
L’analisi dell’organismo a corte non si esaurisce (nonostante l’enorme importanza del tema) in una lettura dei processi edilizi ed urbani del passato in quanto esso, come dimostrato da alcuni studi sul tema di G. Strappa, è stato alla base di moltissime ricerche dell’architettura moderna che hanno visto maestri come Mayer o Hilberseimer cimentarsi con uno dei caratteri più significativi della casa a corte, il recinto. Ed è proprio sull’aggregazione di abitazioni strutturate sulla nozione di recinto che si sviluppano i quartieri di Bishopsfield in Gran Bretagna o di Trappfonstret in Svezia, fino ad arrivare ad interventi del tutto contemporanei come Patio Island di MVRDV o gli alloggi a Menorca di Ferrer Fores. Ed è proprio negli interventi di tessuti a patio che si sperimentano anche tutti quegli accorgimenti legati alla sostenibilità che questa struttura contiene come carattere intrinseco della sua morfologia.
Come si sono sviluppate e diffuse le strutture a corte?
Le strutture a corte hanno origine insieme ai primi gesti che l’uomo compie quando inizia ad antropizzare il territorio. Queste strutture infatti si basano sulla nozione di recinto che di fatto costituisce, insieme alla copertura, una delle prime trasformazioni tettoniche della materia in materiale. Il recinto rappresenta il primo atto di appropriazione di un territorio e sulla base di quest’ultimo si definisce la struttura delle trasformazioni che l’uomo imporrà a quella porzione di natura. Allo stesso modo la casa a corte nasce a partire dal recinto lungo il quale si attesterà il costruito a formare uno spazio abitativo del tutto introverso, a definire quindi una corte aperta che distribuirà i singoli ambienti aggregati in maniera seriale seguendo la struttura del recinto.
In effetti gli organismi abitativi basati sulla nozione di recinto sono talmente generici ed allo stesso tempo flessibili che sono stati in grado di diffondersi notevolmente su tutto il pianeta, a prescindere dalle differenze sociali, culturali o religiose. Ne sono importanti esempi: la domus romana diffusa su tutto il territorio dell’impero, la Siheyuan cinese che pur mantenendo la stessa morfologia della prima rispondeva a dettami culturali e religiosi di tutt’altra origine o le strutture legate ai modi abitativi del centro America Azteco e Maya.
La diffusione della casa a corte non è un fatto esclusivamente culturale ma antropico così come lo è la misura della cellula di base che si aggrega all’interno del recinto. Non si tratta cioè di questioni solo costruttive, climatiche o religiose, la ragione dell’enorme diffusione di questa struttura va cercata nell’uomo stesso e nella sua attitudine ad abitare lo spazio costruito.
Nel Suo testo, Lei propone un modello teorico di città dimostrativa: quali ne sono significato e limiti?
La città dimostrativa è stata per me una verifica importante di ciò che si andava concretizzando durante lo svolgimento della ricerca sul processo formativo e di trasformazione delle strutture a corte. Sono un architetto e come tale non posso fare a meno di figurarmi gli spazi che studio o analizzo. Durante la lettura di quei processi e l’analisi dei risultati conseguenti alle trasformazioni, si innescavano collegamenti alle problematiche attuali legate alle modalità di vita dello spazio urbano contemporaneo: per esempio, lo studio della tabernizzazione o l’analisi della insulizzazione delle domus diventavano l’occasione per operare un collegamento diretto e logico alla varietà tipologica, funzionale, al co-housing, e a molti di quei temi che fanno parte della ricerca sull’housing più all’avanguardia.
Ho iniziato la ricerca nel 2009 dopo un viaggio in latino-America che mi ha fatto scoprire il fascino delle casas de patio, queste antiche strutture che ruotano intorno ad uno spazio interno e segreto, fulcro da cui si espande l’intera casa. Pensavo che la ricerca mi avrebbe condotto a riproporre una forma contemporanea di questo organismo abitativo in cui si mantenesse intatto il valore della corte ed allo stesso tempo l’abitazione potesse essere vissuta in forma contemporanea (senza dover uscire all’aperto ogni qualvolta si volesse cambiare stanza e mantenendo una aero-illuminazione diretta per ogni ambiente). Attraverso lo studio dei processi formativi e di trasformazione però mi sono resa conto come questa struttura sia in grado, soprattutto in forma aggregata, di definire spazi e relazioni urbane estremamente complesse e variegate e che pertanto analizzarla solo alla scala edilizia sarebbe stata una limitazione eccessiva.
La città dimostrativa nasce quindi dalla necessità di verificare le potenzialità che si andavano mostrando a mano a mano che il processo formativo di questa straordinaria struttura mostrava nuovi risultati. Il suolo virtuale del modello nasce per mettere insieme quelle espressioni del processo che insieme non sono mai state, date le loro manifestazioni diacroniche o diatopiche. La città dimostrativa è di fatto una sorta di esperimento in vitro che tenta di elaborare un modello artificiale in grado di verificare la relazione tra espressioni urbane, frutto di necessità differenti ma unite dal tentativo di riadattarle ad esigenze necessariamente contemporanee. Come ogni modello la città dimostrativa, pur tentando di simulare la realtà urbana, di fatto non sarà mai la realtà; essa è il frutto di semplificazioni e ipotesi di processo che non possono essere provate né dimostrate. Il vero test per la città dimostrativa non può che essere la realtà urbana e solo l’esperimento su tessuti reali potrà dimostrarne il valore, per il momento resta un’ipotesi in cui ho tentato di verificare “concretamente” la “vitalità del processo formativo delle strutture a corte”.