
Negli ultimi trecento anni, la progressiva introduzione di nuove energie (quella a vapore, elettrica, a scoppio, nucleare) e il loro utilizzo hanno cambiato il mondo, ma anche messo in dubbio la sostenibilità del sistema antropico. Le avvisaglie dell’insostenibilità di questo sistema, rispetto alle risorse disponibili sul nostro pianeta, ci lasciano ora smarriti. Sono infatti saltati i punti di riferimento tradizionali, la famiglia e le comunità locali, che tramandavano i saperi attraverso i quali si cercava di assicurare la continuità economica e sociale, con strumenti che consentivano di ripartire dopo i disastri naturali, le pestilenze e le guerre.
In questo momento storico di profonda crisi, soprattutto di identità e valori, che ha travolto le cornici ideologiche all’interno delle quali ci eravamo orientati fino a poco tempo fa, è avvantaggiato chi riflettute sulle tante crisi che hanno coinvolto le società del passato.
Che rilevanza ebbero il clima e i cambiamenti climatici nell’età postclassica?
Fino al II secolo d.C. permane una situazione climatica straordinariamente benevola (Roman Climate Optimum), con temperature calde documentate dagli anelli di accrescimento degli alberi alpini, che ci rivelano anche una forte regressione dei ghiacciai. Questo clima relativamente stabile, caldo e umido e con condizioni che riducevano al minimo la variabilità della meteorologia mediterranea, era molto favorevole all’agricoltura intensiva. Molti storici associano questo clima alla crescita economica e al consolidamento del potere militare e politico del mondo romano e alla sua espansione territoriale. A partire dal 150-200 d.C., il clima sembra cambiare e diventa meno stabile: dapprima più asciutto, si contraddistingue poi per precipitazioni anomale ed episodi vulcanici, tra 235 e 285, che provocano un brusco calo termico. Nella seconda metà del iv secolo, molteplici indicatori suggeriscono un nuovo riscaldamento con un picco di siccità, uno dei più lunghi del tardo Olocene, collocabile tra il 338 e il 377, forse dovuto al fenomeno del Niño. In entrambi i casi, le variazioni climatiche (nel iii e nella seconda metà del iv secolo) coincidono con periodi geopoliticamente complessi.
Un’ulteriore lunga fase di instabilità, durata quasi trent’anni (536-560), fu probabilmente motivata da una o più eruzioni vulcaniche, ben datate negli anni 536, 540 e 547 grazie ai sedimenti nei ghiacciai della Groenlandia. Tali eruzioni dispersero enormi quantità di solfati nella stratosfera provocando una particolare bassa radiazione solare (non a caso, i contemporanei denominarono il 536-537 “l’anno senza estate”) e quindi un deciso calo delle temperature3. Il fenomeno è confermato dagli anelli degli alberi nelle Alpi e nell’Altai russo e soprattutto dall’insolito avanzamento dei ghiacciai delle Alpi svizzere, fenomeno che ha indotto gli studiosi a definire questo periodo come “piccola età del ghiaccio tardoantica” (Late Antique Little Ice Age o lalia). Gli studiosi, pur con molta cautela, hanno associato questo drammatico cambiamento climatico e la successiva malnutrizione alla peste di età giustinianea che, tra il 541 e il 750, causò milioni di morti. Un altro effetto dello stesso evento climatico potrebbe essere stata la migrazione di alcuni popoli, quali gli Avari e gli Slavi, alla ricerca di nuove opportunità, verso Occidente, dopo il collasso dell’amministrazione romana. Dopo il periodo caldo medievale (tra VIII secolo e il 1300), nuovi cambiamenti climatici si verificarono a partire dal XIV secolo, quando ebbe luogo la cosiddetta “anomalia di Dante”, tra il 1315 e il 1321 (data della morte del poeta), anni di persistente freddo e umido con una serie di acuti stress ambientali, carestie e pestilenze che si protrarranno poi fino al XVII secolo e con strascichi fino al XIX. Caratterizzato da lunghe fasi di basse temperature, questo periodo è noto come la “piccola età del ghiaccio” (Little Ice Age) e potrebbe aver causato, tra altri disaggi, la peste nera.
Questi cambiamenti climatici (unitamente alla riduzione dei commerci mediterranei favoriti dalla globalizzazione romana) ebbero conseguenze sul paesaggio e sulle produzioni che diventarono meno specializzate: incremento dei cereali più resistenti all’umidità e al freddo così come un’espansione dell’incolto (boschi e paludi).
