
Di quali riappropriazioni e/o distorsioni sono stati oggetto i discorsi sapienziali non filosofici?
In precedenza ho accennato a un esempio, il caso di Aristotele traduttore e ‘traditore’ degli Atomisti; è evidente che i discorsi sapienziali anteriori di cui Aristotele si appropria e che tradisce e/o distorce possono essere anche quelli che siamo abituati a considerare ‘filosofici’, ‘presocratici’: è davvero stimolante a questo proposito la lettura offerta nel volume da Lorenzo Miletti. Ma in Aristotele – e in quelle opere del corpus che anche se non aristoteliche sono per lo più oggi ricondotte alla sua scuola – i discorsi di sapienza sono davvero molteplici. Nella lotta agonale tra filosofia e discorsi sapienziali ‘non filosofici’ si instaura senza dubbio un rapporto di riappropriazione che inevitabilmente si configura come distorsione: questo è evidente nel meccanismo in cui lo abbiamo osservato, il meccanismo citazionale. Le caratteristiche che presiedono alla citazione sono ben presenti in ogni contributo del volume. Anche in questo caso il nostro Gruppo di Ricerca si era già interrogato sulla citazione nel mondo antico (Convegno di Lyon, 2002) e il tema è stato di frequente filo sotteso ad altri campi di indagine del Gruppo, dibattuti in incontri internazionali e pubblicati poi in volumi complessivi: in particolare penso al Convegno di Neuchâtel, dedicato a polemica, critica, allusione e intertesto (2000) o al Convegno di Toulouse sulla e sulle ‘autorità’ come elementi di costruzione di sapere e identità (2003). Aristotele citatore si apre – non a caso – con una citazione, anzi con una doppia citazione, che dà l’abbrivio alle nostre ricerche; l’idea di metafora, di trasporto, che la citazione veicola emerge da una considerazione di Antoine Compagnon, «Toute citation est – au fond ou de surcroît ? – une métaphore» (La seconde main, ou le travail de la citation, Paris 1979, 19); l’idea di tradimento che la citazione porta con sé è espressa in maniera felice da Charles Dantzig, che sottolinea uno dei molteplici aspetti della manipolazione, quello della sottrazione dal contesto e quindi dal discorso di partenza: «D’une certaine façon, toute citation est malhonnête, car elle extrait une phrase d’un ensemble dont le rythme et les contrastes contribuent à lui donner une valeur» (Dictionnaire égoïste de la littérature française, Paris 2005, 179). In generale ogni logos, ogni discorso di sapienza – tutti i contributi del volume lo sottolineano – per il semplice fatto di essere citato, trasportato dal suo contesto di partenza, subisce una distorsione che si configura in primis come una sottrazione; il citatore inoltre de-contestualizza e ri-contestualizza nel suo discorso discorsi ‘altri ‘guidato da un suo preciso interesse, sia che esso si riveli un intento polemico sia un intento di condivisione: è inevitabile comunque registrare un cambio di prospettiva. Ma altrettanto importante è rilevare, come già ben osservato da Antoine Compagnon (1979, 56), che vi è spesso ambivalenza, collusione, con-fusione tra ‘attivo e passivo’; alle volte tra il discorso citato – anche in forma di allusione – e il discorso che lo richiama si configura una autentica osmosi. Penso per esempio al caso delle osservazioni sulla collera nel secondo libro della Retorica (1378a 26ss.), in cui riecheggiano le parole di Achille del canto 1 e del canto 9 dell’Iliade. Del resto – rimando per questo alla lettura del saggio di Catherine Darbo-Peschanski in apertura del volume-, una tale con-fusione è determinata da quella vicinanza tra filosofia e poesia che Aristotele riconosce in virtù del fatto che quest’ultima si relazioni con il generale e l’universale.
Quali somiglianze e quali scarti è possibile ravvisare tra la “fonte” e l’uso fattone dallo Stagirita?
Prendo le mosse da quanto abbiamo appena osservato: ogni meccanismo di ri-appropriazione si attiva in modi diversi tra testo e contesto. Torno quindi ancora una volta sull’esempio del rapporto tra Omero e Aristotele, tra il sapere ‘poetico’ e il sapere ‘filosofico’. Il modo di accostarsi a un medesimo discorso o un medesimo testo – per Aristotele il rapporto con la parola scritta è cruciale –, tra somiglianza e scarto, varia notevolmente. Ho ricordato una con-fusione tra Omero e Aristotele sulla natura e sulle ragioni della collera tra l’Achille iliadico del canto 9 e le riflessioni della Retorica, ma non possiamo dimenticare per esempio l’uso distorto della celebre citazione tratta dal discorso di Fenice del medesimo canto 9 dell’Iliade: qui Fenice parla di uomini che rifiutano i valori del sangue, del divino, della condivisione di un focolare che è fulcro dei rapporti tra il presente e il proprio passato e futuro, a livello di famiglia e di comunità, in un passo non semplice per gli stessi commentatori del poeta (Il. 9, 63). Nella Politica (1253a 1ss.) Aristotele sceglie di ricorrere a questa citazione, in un discorso politico, e in un contesto di grande solennità: siamo all’inizio del trattato, e qui il filosofo accumula differenti citazioni, da Euripide, Esiodo, Omero (Odissea 9, 114-155, sul ferino mondo dei Ciclopi, e Iliade 9, dal discorso di Fenice) e forse ancora Euripide.
