“Archeologie del contemporaneo. Paesaggi, contesti, oggetti” di Giuliano De Felice

Prof. Giuliano De Felice, Lei è autore del libro Archeologie del contemporaneo. Paesaggi, contesti, oggetti, edito da Carocci: cosa vuol dire, per un archeologo, indagare la modernità?
Archeologie del contemporaneo. Paesaggi, contesti, oggetti, Giuliano De FeliceLeggere con occhio stratigrafico i secoli successivi al Medioevo vuol dire innanzitutto portare in avanti un limite cronologico determinato più da consuetudini e tradizioni che da motivazioni scientifiche. Non esiste infatti un momento della storia in cui diventa impossibile studiare la materialità del passato, sia da un punto di vista logico che metodologico, tanto che ormai da parecchi decenni l’archeologia si occupa anche dei periodi successivi al Medioevo, applicando con successo all’indagine dei secoli più recenti tecniche e metodi sviluppati per lo studio dell’antichità. Nel mondo accademico italiano questo lungo periodo storico che corrisponde con i secoli dell’età moderna e contemporanea è ancora inglobato nella definizione di Post-medioevo, ma l’idea di affrontare archeologicamente la modernità e la contemporaneità come un periodo ben definito e dotato di una sua specifica identità si sta oggi espandendo rapidamente anche in Italia.

Il processo di definizione di un’archeologia dell’età moderna e contemporanea è iniziato già nella seconda metà del secolo scorso con l’affermarsi dell’archeologia industriale: un’archeologia attenta al lascito materiale della rivoluzione industriale che, se da un lato ha intuito l’importanza epocale dell’industrializzazione come elemento peculiare degli ultimi secoli, dall’altro non è riuscita a estendere la sua visione a tutti gli aspetti che caratterizzano quel periodo, dalla globalizzazione alla produzione di massa, concentrandosi invece più sull’analisi e sulla rifunzionalizzazione di impianti industriali abbandonati. Oggi invece si inizia a capire come l’estrema complessità del mondo moderno e contemporaneo richieda un’archeologia aggiornata nelle strategie d’intervento, nelle metodologie d’indagine, nelle tecniche di analisi; un’archeologia che sappia elaborare ricostruzioni articolate e diacroniche e valorizzare le relazioni fra oggetti, rovine e ogni tipo di traccia disponibile per contestualizzarle nella dimensione del paesaggio.

Quali problemi ha dovuto affrontare l’archeologia da quando ha cominciato a studiare la materialità dei secoli più recenti?
L’archeologia non può che essere la stessa, sia che si occupi di Preistoria che di XXI secolo: è la disciplina che promuove lo studio delle interazioni fra esseri umani e ambiente attraverso le fonti materiali. L’unitarietà dell’approccio scientifico e di quella mentalità analitica e diacronica che la caratterizza non esclude tuttavia che a livello operativo qualcosa cambi, non fosse altro che per l’estrema diversità delle scale temporali, e soprattutto per la distanza estremamente ravvicinata fra ricercatore e oggetto di studio che contraddistingue l’archeologia del contemporaneo. Così come indagare la materialità della Preistoria è un’operazione che richiede metodi simili ma non identici a quelli dell’archeologia classica, allo stesso modo il riconoscimento e l’interpretazione delle tracce delle attività umane in un mondo industrializzato e globalizzato quale è quello degli ultimi secoli non può seguire pedissequamente le categorie valide per i periodi precedenti. La cronologia diventa necessariamente globale, e così il bacino geografico di riferimento, al punto che le categorie di classico, medievale e post-medievale, ma anche il punto di vista eurocentrico e mediterraneo, non reggono più per interpretare le tracce e ricostruire paesaggi vasti come l’intero pianeta: industrializzazione, migrazioni, marginalità e conflitti, non possono spiegarsi se non in una prospettiva-mondo.

