“Archivisti al lavoro” di Massimo Scandola

Dott. Massimo Scandola, Lei è autore del libro Archivisti al lavoro. La tradizione documentaria a Verona nei secoli XVII e XVIII, tra chiesa, monastero e officio edito da Jouvence: qual è l’importanza di Alessandro Canobbio nella storia dell’archivistica?
Archivisti al lavoro Massimo ScandolaVi ringrazio di darmi l’opportunità di divulgare queste ricerche di storia del documento italiano, degli archivi e di diplomatica d’età moderna, perché ci svelano la storia di un tipo di professione, come quella dell’archivista, come lo fu Alessandro Canobbio nella seconda metà del Cinquecento, o meglio degli archivisti in Antico Regime. Molto spesso costoro furono scrivani, copisti pratici di diritto, notai colti, monaci o talvolta anche monache dotte che lavorarono spesso in equipe negli scrittoi urbani civili ed ecclesiastici. Dobbiamo pertanto calarci in un mondo completamente diverso dal nostro, con riferimenti giuridici e culturali oggi lontani e difficilmente comprensibili all’uomo d’oggi.

L’attività del notaio Alessandro Canobbio (†1608) a Verona prende avvio in un’epoca importante per la storia della documentazione e per la storia archivistica più in generale. Alessandro Canobbio fu un notaio veronese nato negli anni trenta del Cinquecento. La sua biografia in parte è nota ed è stata studiata nel Nocevento. Infatti il Dizionario Biografico degli Italiani gli dedica una voce dettagliata. Fu un poligrafo e uno storiografo. Tra le sue numerose mansioni, ricoprì quella di segretario di Niccolò Ormaneto che fu vescovo di Padova e fu nunzio apostolico in Spagna alla corte di Filippo II. Alessandro Canobbio sistematizzò le pergamene dell’archivio del Capitolo della cattedrale di Verona, fra il 1589 e il 1590, e modellò le raccolte documentarie di numerosi altri archivi urbani. Diede un “imprinting”, diremo oggi, agli archivi cittadini. L’attività del notaio Canobbio non nasce in modo, per così dire, “spontaneo”, ma si inserisce in un contesto ricco e molto più ampio. Egli metteva mano a nuclei documentari che già avevano una loro fisionomia risalente all’età bassomedievale, per cui a questi modelli si ispirò. Anche se oggi risulta difficile identificarli e tante ricerche sono in corso. Poi c’è indubbiamente, il contesto istituzionale e storico della sua epoca. Alla fine del Cinquecento, la necessità di archivi ben ordinati fu accolta da Sisto V, papa dal 1585 al 1589, che riformò la Curia romana e predispose alcune norme sulla conservazione delle scritture; anche se, per avere una vera legislazione, bisognerà attendere il Settecento. Soprattutto, con Alessandro Canobbio, ci collochiamo alle soglie del Seicento, quando vengono pubblicati i primi trattati sugli archivi e sulla loro natura; penso a Baldassarre Bonifacio (1585-1659) e al suo De Archiviis (1632).

