“Archivi d’impresa. Gestione documentale e valorizzazione: il contesto digitale” di Paola Ciandrini

Paola Ciandrini, Lei è autrice del libro Archivi d’impresa. Gestione documentale e valorizzazione: il contesto digitale, pubblicato da Editrice Bibliografica: quale importanza riveste, per un’azienda, il suo archivio?
Archivi d’impresa. Gestione documentale e valorizzazione: il contesto digitale, Paola CiandriniÈ il DNA di ogni impresa: quanto il DNA è una catena di elementi e informazioni governati da relazioni, tanto l’archivio possiede una forza di coesione e relazione fra gli elementi che lo compongono. Questa forza in archivistica è definita vincolo, il legame necessario, involontario e originale fra i documenti, così come è originale, involontario e necessario il legame fra le basi azotate del DNA.

Archivio è un nome collettivo che indica una pluralità di elementi fra loro in relazione, elementi che possono essere prodotti, acquisiti, gestiti sia in un contesto tradizionale – puramente analogico – sia in un ambiente ibrido o addirittura interamente digitale.

Indipendentemente dalla sua natura tradizionale, ibrida o digitale, il “sistema archivio” ha sana e robusta costituzione se soddisfa due presupposti: consentire la formazione, la registrazione e la gestione di documenti autorevoli, nel rispetto delle relazioni che li aggregano quali componenti del DNA aziendale, e consentire, nel corso del tempo, la tutela e la valorizzazione dell’identità dell’impresa, per finalità di studio, ricerca e promozione. Il “sistema archivio” concilia prospettive maieutiche ed ermeneutiche: organizza e sedimenta documenti per la gestione corrente di beni, servizi, patrimoni e processi ed è anche uno strumento di ricerca, da descrivere e tutelare per finalità storiche e di valorizzazione dell’identità dell’impresa.

Nel libro tratto il significato di archivio di impresa per i non addetti ai lavori, gli studenti e le imprese che vogliono iniziare un percorso di consapevolezza archivistica sulle fonti d’impresa, con l’obiettivo di fornire spunti di indagine su principi, metodi, contesto di transizione digitale, scelte organizzative, operative e descrittive dedicate al DNA aziendale, l’archivio. L’intenzione è proporre una lettura non squisitamente dedicata a metodi e prospettive di descrizione, riordinamento e promozione degli archivi storici, ma alla centralità di una consapevole gestione documentale e promozione delle fonti storiche in un percorso di rinnovamento e di transizione digitale.

Quale percorso ha caratterizzato la formazione degli archivi d’impresa?
È importante una premessa: ogni archivio in formazione nasce contestualmente all’attività di un soggetto produttore. In archivistica il concetto di soggetto produttore indica qualsiasi entità – ente, famiglia, persona – che nello svolgimento della propria attività produce, organizza, usa e conserva un complesso di documenti. Gli archivi d’impresa nascono contestualmente alle imprese, si pensi alla necessità delle “proto-imprese” di governare il proprio patrimonio, per esempio attraverso le registrazioni di entrate e uscite. Cito un caso italiano: l’azienda vitivinicola Ricasoli – che nel marchio riporta l’anno 1147 ed è collegata da secoli al castello di Broilo, nel comune senese di Gaiole in Chianti – è fra le dieci imprese più antiche al mondo e ancora in attività. La storia patrimoniale della famiglia Ricasoli è testimoniata da un complesso documentale conservato in parte dagli eredi e in parte da istituti afferenti al Ministero della Cultura: il solo Archivio di Stato di Firenze custodisce 2746 buste e registri, datati tra XIV e XX secolo, e 475 pergamene risalenti a un esteso arco cronologico, dall’anno 1167 al 1807. I giornali contabili, gli inventari di beni, i carteggi e gli atti notarili mostrano genesi, evoluzione, possedimenti, sviluppi di quell’antica impresa: attraverso l’archivio possiamo indagare, per esempio, la storia delle esportazioni, dalle prime occasioni risalenti alla fine XVII secolo verso Amsterdam e l’Inghilterra sino al posizionamento strutturato nel mercato internazionale dagli inizi del Novecento. E l’impresa, ancora oggi attiva, quotidianamente cura e mantiene un archivio vivo: mutatis mutandis, oggi come allora si industria per tutelare, organizzare e conservare evidenze documentali.