Nei secoli più recenti, inoltre, cambia radicalmente il sistema di fonti che l’archeologo ha a sua disposizione. Aumentano le fonti scritte, documentarie e grafiche, e si aggiungono tipi inediti, come le fotografie, i video e le registrazioni audio. Sono fonti straordinarie che nella metodologia archeologica possono diventare vere e proprie unità stratigrafiche, da interpretare e sistematizzare in una periodizzazione coerente, ma che la crescente virtualizzazione causata dalla rivoluzione digitale rende estremamente volatili.

Quali sono le “periferie” dell’archeologia?
Il libro inizia con una metafora, volutamente azzardata, che immagina l’archeologia come una città: un organismo vivente, abitato, costruito per lo studio del passato, in cui esistono anche delle periferie. Il ‘viaggio’ proposto nel volume avviene appunto in queste periferie. La cronologia recente è la prima ad essere affrontata. Il contemporaneo è un luogo in cui l’archeologo si avventura con qualche difficoltà: nello studio degli ultimi secoli sembra ovvio pensare infatti che l’archeologia non serva, perché ci sono altre fonti, ad esempio, o perché non ci sono resti, od oggetti che possano suscitare interesse per un archeologo.

Altre periferie sono metodologiche: come abbiamo detto nessuno mette in dubbio l’universalità delle tecniche di indagine dell’archeologia attuale, frutto di una costante evoluzione durata decenni, e di una raffinata articolazione che copre un campo vastissimo che va dall’informatica alle bioscienze, dalla geologia al remote sensing. Tuttavia, la presenza di fonti nuove, cui abbiamo già accennato, pone il problema di un loro inquadramento nella cassetta degli attrezzi dell’archeologo, e di un loro utilizzo ai fini della ricostruzione materiale del passato recente.

Cosa può fare l’archeologia per uscire dal dualismo forzato che vuole che tutto ciò che è antico abbia importanza e ciò che è moderno sia invece degrado?
Il corollario che la decisione di indagare archeologicamente i secoli dell’età contemporanea porta con sé è l’esistenza di un patrimonio archeologico del contemporaneo. Oggi non può più esistere un’archeologia senza patrimonio, ma i metodi di riconoscimento, di valorizzazione e presentazione devono essere aggiornati, e allargati, per includere anche contesti e paesaggi che normalmente tendiamo a trascurare o a vivere come disturbo, rispetto a una realtà antica che ci piace immaginare come un ideale cui tendere, un modello da riproporre, un paesaggio da restituire.

Le ultime periferie che si esplorano nel libro sono infatti quelle patrimoniali, dove il concetto di valore normalmente attribuito dall’archeologia sembra non esserci più. Se i siti e gli oggetti non sono antichi, non sono belli, non sono rivendicati come propri da nessuno, è davvero difficile immaginare l’esistenza di un patrimonio archeologico perché non ci sono concetti universali per definirlo. Eppure il patrimonio archeologico del contemporaneo esiste: non è, per fare un esempio, antico, né sepolto, sembra incombere nei nostri paesaggi sotto forma di rovina o di degrado, ma spesso va solo riconosciuto.

Di questo patrimonio è infine importante, ma molto difficile, identificare le comunità, ovvero quei gruppi di persone che possono essere interessate alla loro protezione e valorizzazione e che la Convenzione di Faro considera strategiche per le nuove politiche patrimoniali europee. È qui, nell’allargamento critico del concetto di patrimonio che il contemporaneo visto dall’archeologia esprime il suo fascino e il suo significato più profondo.

Giuliano De Felice è professore associato di Archeologia dell’età moderna e contemporanea e di Archeologia digitale presso il Dipartimento di Ricerca e Innovazione Umanistica dell’Università degli studi di Bari ‘Aldo Moro’. Ha partecipato e diretto numerosi progetti di ricerca su contesti archeologici che spaziano dall’età classica al passato contemporaneo. Fra le sue pubblicazioni più recenti: Archeologia di un paesaggio contemporaneo. Le guerre del Novecento nella Murgia pugliese (Bari 2020) e, con Andrea Fratta, Ordona XIII. Dalla città fantasma alla città virtuale (Bari 2021).

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