L’attività di Alessandro Canobbio risulta importante nel contesto veneto perché il suo lavoro impresse alla documentazione cittadina un “metodo” o uno stile di conservazione che durò, con modifiche e riprese, per tutto l’Antico Regime e fu imitato dai suoi successori archivisti. Nella mia ricerca ho tentato di rincorrere le committenze del notaio e ho provato a ricostruire una “biografia documentaria” di Alessandro Canobbio a partire dalle sue reti di scrittura e di lavoro. Il suo, e quello degli archivisti che si susseguirono fra Seicento e Settecento che non sono meno importanti, è un metodo che segue i criteri del tempo: è innanzitutto “materiale”, perché distingue le pergamene (i “rotoli”) dai documenti in fascicolo (che venivano più spesso chiamati all’epoca “processi”, ma questo termine non deve trarci in inganno) e dai registri. Queste pratiche evocavano quella distinzione fra il “tesoro” di uno scrittoio (che doveva conservare i documenti più antichi come gli atti fondativi, le bolle papali, i diplomi imperiali ma anche le semplici compravendite o i testamenti) e le scritture d’uso corrente.
Poi, soprattutto, e insisto su quest’aspetto, il suo è un metodo “notarile”, cioè si fonda sull’evidenza dei caratteri formali della documentazione e sulla conoscenza giuridica di quest’ultima. Durante l’Antico Regime, Canobbio diventa una sorta di ‘nume tutelare’ per i notai archivisti veronesi incaricati di produrre e organizzare le scritture delle cancellerie urbane, laiche o ecclesiastiche durante il Seicento e il Settecento. Lo stesso Scipione Maffei lo ricorderà come archivista nella sua Verona Illustrata (1725).
Credo che sia interessante ricordare che Alessandro Canobbio e poi anche il figlio Federico, non furono i soli archivisti degni di nota. Furono, piuttosto, i “primi” di tante e varie dinastie di notai, copisti e scrivani che si tramandarono l’officio di archivista di padre in figlio e giocarono una funzione fondamentale nella diffusione del sapere prima giuridico (che veniva imparato nella scuola dei notai), poi documentario e infine erano i vettori di diffusione di una vera e propria pratica di lavoro. Una pratica che non finì trascritta su un manuale o su un trattatello, ma che rimase impressa nei proemi (che sono quello che oggi potremmo chiamare “introduzione”, “premessa” o “avvertenza” al lettore) agli inventari d’archivio.
Sono certo che lo spoglio della documentazione urbana di altri contesti italiani possa far emergere tanti altri notai che hanno modellato le raccolte di numerosi scrittoi cittadini, pertanto sono certo che la ricerca futura ci potrà riservare altri “Canobbio”.

La Sua ricerca ha per oggetto le raccolte documentarie veronesi: quali sono le fonti da Lei indagate e quali evidenze ne ha tratto?
Questa ricerca è maturata nel contesto della scuola dottorato in “Archeologia e Storia del Medioevo. Istituzioni e Archivi” dell’Università di Siena; pertanto è una ricerca che si è protratta per tre anni e ha portato alla redazione di una tesi, che è stata rielaborata e poi pubblicata in questo libro con Jouvence. Per poter imbastire e organizzare la ricerca ho utilizzato tipologie diverse di documentazione. Ho consultato documentazione conservata in Archivio di Stato di Verona, di Venezia, di Padova, di Milano, di Roma, dell’Archivio Segreto Vaticano, dell’Archivio Storico del Monastero di Camaldoli, della Biblioteca Capitolare di Verona e della Biblioteca Civica della stessa città e di altre biblioteche e archivi sparsi in Italia.
In generale, ho utilizzato fonti per lo più trascurate dalla storiografia. Innanzitutto, per comprendere le modalità di sistemazione delle scritture dalla fine del Cinquecento al Settecento, ho fatto ampio uso della documentazione a registro: in particolare, ho studiato i repertori d’archivio, cioè i “catastici delle scritture”. Il termine “catastico” è un termine dell’archivistica veneta e indica il registro di grande formato: può trattarsi di un cartulario, di un repertorio descrittivo dei diritti che può anche contenere documentazione cartografica (in questo caso si parla di un ‘catastico dei beni’) o di un inventario d’archivio.
In una seconda fase, per comprendere come funzionavano le reti di scrittura, cioè come agissero i notai negli scrittoi monastici e quali fossero i loro rapporti con le altre cancellerie urbane e centrali, ho approfondito le pratiche di redazione dei cartulari d’età moderna e ho identificato le fasi di formazione dei registri. Questi registri infatti sono costituiti molto spesso da vari fascicoli redatti in momenti diversi fra Seicento e Settecento e poi assemblati da un redattore finale. I cartulari d’età moderna restano una fonte poco studiata, al contrario dei cartulari medievali che sono spesso l’oggetto di ricerche esemplari, ampie e davvero interessanti. Così, a partire dalla documentazione ho compreso com’era organizzato il lavoro negli scrittoi: quali equipe di notai vi lavorassero, quali interazioni vi fossero fra le equipe di notai e le committenze e come le equipe si organizzarono. Il lavoro non si svolgeva solamente nell’archivio, cioè nello “scrittoio interno” (come talvolta veniva chiamato), ma anche nella “cancelleria” del monastero e molto spesso i copisti e gli scrivani dovevano consultare documenti di altre cancellerie cittadine o realizzare delle “missioni” a Venezia presso le magistrature centrali della Repubblica per difendere diritti o cercare documenti da copiare per attestare una giurisdizione o un beneficio. A ben vedere, il problema delle equipe di notai al lavoro era principalmente quello di produrre documentazione autentica capace di far valere vari diritti nei banchi dei tribunali delle magistrature civili ed ecclesiastiche. Questa necessità provocò un lavoro febbrile che durò fino alla fine dell’Antico Regime. Si disputarono vere e proprie “guerre formali”, come le chiamò un avvocato copista dell’epoca in una lettera indirizzata a un importante prelato a Venezia.

