
In che modo l’archeologia è oggi in grado di conoscere, prevedere e raccontare quanto non è visibile dalla superficie anche senza scavare?
Questa possibilità è apparsa ben chiara agli archeologi fin da prima della metà del secolo scorso, con le prime importanti esperienze nell’ambito della fotografia aerea, e ulteriormente concretizzatasi con l’applicazione delle tecniche geofisiche e delle più recenti possibilità offerte dal remote sensing satellitare e aereo (lidar, scanner aviotrasportati, droni) all’analisi di siti e paesaggi antichi, spesso totalmente sepolti e non visibili dalla superficie. La geofisica in particolare, focus del volume, rappresenta una delle maggiori rivoluzioni dell’archeologia dell’ultimo mezzo secolo, che ha contribuito a un nuovo modo di praticare la ricerca. In tutti i casi, le tecniche geofisiche e di telerilevamento, permettono l’acquisizione di informazioni relative al sottosuolo, compresa dunque l’archeologia in esso nascosta, attraverso la misura effettuata a distanza (da remoto), ovvero senza entrare in contatto con il terreno e per questo non distruttiva, delle sue proprietà fisiche o spettrali. Le ultime sofisticate evoluzioni delle varie tecniche esistenti offrono come esito vere e proprie immagini della realtà sepolta, che possiamo considerare alla stregua di “radiografie” di quanto non percepibile all’occhio umano, e che, nei casi migliori, rappresentano un eloquente strumento dal grande valore informativo e comunicativo.
Quali tecnologie e strumenti per l’indagine di paesaggi, siti e monumenti negli ultimi anni hanno visto un intenso sviluppo?
Fin dalle prime applicazioni della geofisica alla ricerca archeologica, le tecniche geoelettriche, georadar e geomagnetiche hanno dimostrato le loro potenzialità e poi conosciuto una costante evoluzione e un impiego dalla crescita esponenziale. L’ultimo decennio è stato poi caratterizzato dall’introduzione di sistemi di ultima generazione che impiegano dispositivi multisensore o multiantenne, spesso autotrainati e automatizzati: innovazioni tecnologiche che si traducono nella concreta possibilità di mappare con grande velocità aree di grande estensione, il tutto con un dettaglio di misura e precisione di rilevamento senza precedenti. E, se vogliamo, anche con l’opportunità di risparmiare tempo e fatica, rispetto magari ai grandi maestri e pionieri della disciplina che ci hanno preceduto, che meritano la nostra più sincera ammirazione anche per le minori possibilità a loro disponibili. Aggiungendo alla geofisica una più ampia considerazione legata alle tecniche di rilievo e di rilevamento topografico, fotogrammetrico e aerofotogrammetrico, e all’invenzione delle più recenti tecniche scanner e lidar aviotrasportati (anche da drone), le opportunità di documentare monumenti, siti o interi territori sono di facile comprensione, con la possibilità di adottare scale di analisi differenti e di adattare metodi e tecniche ai più diversi scopi e targets di lavoro.
Quale importanza acquisisce in questa procedura lo scavo?
Come è facile intuire, e dati gli anni di ricerca e studio dedicati a queste modalità di indagine non invasiva del sottosuolo, credo molto nel loro impiego in archeologia e ho imparato a conoscerne e ad apprezzarne le grandi potenzialità per scoprire siti, documentarli, interpretarli. Ma ho anche capito che ci sono contesti complicati e difficili, dove il loro utilizzo sistematico diventa limitato e necessita, maggiormente, di un approccio integrato. In generale ritengo che lo scavo debba sempre far parte della più corretta pratica da adottare, non solo per quanto già detto sulla vera essenza della ricerca archeologica, ma anche perché, andando verso una nuova archeologia che promuove la valutazione preventiva con implicazioni metodologiche, conservative ed etiche, lo scavo fa parte del “gioco”. È una pedina essenziale perché offre la possibilità di verificare, magari a campione e in modo circoscritto, quanto raccolto e ipotizzato sulla base della diagnostica. Il confronto tra l’informazione ottenuta dal non scavo e lo scavo permette allora di affinare le reciproche letture e interpretazioni, e di attivare così un virtuoso meccanismo di progressiva e sempre più approfondita conoscenza di entrambi i dati.
Quali tappe hanno segnato l’evoluzione delle tecniche non invasive?