Quali sono i principali temi del dibattito attuale sul medioevo in Italia?
Negli ultimi anni è continuata la discussione sulle invasioni/migrazioni delle popolazioni che si sono progressivamente insediate nel territorio dell’impero romano. Si è anche molto discusso, nelle ultime decadi, dei contadini e delle comunità rurali dopo la fine dell’Impero. Dopo il disastro della guerra greco-gotica e una fase “caotica” senza più un controllo degli antichi proprietari, si sarebbero uniti in comunità di villaggio indipendente. Conclusione peraltro in contrasto sia con gli accenni presenti nelle fonti, particolarmente ricche in Toscana a partire dai documenti della metà del vii secolo sulla contesa tra i vescovi di Arezzo e Siena per il controllo di alcune pievi, sia sulla base dei dati archeologici. Il focus del basso medioevo è rappresentato dalla ripresa, datata tra la fine dell’XI e il XII secolo, delle città che tornano ad essere, come per l’età romana, centri monumentali di riferimento oltre che sedi di produzione e di commerci, dapprima rispetto al territorio circostante, poi a scala via via più ampia. Un’evoluzione che si tradurrà, sul piano politico-amministrativo, nella formazione degli Stati regionali. Il contesto è quello di una forte ripresa economica e demografica, resa possibile grazie anche a una congiuntura climatica favorevole che si protrae tra viii e xiii secolo. I Comuni rappresentano un nuovo potere strutturale rispetto ai vescovi, che si districano, pur nel pesante confronto tra papato e Impero per la lotta per le investiture, nella consueta alleanza con i potentes.
Sono ora al centro del dibattito anche l’evoluzione della proprietà, in particolare quella pubblica che in età altomedievale assume piuttosto una valenza personale di chi gestisce il potere e la storia delle comunità rurali e dei loro beni comuni nei tempi lunghi che superano quelli del medioevo.
Quali nuove linee di ricerca sviluppate con altre discipline di ambito scientifico e sociale hanno rivoluzionato negli ultimi anni la nostra conoscenza del passato?
Negli ultimi dieci anni, ed è un aspetto che viene rimarcato in ogni capitolo di questo volume, l’archeologia si è caratterizzata per una fortissima transdisciplinarietà soprattutto in sinergia con le “scienze pure”: dagli studi bioarcheologici sugli scheletri, in molti casi con analisi DNA e isotopi stabili, alle analisi ambientali o archeometriche. Tale collaborazione ha fatto entrare l’archeologia nel mondo delle pubblicazioni scientifiche di alto impatto. L’applicazione degli strumenti della geomatica, dal gis al remote sensing (radar e lidar), è proseguita con risultati sempre più sofisticati grazie alle analisi quantitative e predittive che ci avvicinano, tra l’altro, a uno dei temi più rilevanti dello sviluppo scientifico qual è l’intelligenza artificiale (in tutti i suoi possibili domini operazionali, dal machine learning, agli algoritmi evolutivi, alle reti neurali), con l’addizionale e intrinseca capacità di applicarsi a universi di dati di un ordine di magnitudo ancora inesplorata (big data), come quelli potenzialmente sottesi alla cosiddetta “letteratura grigia” (documentazione di archivio, in gran parte inedita, prodotta dall’ “archeologia d’emergenza” preventiva, predittiva e/o di salvaguardia). Anche la cooperazione con gli specialisti delle scienze sociali (sociologia, psicologia, neuroscienze, statistica, economia) sta diventando fondamentale in un momento in cui non solo investighiamo sulle società del passato, ma vogliamo anche comprendere gli atteggiamenti e le reazioni delle comunità di oggi quando le coinvolgiamo nelle attività dell’archeologia e più in generale nella conoscenza dei beni culturali.
Enorme sviluppo hanno avuto progetti e ricerche caratterizzati da componenti di archeologia pubblica in tutte le sue variabili: dalla comunicazione più o meno innovativa dei risultati alla didattica, al coinvolgimento diretto delle comunità nelle ricerche e nella valorizzazione, con l’obiettivo di rendere l’archeologia più aperta e con una ricaduta reale sul territorio, non solo perché può favorire la costruzione di nuove e significative politiche culturali, sociali ed economiche, ma soprattutto per la possibilità di contribuire attivamente a rinnovare identità e prospettive. Un coinvolgimento sociale e democratico che ha interessato molte altre discipline (ecologia, economia e scienze politiche, ad esempio) e deve comunque essere fondato sulla ricerca scientifica, finalità ultima del nostro lavoro.