Ebbene, tutte queste citazioni considerate nei loro contesti poetici originali non si adattano o si adattano poco al discorso che Aristotele sta avviando nella Politica; da una acuta analisi di questo denso passo di apertura, offerto da Marina Polito, risulta evidente che Aristotele è consapevole della distanza che separa le sue citazioni dal nuovo contesto in cui le inserisce e in cui esse acquisiscono per sua volontà un differente significato. Non a caso, infatti, quando la medesima situazione dell’Odissea ritorna nell’Etica Nicomachea (Odissea 9, 114-115 e EN 1180a 25-29), Aristotele si preoccupa invece di chiosarla ed esplicitare il valore originario della citazione trasportata nel suo nuovo contesto.
Potrei fare ancora numerosi esempi, ma mi limito a ricordare un aspetto del complesso e variegato rapporto tra il logos tragico e Aristotele: se consideriamo la dinamica tra ‘fonte’ e citatore nella Retorica, emerge con ogni evidenza come in Aristotele il rapporto con i poeti tragici si traduca in un innesto di versi e di vicende nel mondo concettuale del filosofo. Lo mostra molto bene il saggio di Silvia Gastaldi: le citazioni dei poeti tragici di V e IV secolo non ricorrono con scopi esornativi, non ricorrono con forza di autorità, ma sono funzionali al logos del filosofo, alla costruzione dei sillogismi retorici, gli entimemi.
In che modo il sapere anteriore di Omero passa attraverso Aristotele citatore?
Il volume ha permesso di fare il punto sui molteplici campi del sapere in cui Aristotele si confronta con il padre della cultura greca: politica, retorica, scienze, solo per citarne alcuni. Mi rendo conto di aver fatto frequente riferimento a Omero nelle mie precedenti risposte e questo non è casuale: la presenza della poesia, in particolare della poesia omerica, è cruciale in Aristotele citatore. Omero per i Greci rappresenta il padre culturale, è il collante della loro identità, un riferimento irrinunciabile, anche se talora è discusso, come avviene in molte culture; per Aristotele, inoltre, Omero è poesia e in quanto tale rappresenta l’universale ed è maggiormente prossimo al logos filosofico rispetto alla storia. Non stupisce quindi che il logos omerico – ma aggiungerei anche il logos esiodeo, il cui statuto fondante e sapienziale è paragonabile – si trovi rappresentato nelle opere aristoteliche in testi e contesti di poetica e di retorica, ma anche in testi e contesti molto diversi: penso alla presenza dei canti omerici nella Politica, di cui ho già detto, e al ruolo rilevante che l’epos, l’Iliade, l’Odissea e anche Esiodo, assume all’interno del corpus zoologico di Aristotele, alla Historia Animalium o al de Generatione Animalium.
In tutta l’opera di Aristotele non troviamo che due sole menzioni di Aristofane, mentre Omero e i tragici sono citati decine di volte: come si spiega il ruolo marginale di Aristofane nell’opera di Aristotele?