Qualche numero: il portale tematico del SAN Sistema Archivistico Nazionale dedicato agli archivi d’impresa – www.imprese.san.beniculturali.it – registra al 2021 le descrizioni di 2.770 complessi archivistici e 2.309 soggetti produttori “impresa”. Questo è uno dei frutti dell’imponente opera di ricognizione che è stata condotta e sollecitata dalle Soprintendenze. A partire dalla metà degli anni Ottanta in alcune fra le maggiori imprese italiane pubbliche e private – basti citare FIAT e Ansaldo per il comparto meccanico, accanto a ENI, Italgas ed Enel per quello energetico e a SIP e Italcable per le telecomunicazioni – sono germogliate iniziative di descrizione dedicate agli archivi storici, iniziative che di fatto hanno facilitato il compito di vigilanza delle Soprintendenze, sostenendo le prospettive di conservazione e valorizzazione del patrimonio archivistico delle imprese. La sensibilità culturale in questo campo è aumentata, condizione che ha coinvolto anche realtà della piccola e media impresa.

In pochi passi ho offerto qualche spia dell’impatto degli archivi storici d’impresa, ma che dire degli archivi in formazione? Con il controllo dei flussi documentari e informativi le imprese possono ottenere benefici, in termini di riduzione dei costi e di aumento di efficienza gestionale: le imprese che coltivano questa consapevolezza sono propense a investire in tecnologie e persone. Le ricognizioni ISTAT lo dimostrano: come analizzo nel volume, i dati manifestano la centralità degli investimenti dedicati al records management, le imprese adottano politiche e strumenti per agevolare le modalità di formazione, gestione e conservazione di documenti, autorevoli per forma e sostanza, in un contesto digitale. Più le imprese si muniscono di una “cassetta degli attrezzi” in tema di gestione documentale, meglio governano le performance, tutelando il proprio DNA: la gestione documentale è anche questo, uno strumento di governo, controllo, organizzazione e pianificazione. Non dimentichiamo che ogni archivio permette di condividere risultati, problemi, decisioni, tanto in senso sincronico, quanto in una prospettiva diacronica. In questa ottica un’impresa che non adotta strategie per la formazione, la gestione e la conservazione del proprio archivio rischia di perdere il proprio know how. E oggi il knowledge management è tra gli elementi che conferiscono valore all’impresa: è la “memoria delle ragioni” che hanno condotto a scelte, strategie, azioni.

Come si sono evolute le loro principali tipologie documentarie?
Un esempio, il libro giornale. La storia del libro giornale come prova in caso di controversie contabili risale ai commerci veneziani del XV secolo, ma la sua formalizzazione è attribuibile al Codice di commercio di terra e di mare pel Regno d’Italia, traduzione del codice di commercio di Napoleone I del 1807: «Ogni commerciante è in obbligo di tenere un libro giornale in cui siano inscritti giorno per giorno i suoi debiti e crediti, le operazioni del suo commercio, le sue negoziazioni, accettazioni o girate di cambiali, e generalmente tutto quanto riceve e paga a qualunque titolo» (art. 8 del Codice di commercio di terra e di mare pel Regno d’Italia, Milano, dalla Stamperia Reale, 1808, in vigore dal 1° settembre 1808 al 1815). Ancora oggi il Codice civile ripropone lo stesso strumento («Il libro giornale deve indicare giorno per giorno le operazioni relative all’esercizio dell’impresa», art. 2216 del Codice civile così sostituito dall’art. 7 bis del D.L. 10 giugno 1994 n. 357, convertito con L. 8 agosto 1994 n. 489) e insiste sulla rigorosa registrazione quotidiana e sulla possibile organizzazione in partizioni, definite libri sezionali e corrispondenti alle articolazioni dell’impresa. I libri giornali contemporanei non si discostano per sostanza dai registri medievali, ma propongono supporto e struttura diversi: sono database, termine lasco che enfatizza uno strumento informatico con regole di strutturazione e compilazione dati. Indipendentemente dalla sua natura cartacea o digitale, il libro giornale deve essere conservato per un minimo di dieci anni dalla data dell’ultima registrazione e, in ogni caso, sino alla definizione dell’accertamento relativo al corrispondente periodo d’imposta. Lo stesso trattamento vale per il libro degli inventari, il registro dei beni ammortizzabili, i registri previsti ai fini Iva – fatture, corrispettivi e acquisti – e le scritture contabili ausiliarie di magazzino.