Sulla scorta dei notai al lavoro negli scrittoi ecclesiastici, ho cercato poi le evidenze formali, le somiglianze e le dissonanze fra la documentazione redatta nei monasteri e quella prodotta nelle cancellerie cittadine da uno stesso notaio archivista o dalla sua equipe di lavoro. Per inquadrare questi processi nel loro contesto storico e istituzionale, ho consultato varia documentazione prodotta dal Senato veneto e dalle magistrature veneziane nel XVII e nel XVIII secolo e numerosi altri provvedimenti in forma di lettera che raggiunsero i vari scrittoi della terraferma veneta.
Infine, ho indagato un altro aspetto interessante e cioè il rapporto fra la coeva storiografia e le “cronache con documenti” di Sei e Settecento e i racconti di fondazione redatti dai notai in apertura di un cartulario d’età moderna o di un inventario d’archivio. Questi racconti, a volte brevi altre volte lunghi, rinviavano certamente a prassi remote.
Tutte queste fonti sono state interpretate alla luce dei metodi della diplomatica e della storia della documentazione e degli archivi. E ne ho tratto varie conclusioni interessanti. Innanzitutto, dalle carte è uscito un mondo vivace di scrivani al lavoro altamente alfabetizzati: notai, ma anche praticanti di studio e copisti di varia estrazione che lavorarono incessantemente con cellari, camerlenghi e abati; e, poi, risulta evidentissimo il ruolo giocato dalle scrivane, cioè dalle monache incaricate della pratica di scrittura durante tutto l’Antico Regime. Tutti questi attori condividevano una “cultura” professionale chiara: un background, diremo oggi, di tipo “notarile” che era come una “cassetta degli attrezzi” dove trovare le risposte per la risoluzione alle questioni di difesa dei diritti. In questo modo la produzione delle scritture era strettamente legata alla sua conservazione. Inoltre, Venezia e le sue magistrature centrali giocarono, dalla metà del Seicento in poi, un ruolo fondamentale nella diffusione delle forme dei documenti e nella creazione di nuove forme documentarie.