Una premessa: Aristotele citatore ha permesso di approfondire ulteriormente il tema del mancato rapporto citazionale fra Aristofane e Aristotele, mettendo in luce sottili significative analogie che paiono collegare la Poetica di Aristotele con la commedia di Aristofane nei criteri di interpretazione della poesia tragica che il poeta offre nelle Rane: ci sono stimolanti suggestioni nel saggio di Valeria Melis. È indubbio, tuttavia, che allo stato delle nostre conoscenze la posizione di Aristofane appaia davvero marginale: due sono le menzioni di Aristofane come autore nel corpus aristotelico; il suo nome poi compare una terza volta: Andrea Capra ha analizzato i passi in questione, avanzando una condivisibile interpretazione di fondo che qui cerco di sintetizzare. Se iniziamo a guardare alle due menzioni di Aristofane in quanto poeta comico, possiamo cogliere alcuni preziosi indizi per comprendere le ragioni dello statuto di marginalità di Aristofane. Nella Poetica (1248a 24-29) Aristotele è accostato a Sofocle, ma tale avvicinamento sfocia a ben vedere in un movimento drasticamente opposto, un distanziamento: Omero e Sofocle – afferma infatti Aristotele – imitano persone serie; Aristofane, come Sofocle, imita persone che agiscono. È chiaro che Aristotele qui esprime attraverso la vicinanza tra Sofocle e Aristofane una antitesi, preparata poco prima dalla convergenza sul tema del serio tra Omero e Sofocle. Anche se il pensiero non viene espresso apertamente in modo pieno, Sofocle e Aristofane sono entrambi autori di teatro, ma solo il teatro di Sofocle è serio. Questo apparente accostamento tra Sofocle e Aristofane è quindi denso di conseguenze per il poeta comico. L’altra menzione da considerare è contenuta nel terzo libro della Retorica (1405b 28-33); Aristotele si rifà alle opere di Aristofane per descrivere l’uso degli ipocorismi, ovvero di ciò che, come dice il filosofo, rende minore tanto il bene quanto il male. A questa definizione di ipocorismo si accompagna una raccomandazione alla cautela nell’impiego di simili artifici: ancora una volta, nell’una e nell’altra direzione chi parla è esortato a mantenere il metron, la misura. Anche in questo caso quindi Aristofane non appare esemplare, o per meglio dire, appare un esempio da non seguire. Il nome di Aristofane compare ancora una volta, nella Politica, ma è l’Aristofane personaggio, autore nella Repubblica di Platone di un celebre discorso su Eros. Molteplici sono le ragioni che spiegano la diffidenza di Aristotele nei confronti di Aristofane; di certo, il primo pensiero di un moderno è interpretare le radici di un atteggiamento cauto e circospetto verso il comico a partire da un diverso giudizio sul pubblico: è una motivazione plausibile, anche se non ricopre probabilmente le ragioni più profonde di tale diffidenza. Senza dubbio Aristotele e Aristofane sono mossi da una diversa angolazione con cui guardano alla doppia fruizione degli spettacoli comici; come il poeta stesso fa dire al coro nelle Ecclesiazuse (1154-1157), Aristofane è consapevole che una parte del pubblico apprezza la sua sapienza, mentre un’altra ama gli scherzi volgari delle commedie ed è disposto per tali ragioni a riconoscergli la vittoria sugli avversari. Aristofane non ha espressioni di disdegno per questa parte dei suoi ascoltatori, mentre Aristotele nella Politica pare esprimersi in modo meno lusinghiero nei confronti di chi ha gusti bassi e deve esser accontentato con rappresentazioni e spettacoli adatti a lui (1342a 26-29). Ma con ogni probabilità è da rintracciare sul terreno del mythos la lontananza tra Aristofane e Aristotele: il filosofo, per cui la fruizione del ‘testo’ poetico è anche – sebbene non solo – libresca, non trova nelle commedie del poeta tratti universali in una trama unitaria e coerente, ma giochi verbali, paratragedie, metateatro. Del resto, se la paratragedia – nelle modalità in cui pare affermarsi nella commedia di mezzo, successiva ad Aristofane – appare nel complesso prossima all’universale poetico, non così avviene per i meccanismi paratragici a livello di lexis, un tratto distintivo della commedia aristofanesca che Aristotele non avrebbe certo apprezzato e accettato. Non stupisce quindi che quando si tratta, nella Poetica, di sunteggiare una storia della commedia Aristotele taccia su Aristofane e citi invece un suo rivale, Cratete, e lo citi per tratti opposti a quelli di Aristofane, per aver ‘lasciato perdere la forma del giambo’ e per aver composto ‘myhtoi e storie di valore universale’. E non stupisce quindi che nella terza e, per quanto a noi risulta, ultima menzione di Aristofane nel corpus, la già ricordata ricorrenza nella Politica, Aristofane compaia proprio con quei tratti di abbandono del giambo da una parte e di interesse per una prospettiva universale dall’altra: è l’Aristofane personaggio, la creazione di Platone, nella sua mutata forma e nella sua nuova universalità, la probabile ragione che consente anche la (scarsa) presenza nel corpus di Aristotele di Aristofane poeta.
Elisabetta Berardi (Università di Torino) si occupa di letteratura greca di età imperiale, con particolare riguardo alle dinamiche tra retorica e filosofia tra I e II sec. d.C. e al Fortleben del Gorgia e del Fedro platonici; su questi argomenti ha pubblicato numerosi contributi. Ha inoltre ha tradotto e commentato nella nostra lingua opere di Elio Aristide e Dione di Prusa. Con Maria Paola Castiglioni, Marie-Laurence Desclos e Paola Dolcetti ha fondato e dirige presso le Edizioni dell’Orso la Collana di Studi interdisciplinari sul mondo antico Sophia.