Qualche altro rapido esempio. Dalla stipula del contratto sino alla cessazione del rapporto di lavoro, ogni documento che testimonia il percorso lavorativo di un addetto d’impresa confluisce in una “molecola”, il “fascicolo di persona”, un’unità logica che rappresenta il rapporto impresa-addetto. Sono questi i casi più ricorrenti di fascicoli ibridi, aggregazioni logiche di documenti in parte cartacei ab origine, in parte digitali, per conversione o per primigenia formazione. Dalla fine del XIX secolo la gestione e la protezione del lavoratore hanno regolamentato alcune tipologie documentarie definite obbligatorie: il libro matricola, per esempio, censiva tutti i prestatori d’opera, con la registrazione delle ore lavorate, l’indicazione degli eventuali straordinari e l’ammontare della retribuzione, corrisposta in denaro o come benefit. A partire dal 1994 un regolamento ha formalizzato l’uso di “supporti elettronici e magnetici” per la tenuta dei libri matricola e paga e dal 2009 è stata introdotta una semplificazione per le imprese, il LUL, Libro unico del lavoro.

Oltre alle tipologie documentarie relative alla contabilità, all’amministrazione patrimoniale e alla gestione del personale, l’archivio di impresa testimonia le espressioni del settore produttivo: appartengono a questa vasta categoria gli studi preparatori, le analisi di laboratorio, la manualistica per il funzionamento di macchine e tecnologie dedicate alla filiera produttiva, le registrazioni delle caratteristiche dei prodotti e, naturalmente, i prodotti, con le annesse campagne fotografiche e pubblicitarie, con i relativi packaging. Questo elenco restituisce solo in parte l’eterogeneità e la ricchezza di ciò che definiamo archivio d’impresa: appartengono al DNA aziendale anche la corrispondenza con le reti di vendita, le fatture, i cataloghi, i listini prezzi e la pubblicità. Pensiamo al connubio fra imprese e disegnatori industriali, fotografi, copy e art, solo per citare alcune fra le professionalità coinvolte: anche in questo contesto tutto scorre verso percorsi di digitalizzazione.

Quali buone pratiche sono raccomandate per l’archivio in formazione?
Per rispondere a questa domanda parto da un’immagine, che reputo evocativa perché legata a un imprenditore. Nel 1904 l’industriale Adolphe Stoclet affida a Gustav Klimt il fregio per la sala da pranzo della sua villa di Bruxelles: con la committenza di un imprenditore nasce il celebre mosaico dell’albero della vita. Non è un caso se il simbolo dell’Associazione nazionale archivistica italiana è un albero come omaggio alla rappresentazione degli archivi di qualsiasi tempo e natura: ogni archivio evoca il DNA del soggetto che l’ha prodotto ed è il risultato di forze aggreganti fra le sue componenti, i documenti, che si relazionano in fascicoli, che a loro volta compongono serie documentarie. Un albero, articolato in rami e foglie. Mai uguale, se pur assimilabile a soggetti produttori affini.