Ripercorrere le tappe della disciplina dell’archeologia senza scavo è tanto coinvolgente quanto complicato, perché nonostante la relativamente giovane età di questa linea di ricerca, le esperienze di pionieri e ricercatori sono tante, riguardano obiettivi e contesti geografici variegati, e sono tutte importanti. Provando a farlo, in estrema sintesi, parlando di geofisica archeologica, credo si possano riconoscere tre momenti fondamentali. Una prima fase, dagli anni ‘40 agli ‘60, con le prime applicazioni delle tecniche di resistività elettrica e geomagnetica condotte tra Inghilterra, nord Europa e Stati Uniti, e la precoce presa di coscienza che la rilevazione strumentale delle proprietà fisiche dei terreni poteva rispondere anche alle esigenze di mappatura territoriale con finalità archeologica. A tal proposito restano emblematiche le esperienze presso il sito neolitico di Dorchester on Thames, nell’Oxfordshire (Big Rings Henge) o nella Chiesa di Bruton a Williamsberg, in Virgina (USA), a cui hanno fatto seguito tante altre sperimentazioni tra cui mi fa piacere ricordare, per l’Italia, l’importante attività della Fondazione Lerici.
Una seconda fase, tra anni ’70 e ’90, con il perfezionamento di metodi e strumenti (gli anni ’80 vedono anche l’ingresso della tecnica georadar) e con applicazioni archeologiche che cominciano ad acquisire consapevolezza e a muoversi verso la mappatura estensiva e l’integrazione di tecniche differenti, che permette una caratterizzazione più dettagliata e completa del sottosuolo. Da qui l’avvio di ambiziosi progetti che riservano spazio e fiducia ai metodi geofisici in particolare, e al telerilevamento in generale, certamente favorito dalla comparsa e diffusione dei sistemi GIS e di posizionamento satellitare.
L’ultima fase può essere fatta coincidere con il nuovo millennio, dunque gli ultimi venti anni della nostra storia, caratterizzata dai nuovi e più evoluti sistemi di prospezioni automatizzata e autotrainata, oltre che dall’avvento delle micro e nanotecnologie che hanno reso ancora più sofisticate le tecniche alla base dei sistemi, favorendo la capacità di acquisizione in termini di risoluzione e dettaglio di misura e lettura. Questo nuovo momento però è segnato anche da una nuova consapevolezza degli archeologi verso l’impiego controllato di queste possibilità, che non perde mai il fuoco sul fine reale della comprensione e ricostruzione storica e archeologica, e che si interroga piuttosto su come gestire al meglio quanto ottenibile dall’evoluzione tecnologica. Sono oramai tanti i siti archeologici, anche tra i più famosi (vedi Stonehenge), che continuano ad essere “riscoperti” grazie alle nuove e rinnovate modalità di indagine e le sperimentazioni offerte da tecniche sempre più perfezionate, e la cosa entusiasmante è che non smettono mai di svelare nuovi aspetti e rivelare nuovi dati, forse anche perché rinnovate sono anche le domande che la ricerca archeologica si pone nella sua costante evoluzione. Considerate le ultime possibilità, si sta ora puntando alla risoluzione di domande importanti e quesiti complessi, anche in termini di modelli e dinamiche insediative, e di ricostruzione dei paesaggi antichi nella loro originaria continuità.
Quali sono le attuali prospettive di ricerca della disciplina?
Credo che molto sia contenuto e sottinteso in quanto già detto. Vero è che la metodologia archeologica continua a evolvere e penso che ci siano ancora diverse prospettive di crescita anche per l’archeologia senza scavo, magari legate alla combinazione di metodi di indagine e sistemi di rilevamento diversi (ad esempio con l’unione, già sperimentata, delle tecniche di prospezione geofisica con i droni e i sistemi a pilotaggio remoto) o ai sistemi di data fusion nell’elaborazione dei dati, che prevedono sempre la “contaminazione” e associazione di informazioni differenti.
Pensando poi più concretamente ai campi di utilizzo e alle ricadute pratiche in ambito archeologico, confido molto anche nella crescente applicazione dell’archeologia senza scavo a sussidio dell’archeologia preventiva o, magari, per affrontare lo studio di contesti complicati e complessi, come i paesaggi urbani a continuità di vita, le nostre città che vivono, e più in generale i siti e i monumenti pluristratificati e multifase. Si tratta delle sfide più importanti e difficili, che richiedono ancora di più un ragionamento e un’attitudine programmatica e multidisciplinare, di cui fa necessariamente parte lo scavo, e che, proprio perché complicate, varrà la pena intraprendere e affrontare.
Federica Boschi è ricercatrice in Metodologie della Ricerca Archeologica all’Università di Bologna. Dedica la sua attività di ricerca e didattica all’applicazione delle tecniche geofisiche e di remote sensing per la ricostruzione diacronica di siti e paesaggi archeologici, per l’archeologia preventiva e per l’elaborazione del dato stratigrafico da scavo. Dirige scavi e ricerche sul campo nell’Italia centro-adriatica e collabora con diversi istituti europei ed extra-europei all’interno di progetti di rilevanza internazionale.