queste le parole profetiche nel discorso di Anchise al figlio Enea al termine della discesa agli inferi nel libro sesto dell’Eneide (vv. 847-853).
Le arti figurative non furono dunque sentite come una consuetudine ancestrale dai Romani, diffidenti a parole degli eccessi del loro godimento, un vano trastullo se disgiunto da finalità etiche: uno impazza in amori adulteri, uno nella pederastia, un altro è preso dallo splendore dell’argento e uno va in estasi per i bronzi, derideva Orazio in una satira (I, 4, 27-28) anche gli appassionati di opere d’arte. Quando nel 212 a.C. il conquistatore di Siracusa, M. Claudio Marcello, portò a Roma un bottino di guerra per rendere spettacolare il trionfo, nella ricostruzione che Plutarco (Marc. 21) delinea a distanza di più di tre secoli, un popolo abituato a combattere e a lavorare la terra nonché abitante in una città piena di armi barbare e di spoglie cruente non confacenti a una vita spensierata, si trovò davanti a quadri e statue capaci di procurare piacere agli occhi quali espressione di bellezza e fascino greco; gli fu rinfacciato di avere riempito Roma di inutili chiacchiere sull’arte che duravano giornate intere; ma il generale si vantò persino presso i Greci di avere insegnato ai concittadini a onorare e ad ammirare le loro belle opere! Per il poeta Porcio Licino, circa nello stesso periodo, nella seconda guerra punica (218-202 a.C.), la Musa con passo alato fece il suo ingresso tra la bellicosa e rozza gente di Romolo (Aulo Gellio XXI, 44). Tra il 196 a.C., anno della proclamazione della libertà dei Greci da parte di T. Quinzio Flaminino, e la distruzione di Corinto nel 146 a.C., i Romani conquistarono l’Ellade; ma poi «Graecia capta ferum victorem cepit et artes intulit agresti Latio» («la Grecia conquistata [dai Romani] conquistò il selvaggio vincitore e portò le arti nel rustico Lazio»), scrive Orazio nell’Epistola ad Augusto (vv. 156-157) in difesa della poesia contemporanea rispetto alla più antica, con una potente immagine riassuntiva da lui riferita agli anni dopo le guerre puniche: solo allora la civiltà contadina dei Romani si sarebbe rivolta agli scritti dei Greci, cominciando a chiedersi cosa mai avessero di bello un Sofocle, un Eschilo, un Tespi.
Le arti greche avevano però conquistato il rustico Lazio molto prima. Dalla fine del secolo IX a.C. in Italia le ondate di cultura greca furono periodiche, con differenti gradi di intensità: mediate o dirette che fossero, le influenze non furono passivamente subite, bensì adattate a tradizioni e a condizioni storiche e sociali degli ambienti ospitanti e riformulate. Furono quindi pervasivi anche moltissimi temi, forme e schemi iconografici attinti al patrimonio figurativo greco, lingua franca del Mediterraneo considerata più sofisticata e paradigmatica; lo furono a tal punto da motivare, da un certo momento in poi, anche il trasferimento diretto nell’Urbe di quadri e statue – e non solo – dalla Grecia e da portare al rafforzamento dei fenomeni di loro riproduzione in serie, già avviati nel clima delle tendenze culturali retrospettive di alcuni regni tardoellenistici, nonché all’adozione di immagini di saghe mitiche ed eroiche perlopiù greche nelle decorazioni. Proprio le modalità delle svariate relazioni con i modelli dell’arte greca, nei termini di equivalenza, continuità e scarto, hanno avuto conseguenze sulla valutazione dell’«originalità» di quella romana, asserita ossessivamente nella prima metà del Novecento. Eppure, per l’arte romana anzitutto non disponiamo di una storiografia artistica, con partizioni per artisti e «scuole», come si delinea invece sin dal secolo III a.C. nella letteratura greca specializzata nota in frammenti. Inoltre, in generale, e più in particolare in età imperiale, sembrano mancare fasi lineari e coerenti come – solo a prima vista – nell’arte greca; tuttavia, dal secolo IV al I a.C., l’individuazione di «sviluppi» in base al criterio semplicistico della conquista graduale di forme sempre più naturalistiche non funziona più, neanche per gli innumerevoli percorsi figurativi del mondo greco, ormai ampliatosi a dismisura, prima con le conquiste di Alessandro Magno e poi con i regni ellenistici; e dal secolo IV a.C. Roma entrò direttamente in contatto con diversi ambiti greci in Italia meridionale e in Sicilia e poi in Grecia. Il loro apporto basilare sin dalle origini emerge anche nella ricostruzione di uno storico greco di età augustea, Dionigi di Alicarnasso, le cui Antichità romane volevano dimostrare come tutti i gruppi che avevano collaborato alla nascita di Roma fossero stati di matrice greca, in ben cinque ondate migratorie. Tuttavia, Roma, città latina, fu sì grecizzata, ma non greca ed ebbe un’identità composita e plurale.
Nel 1953, negli splendidi Prolegomena allo studio dell’arte romana, lo storico dell’arte antica Otto J. Brendel notò: «ci aspetteremmo di trovare un’arte romana di importanza paragonabile alle imprese militari o all’amministrazione pubblica di Roma, elemento costitutivo basilare del suo famoso Impero, oppure alla letteratura latina di età classica che trasfuse nella struttura politica i propri contenuti spirituali. Quello che troviamo è, invece, un’arte fatta di correnti del tutto diseguali, di origine non ben definita, in bilico fra la ricezione di modelli greci secondo un gusto ‘neoclassico’ e un realismo ‘popolare’ spesso crudo, e che presenta come conseguenza ultima la rigidità di forme, in apparenza ‘anticlassica’, dello stile tardoromano». Nel passato, la Romanitas (termine mai attestato in latino), rilucente anche sotto – e malgrado – gli influssi greci e alimentata da componenti etrusco-italiche, fu cercata in opposizione alle maggiori tipicità e organicità dell’arte greca «classica». La concezione più autenticamente romana fu trovata nell’inclinazione «cronachistica» e in uno spirito più concretamente terreno che divino, più storico e attuale che mitico, insomma più utilitaristico (come quello espressosi nella costruzione di acquedotti, ponti, magazzini, terme) che dedito a una fruizione storico-artistica delle opere in senso odierno. Forze nuove e più vitali si sono individuate ora nelle decorazioni dei monumenti di Stato (il termine si riferisce alle committenze pubbliche, imperiali o senatorie), quali archi di trionfo e colonne onorarie, celebrative di eventi storici, di atti rituali e di esemplari virtù imperiali, ora in immagini dai contenuti romani e con forme in apparenza meno greche («arte popolare/plebea»), ora nel presunto «verismo» a volte spietato della ritrattistica nel secolo I a.C.. Già s’intuisce il peso eccessivo attribuito alla scultura a tutto tondo e ai rilievi da parte degli specialisti più interessati a teorie generali, che tutt’al più si curano anche della pittura, ma non di altre produzioni che da sempre svolgono un ruolo minimale o nullo in tali considerazioni. In verità, alla domanda «cosa c’è di propriamente romano nell’arte romana?» ogni risposta è abbastanza insufficiente; ma forse è l’interrogativo a essere mal posto, e perciò attualmente si preferisce eluderlo.