Nel contesto italiano di ambito pubblico esistono regole e strumenti per la formazione dell’archivio, in primis il piano di classificazione, definito anche titolario: senza ricorrere a definizioni classiche, possiamo considerare il titolario come una tassonomia che rappresenta le funzioni del soggetto produttore e che serve per organizzare i documenti prodotti e ricevuti nel rispetto di uno schema gerarchico funzionale prestabilito. La classificazione è un’azione obbligatoria per le pubbliche amministrazioni, che devono rigorosamente adottarla nel sistema di protocollo e provvedere alla formazione di fascicoli: ciascuno di noi, almeno una volta nella vita, si è imbattuto in documenti ricevuti da una qualche amministrazione pubblica in cui è visibile un indice di classificazione, l’indicazione del fascicolo e il numero di protocollo. Ecco, se l’albero è l’archivio e i rami rappresentano lo schema di ordinamento, i fascicoli sono le fronde erbose, le foglie: le unità logicamente indivisibili che aggregano documenti, anche diversi per contenuto e forma, ma che condividono lo stesso indice di classificazione.

In ambito privato non esistono obblighi per l’adozione di uno schema di classificazione né di un piano di fascicolazione, ma ogni impresa interessata ad attuare con consapevolezza e lungimiranza azioni di gestione documentale può adottare questi strumenti, veri e propri dispositivi di governo organizzativo e prestazionale. Come redigere un piano di classificazione e come stabilire regole per la fascicolazione? Con metodo, studio e competenza applicata: individuare come rappresentare le funzioni di un soggetto produttore attraverso un piano di classificazione è fra le più complesse attività dell’archivista e del records manager. Per questo le imprese dovrebbero coinvolgere professionalità esperte non solo per iniziative di tutela e promozione del proprio archivio storico, ma anche per impostare regole e prassi per l’archivio in formazione: un’impresa che adotta un sistema informatico per la gestione documentale senza dotarsi di schema di classificazione e regole di fascicolazione corre il rischio di rendere evanescente l’investimento.

A ogni impresa servono strumenti gestionali pensati e realizzati da esperte teste e competenti mani, servono regole in grado di soddisfare tutti gli aspetti squisitamente teorici e prepotentemente pratici della gestione documentale e della managerialità aziendale. Chi più investe in progettualità, più guadagna in risultato: il prezzo di un sistema di gestione documentale non indica il suo effettivo valore né il grado dei risultati che può ottenere. È la qualità progettuale e operativa che incide sui risultati, insieme con le regole e gli strumenti adottati. Non esiste una panacea digitale che offra immediate soluzioni di gestione documentale, ma esistono alcune ricette e precisi ingredienti, culturali, metodologici, progettuali e operativi: fra questi ingredienti spiccano il piano di classificazione, il piano di fascicolazione e il piano di conservazione.

Non solo: è importante per le imprese ragionare sui requisiti dei documenti. Se un’impresa predispone un contratto e desidera che quel contratto abbia forma digitale, deve valutare quali formati e firme elettroniche utilizzare, deve considerare l’opportunità, o l’obbligatorietà, di una validazione temporale; se un’impresa produce una fattura elettronica, quel documento deve possedere forma e requisiti indicati dalla normativa vigente ed essere conservato per il tempo necessario in un adeguato sistema, tecnologicamente attrezzato e normativamente riconosciuto. Nelle imprese dobbiamo attrezzarci per attuare strategie di progettualità documentale in cui politiche, regole e processi condivisi siano in grado supportare sia il lavoro sia la formazione e la cura del bene archivio, con attenzione tanto all’interezza della complessa molecola archivio, quanto al rispetto dei requisiti dei singoli atomi, i documenti.