Quali caratteristiche specifiche possiedono le fonti documentarie veronesi e qual è la loro storia?
Questa domanda è davvero interessante, perché ci permette di muoverci, come in una macchina del tempo, dal contemporaneo all’Antico Regime, facendo salti indietro di qualche secolo e poi in avanti; salti che solo che nei libri di storia sono possibili. Più che altro, ci permette pure di rilevare come quel Canobbio di fine Cinquecento sia in effetti attuale per vari motivi che ora vedremo insieme. Certamente, gli echi di quelle antiche pratiche documentarie si sono protratti fino quasi alla fine dell’Ottocento e ad oggi.
Per rispondere, posso spiegare quali caratteristiche hanno le fonti documentarie veronesi che ho utilizzato. Per lo più sono le fonti documentarie di quel grande serbatoio archivistico che è la sezione delle “Corporazioni religiose soppressse” dell’Archivio di Stato di Verona (e anche degli altri citati prima, ma principalmente di quest’ultimo). L’Archivio fu istituito nel 1941, quando i complessi documentari veronesi lasciarono i depositi della Biblioteca Civica. Le “Corporazioni religiose soppresse” sono una grande sezione archivistica che assembla i fondi dei monasteri e dei conventi maschili e femminili del medioevo e dell’età moderna.
Le fonti sedimentatisi nella sezione delle “Corporazioni religiose soppresse” dell’Archivio di Stato di Verona hanno una storia complessa che risente delle soppressioni monastiche avvenute dal Seicento fino all’età napoleonica. Nella storia moderna vi furono varie soppressioni. La documentazione delle soppressioni monastiche seicentesche oggi si trova per buona parte all’Archivio Segreto Vaticano, perché era conservata negli uffici della cancelleria della Nunziatura di Venezia, per cui dall’Ottocento ha seguito la storia di quelle carte. La documentazione dei monasteri soppressi negli anni settanta del Settecento fu destinata agli uffici delle magistrature veneziane al momento della soppressione. Quando durante la Restaurazione vennero istituiti i giacimenti archivistici veneziani, quella documentazione fu conservata all’Archivio dei Frari e fu trasferita all’Archivio di Stato di Verona nel 1964. Invece, la documentazione dei 56 monasteri soppressi in età napoleonica (1807-1810) giacque in buona parte nelle soffitte dei palazzi veronesi, o negli archivi del Demanio, dove rimasero probabilmente fino al decennio a cavallo dell’Unità d’Italia. Al contrario, secondo i dettami del tempo, i pezzi più antichi e più pregevoli furono destinati dall’amministrazione napoleonica alla Pubblica libreria di San Sebastiano (che poi sarà la Biblioteca Comunale e che oggi è la Biblioteca Civica).
Durante questi travagliati momenti della storia documentaria e archivistica, i fondi persero la fisionomia originaria. È una storia comune a tanti complessi documentari italiani.

Oggi la fisionomia dei fondi di questa ricchissima sezione è il frutto di una sedimentazione, direi, ottocentesca. Più precisamente, questo processo di salvaguardia del patrimonio documentario si colloca in un arco temporale che va dal secondo Ottocento al 1920. Un ruolo importante di grande valorizzazione e di salvaguardia della memoria documentaria fu svolto dalla generazione di archivisti e bibliotecari attivi negli anni in cui si compì l’Unità d’Italia, quando nella Biblioteca Comunale fu istituito un complesso di fondi chiamato “Antichi Archivi Veronesi” (1869). Gli archivisti ottocenteschi rispettarono il principio di provenienza dei fondi e per ogni singolo fondo mantennero quella distinzione antica fra “pergamene”, “registri” e “fascicoli” (cioè i “processi”) che possiamo trovare ancora oggi.
Questa distinzione tardo ottocentesca che accomuna un po’ quasi tutti i fondi veronesi rispecchia, almeno in parte, quel modello più risalente di conservazione documentaria che era messo in pratica in Antico Regime e che aveva visto in Alessandro Canobbio uno dei primi fautori in ambito veneto.
Riflettendoci, credo che queste ricerche siano più che mai attuali perché lo sono i dibattiti contemporanei sulla salvaguardia in generale dei documenti d’archivio. Per di più ci inducono a riflettere sulla funzione giocata più in generale dal documento oggi come allora. Sul peso che hanno le forme della documentazione nella società civile : come garante di diritti e prova giuridica. Infatti, i documenti da cui prende origine questo studio, oggi sono, evidentemente, ‘fonti storiche’ per cui patrimonio culturale; ma allora furono il perno su cui si sostenevano le istituzioni e la società del tempo.

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