Quale crisi attraversano le città e gli insediamenti rurali in epoca postclassica?
Riflettono dapprima la crisi economica e demografica nel quadro del passaggio da un impero ad un’Italia frammentata tra il regno longobardo e i territori rimasti in mano all’impero d’Oriente. Vedono poi varie fasi di ripresa che si consolida definitivamente tra XII e XIII secolo quando assumono la struttura e l’organizzazione che si sono conservati fino all’età moderna, superate solo, dalla seconda metà del XIX secolo dall’industrializzazione e dal forte incremento demografico.
Come evolvono le abitazioni tra tardoantico e medioevo?
La scomparsa generalizzata a partire del V secolo delle architetture residenziali privilegiate di epoca tardoantica (domus e ville) indicatori del potere politico ed economico, la raffinatezza, la cultura o quantomeno le aspirazioni dei loro proprietari mostrano probabilmente la scomparsa di questa classe sociale sostituita da nuovi dirigenti più legati all’esercito come conseguenza di una generale militarizzazione della società. Senza dimenticare che una parte non indifferente delle élites romane passarono a far parte della gerarchia ecclesiastica. Le residenze di queste nuove élites vanno quindi cercate nei castelli, in residenze romane comunque ancora conservate in elevato ma senza che mostrino riforme consistenti e nei pressi dei complessi episcopali dove le residenze dei vescovi mantengono alcuni elementi di prestigio (mosaici, aule di rappresentanza, complessi termali). Le residenze dei poveri non cambiarono probabilmente in modo così radicale a parte farsi più visibili al registro archeologico.
Qual era lo stato di salute delle popolazioni postclassiche?
Negli ultimi anni la conoscenza dello stato di salute delle popolazioni del passato ha fatto un enorme passo in avanti per la diffusione delle analisi bioarcheologiche che includono gli studi delle ossa (talora con l’ausilio di radiografie o tac) e quelli molecolari, imprescindibili per identificare particolari malattie che non lasciano traccia nel registro osteologico, grazie alla possibilità di individuare e sequenziare il dna antico di alcuni batteri.
Tutti questi studi potrebbero permetterci di ricostruire la diversità e la complessità delle condizioni di vita di un singolo individuo e di confrontarlo con altri in relazione alla loro posizione sociale.
Dal punto di vista della salute (e a parità di status sociale), numerose analisi osteologiche rivelano che dal vi secolo le condizioni di vita peggiorarono notevolmente in Italia. In generale si osserva una maggiore incidenza di segni indicativi di deficit nutrizionali, a conferma di un peggioramento delle condizioni igieniche e alimentari della popolazione Condizioni particolarmente disagiate evidenziano gli scheletri rinvenuti all’interno delle città in piccoli gruppi e in aree produttive spesso collocate nei pressi di antichi edifici pubblici romani come a Verona o a Brescia forse perché si trattava di popolazione servile. Sono messi meglio gli individui sepolti nelle chiese (in molti casi appartenenti alla gerarchia ecclesiastica) o le sepolture con corredi dei cimiteri “a file” longobardi, dove lo status sociale non è solo indicato dalla presenza di armi o oggetti di valore, ma anche dallo stato di salute tutto sommato discreto, pur se in alcuni casi il decesso fu dovuto a traumi mortali.
Quali prospettive per l’archeologo postclassico nel futuro dell’archeologia?
Un auspicio per gli archeologi di oggi e del domani (non solo postclassici) è quello di sviluppare un’archeologia delle e per le comunità locali, ripartire dal basso, per capire il presente e progettare un futuro che ci veda ancora come protagonisti e non semplicemente nel ruolo di addomesticati consumatori di un mondo globalizzato dominato dalle multinazionali.
È questa l’archeologia che proponiamo a chi ricerca le proprie radici nella storia, anche se ha perso le competenze pratiche del passato e i valori, soprattutto religiosi, che ne assicuravano la coesione e la sopravvivenza. La nostra è forse l’ultima generazione di “umanità naturale” provvista di questa sensibilità in grado di assicurare la tutela e la conservazione del patrimonio culturale materiale e immateriale. Non perché si desideri tornare al passato, ma per non perdere quelle conoscenze tradizionali di fronte alla distruzione sistematica del mondo in cui sono vissute le generazioni degli ultimi millenni.
Alexandra Chavarria Arnau è professore associato di Archeologia cristiana e medievale all’Università degli Studi di Padova, dove insegna Archeologia medievale, Archeologia postclassica e Archeologia dell’architettura e dell’urbanistica medievale.