Come è possibile rendere accessibile a pubblici differenziati il bene culturale archivio?
Come la descrizione è l’azione primaria per la tutela e la fruibilità degli archivi storici, così l’organizzazione rappresenta l’architrave per un archivio in formazione. Ogni addetto di un’impresa è prosumer, è produttore e consumatore di documenti e informazioni e come tale partecipa alle attività dell’impresa in relazione alle sue mansioni, contribuendo alla sana e robusta costituzione dell’archivio in formazione: se l’impresa adotta idonee strategie e idonei strumenti, come illustrato nella precedente risposta, allora pone le basi per l’accessibilità interna del “bene archivio”.

Spostiamoci ora dal concetto di archivio come bene per l’impresa, all’archivio d’impresa come “bene culturale”: quando un archivio privato è dichiarato di interesse culturale, ai sensi dell’art. 13 del Codice dei beni culturali e del paesaggio, è sottoposto a tutela e diventa un “bene culturale” della collettività. È in conformità alla normativa di tutela che si perseguono le azioni dedicate alla conservazione, alla fruizione e alla valorizzazione del patrimonio culturale: tutelare, in primis, significa descrivere, cioè sapere cosa, quanto, come e dove. Creare strumenti di ricerca – dai censimenti agli inventari analitici – è la condizione di base per consentire la fruibilità dei beni culturali archivi: senza descrizione, nessun accesso è possibile, fisico o virtuale che si voglia.

Gli strumenti di ricerca hanno, però, un limite: utilizzano un linguaggio spesso comprensibile solo a un pubblico di addetti ai lavori, studiosi e specialisti. Captare l’attenzione di pubblici diversi significa saper declinare descrizioni prodotte con grammatica e lessico comprensibili a quel target mirato – i fruitori dei rigorosi strumenti di ricerca, indipendentemente dalla loro fruizione cartacea oppure on line – per mezzo di strategie che rendano comprensibili e, perché no, accattivanti quei contenuti a differenti target e al pubblico generico.

Le imprese sono fra i protagonisti, attivi e passivi, del patrimonio culturale italiano: pensiamo al villaggio operaio di Crespi d’Adda nel bergamasco oppure al complesso eporediese Olivetti, oggi definiti da UNESCO patrimoni dell’umanità e rispettivamente sorti nel 1878 e nel 1896 per volontà di due imprenditori, Cristoforo Benigno Crespi e Camillo Olivetti. Due esempi di un complesso e articolato sistema dei beni culturali collegati all’impresa, in cui anche gli archivi storici hanno – e agiscono – un ruolo fondamentale.

In tema di linguaggi differenziati per pubblici diversi, segnalo Nel tempo di una storia, fra gli esempi descritti nel volume, un’iniziativa realizzata da Museimpresa, la rete di archivi e musei fondata a Milano nel 2001 per iniziativa di Assolombarda e Confindustria. In occasione del ventennale, Museimpresa ha promosso un racconto per immagini: il progetto sfrutta l’immediatezza e la caducità di storie Instagram – realizzate con gli scatti realizzati da Simone Bramante, in arte Brahamino – per esprimere gli imperituri valori della cultura d’impresa e della creatività del “made in Italy” attraverso luoghi, documenti e oggetti, celebrando archivi e musei di impresa. Un altro esempio di disseminazione archivistica, sempre promosso da Museimpresa, è il film Newmuseum(s). Stories of company archives and museums: in un racconto di quarantacinque minuti, il progetto – realizzato nell’ambito della XVII settimana della cultura d’impresa – ha svelato archivi e musei d’impresa, indagando su tutela e valorizzazione delle storie aziendali e sugli strumenti, digitali e non, di comunicazione a servizio degli archivi. Il film, che ha raggiunto un vasto pubblico per formazione e interessi, è stato proiettato nel gennaio 2019 al Parlamento europeo. Questi sono solo alcuni esempi di comunicazione e disseminazione di archivi come beni culturali, azioni che ne amplificano l’accessibilità stimolando interesse e approfondimenti.

Quali sfide pone agli archivi d’impresa il processo di digitalizzazione?
Navighiamo fra due arcipelaghi: la navicella dell’ingegno documentale d’impresa – guidata da regole di settore, da diktat normativi e da policy aziendali – si muove costantemente dal sistema di formazione a quello di conservazione degli archivi. E il tragitto verso un approdo fidato è impervio se affrontato senza sestante, carte nautiche e condottieri, ovvero regole, strumenti e responsabili incaricati.

Documenti e fascicoli sono destinati a un preciso periodo minimo di conservazione, stabilito dal contesto normativo e dalle politiche interne dell’impresa: la condizione è estremamente delicata anche in relazione al Regolamento generale per la protezione dei dati personali (GDPR) ed è evidente per alcune categorie, per esempio la documentazione fiscale o quella comprensiva di dati personali o sottoposta a procedimenti legali. Terminati gli obblighi per le finalità amministrative, giuridiche e probatorie, non siamo ancora liberi da incombenze: dobbiamo riflettere sulla tutela del DNA aziendale, come bene storico per finalità di ricerca.

Per affrontare queste sfide dobbiamo osservare le oscillazioni dell’ago della bilancia che misura due pesi: efficienza e sostenibilità. In un contesto di transizione digitale, un lungimirante e concreto progetto archivistico d’impresa dovrebbe adottare regole e strumenti per la formazione, l’organizzazione e la conservazione di documenti e delle loro relazioni considerando una logica di sistema che rifletta tanto sui risvolti gestionali ed economici, quanto sugli aspetti sociali – interni ed esterni all’impresa – e sui derivati impatti ambientali. Dalla teoria alla pratica, qualche esempio estremo: se gestiamo in un ambiente digitale il libretto unico del lavoratore, precedentemente citato, e l’ufficio del personale stampa periodicamente la situazione dell’addetto per organizzarla in un fascicolo cartaceo, abbiamo realmente risparmiato carta oppure abbiamo consumato più energia e più cellulosa? Se chiediamo di ricevere mezzo PEC documenti informatici e poi all’interno dell’impresa quei documenti sono sia conservati in forma digitale sia stampati e conservati su carta, non usiamo forse più spazio, fisico e virtuale, e non affrontiamo più costi? E se non formalizziamo e adottiamo regole per la formazione, la gestione e la tenuta dei documenti, chi opera nella nostra impresa non è forse stremato e disorientato dall’assenza di punti di riferimento per il recupero e la sedimentazione di evidenze documentali? Un’impresa si dimostra responsabile non solo se adotta strategie di sostenibilità per la filiera produttiva, ma se adopera anche comportamenti consapevoli sui sistemi documentali e sulle strategie di appraisal dei documenti, la selezione e lo scarto. Per quest’ultimo aspetto è evidente il divario culturale tra la consapevolezza dimostrata in un contesto analogico tradizionale e quella applicata in un contesto digitale: la prima sfida consiste nel creare cultura.

Solo l’attivazione di un consapevole progetto di gestione documentale consente una concreta transizione digitale – locuzione che pare un bisticcio di termini tra tangibilità e immaterialità – in grado di abbattere sprechi, migliorare processi e supportare le persone. È una intelligente reingegnerizzazione dei processi che porta alla semplificazione, non una mera trasposizione di percorsi analogici in un contesto digitale. Proviamo a riflettere su due termini: dematerializzazione e digitalizzazione. A cavallo fra fine Novecento e anni Duemila, il termine dematerializzazione diventa il claim per “togliere materialità” e porta a un profluvio di prodotti e servizi spesso discutibili da un punto di vista scientifico, archivistico e diplomati stico, ma sempre accattivanti in tema di impatto ecologico. Pensiamo alle promesse di risparmio associate all’abbattimento dei costi di stampa, archiviazione, trasmissione, condivisione e facilità d’accesso per i documenti sottoposti a de materializzazione. Molte di quelle soluzioni offrivano una “s-materializzazione puntiforme”: non era rivolta ai processi, ma coinvolgeva soltanto l’evidenza finale, il documento che da carta passava a un supporto intangibile, reso desiderabile dal ritornello “meno carta, più alberi”, una semplificazione di cura ambientale che fece leva su molte coscienze e molte tasche. Oggi è di moda un’altra parola: digitalizzazione, termine dal significato lasco e spesso nebuloso. Siamo sufficientemente maturi – come imprese, pubbliche amministrazioni e individui – ad attuare politiche e azioni di digitalizzazione senza correre il rischio di attribuire a scelte di gestione documentale solo un’etichetta di tendenza, senza provvedere a percorsi digitali attuati con metodo, sapienza e coscienza? Come ho già espresso, non esiste una panacea digitale che offra immediate soluzioni di semplificazione e di sostenibilità ambientale, economica e sociale, ma esistono alcune ricette e precisi ingredienti, culturali, metodologici, progettuali e operativi.

In che modo l’archivio può contribuire a valorizzare l’identità aziendale?
Se intendiamo l’identità come quell’insieme di caratteristiche che rendono un individuo unico e inconfondibile, ogni archivio è un unicum: ogni archivio rappresenta l’identità – e il DNA – di un’impresa. In questo confronto tra domande e risposte il leit motiv identità-archivio emerge in ogni passaggio. Adottare buone prassi archivistiche, tanto per l’archivio in formazione quanto per l’archivio storico, diventa un’azione alleata dell’imprenditore: consente di fornire strumenti per l’organizzazione dei processi, per la qualità delle prestazioni, per l’affidabilità dei comportamenti. L’archivio diventa strumento di affermazione.

Pensiamo a quanto le imprese investono nel design e nella comunicazione di prodotti e servizi: le liaison fra Olivetti e Ettore Sottsass e Jean-Michel Folon, fra Campari e Fortunato Depero e Marcello Dudovich, quest’ultimo coinvolto anche da Fiat e Pirelli; oppure al legame fra Lagostina e Osvaldo Cavandoli, fra Benetton e Oliviero Toscani, oppure ancora al sodalizio di Claudia Morgagni con Esso e Montedison, agli incarichi affidati da Mondadori e la Rinascente ad Anita Klinz e Lora Lamm. E come non ricordare il marchio Eni disegnato da Luigi Broggini, accompagnato dalla frase “il cane a sei zampe fedele amico dell’uomo a quattro ruote”, firmata dal regista Ettore Scola. E ancora i caroselli di ieri e di oggi: le battute di Ernesto Calindri e la musica di Elio e le Storie Tese per Cynar, le espressioni di Nino Manfredi e George Clooney per Lavazza.Le testimonianze di questi processi creativi dedicati all’advertising si rintracciano negli archivi d’impresa, dai quali è possibile estendere e approfondire la ricerca. Come scrivo nel libro, parafrasando un celebre claim, studiamo contro il logorio della vita moderna, perché dove c’è archivio, c’è storia. Dove c’è archivio d’impresa, c’è identità di impresa.

Paola Ciandrini, archivista di formazione e professione, è curatrice del progetto Ibridamente e docente della Scuola di Archivistica Paleografia e Diplomatica degli Archivi di Stato di Milano e Bologna e del Master FGCAD dell’Università di Macerata. Ha collaborato con Archivi di Stato, ANAI, Osservatori di innovazione digitale del Politecnico di Milano, Soprintendenze Archivistiche e Bibliografiche e altre realtà pubbliche e private. Le sue linee di ricerca sono dedicate alla progettazione di sistemi di gestione documentale, alla valorizzazione di archivi storici e alle analisi in tema di innovazione digitale applicata agli strumenti di lavoro per archivisti e records manager. Con Editrice Bibliografica ha pubblicato nel 2021 Archivi d’impresa. Gestione documentale e valorizzazione: il contesto digitale (2021).

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