
di Giancarlo Rinaldi
Carocci editore
«In Italia per troppo tempo gli studi di esegesi neotestamentaria hanno fatto conti separati con le ricerche di storia antica e di archeologia. La proficua collaborazione tra biblisti, storici e archeologi nel nostro paese è un’acquisizione recente. È ancora possibile imbattersi in autori d’indagini, ad esempio sul “Gesù storico” o sui movimenti religiosi della Palestina, nelle cui numerose pagine invano cercheremo una sola utilizzazione di uno scavo, un papiro, un’epigrafe ecc. Non così nella produzione di lingua inglese che, ad esempio, negli Stati Uniti ha tesoreggiato dei contributi di W. F. Albright e della sua scuola; per non parlare degli studi condotti in Gran Bretagna dove le ricerche di antichistica e sul Nuovo Testamento hanno costituito due vasi comunicanti come attestano i lavori di archeologi, quali W. M. Ramsay, di esegeti, come F. F. Bruce, o di lessicografi attenti ai dati dei realia, documenti materiali che aiutano a contestualizzare personaggi, episodi, aspetti linguistici e culturali del mondo del Nuovo Testamento. In ambiente francofono biblique e archéologique sono aggettivi imprescindibili che connotano del pari il lavoro della nota École de Jérusalem. Quanto all’Italia quel malinteso pregiudizio cui si è fatto cenno ha mantenuto lontano gli studiosi di storia dall’interesse per le pagine bibliche, affidando queste ultime alle esclusive cure di religiosi e di teologi; ma la separazione tra storia biblica, o del cristianesimo, e storia “politica”, o dell’economia, esiste solo negli specialismi dei moderni, non certo nell’effettiva realtà dei fatti. Ora però anche in Italia l’integrazione piena dei percorsi di ricerca è un dato di fatto oramai acquisito da tempo […]
L’espressione “archeologia biblica” può vantare una storia oramai lunga, costellata da entusiasmi e da aspre contestazioni. Possiamo parlare di una “fortuna” e di una “sfortuna” della disciplina. Da sempre il lettore della Bibbia è stato punto dalla devota curiosità di visitare i luoghi in cui le vicende lì narrate ebbero a svolgersi. Già prima del IV secolo, quando iniziarono le prime peregrationes ad loca sancta, quella Palestina che era stata teatro delle storie degli ebrei e poi dei giudei credenti in Gesù attrasse l’attenzione di alcuni, come Melitone di Sardi e Alessandro di Cappadocia. Più di tutti va ricordato il principe degli antichi esegeti cristiani, quell’Origene di Alessandria che, agli inizi del III secolo, nell’Onomasticon offriva ai suoi lettori le descrizioni delle località bibliche con riferimenti ai testi sacri. La sua fatica fu continuata da Eusebio di Cesarea. […] La consuetudine dei pellegrinaggi andò sempre più ad accrescersi nella misura in cui prosperavano il culto dei santi e quello delle reliquie. Tutto ciò da parte degli stessi cristiani fu anche oggetto di critiche che colpivano talvolta gli eccessi, altre volte la pratica di per sé stessa. […]
I pellegrini più dotti redassero degli itineraria, diari di viaggio con annotazioni preziose per l’archeologo […]. Quegli antichi non ricercavano nei resti materiali sopravvissuti all’inclemenza dei tempi la conferma dell’attendibilità dei testi biblici. Soltanto molto dopo questa sarebbe stata una preoccupazione di ambienti moderni di cui diremo a breve. A loro, già corroborati dalla fede, interessava accrescere tale sentimento ammirando documenti e panorami che recepivano come mirabilia.
Il “concordismo”, invece, è una malattia dell’archeologia biblica intesa come disciplina di studio. Si tratta di una tendenza a ravvisare nei resti materiali emersi dalle campagne di scavo una conferma alle affermazioni scritturistiche. Chi non ricorda Und die Bibel hat doch recht (Düsseldorf 1955), tradotto e pubblicato in italiano con il titolo La Bibbia aveva ragione (Milano 1956) di W. Keller (1909-1980), un giornalista tedesco che di tale tendenza fu un fortunato esempio? Ancora più oltre tal genere di concordismo, spesso inteso soltanto a provocare la meraviglia del lettore, v’è il concordismo di stampo fondamentalista. Il fondamentalismo, nel senso tecnico del termine, fu una corrente di pensiero teologico, fiorita negli Stati Uniti d’America nei primi decenni del secolo scorso in ambienti riformati, la quale intendeva contrastare il dilagare del “liberalismo” teologico. Tra le armi messe in campo al fine di perseguire tale crociata ve ne fu una in sintonia con la scolastica calvinista del Seicento la quale si avvaleva del seguente semplicistico sillogismo:
1. la Bibbia è parola di Dio;
2. Dio non può assolutamente mentire;
3. dunque la Bibbia è inerrante in ogni sua affermazione (di qualsiasi genere).
Ad adiuvandum questa serie di asserzioni fu poi invocata anche la prova “archeologica”: le scoperte devono senza incertezza alcuna confermare la verità della Bibbia. Insomma, nel percorso di fede di costoro il primum non era determinato da quei processi interiori di conversione, che possiamo ravvisare in tutta l’autentica tradizione dell’età patristica così come della Riforma, bensì da un’acquisizione d’ordine intellettuale che il concorso di “prove tangibili” avrebbe dovuto confermare. Il ricorso dei fondamentalisti evangelici alle archaeological evidences ricorda da vicino un simile utilizzo delle reliquie dei martiri che si verificò nella tarda antichità cristiana al fine di dirimere faccende d’interesse teologico. Il caso esemplare è costituito da Ambrogio il quale a Milano, nel contesto della controversia sulle basiliche, riuscì a sottrarre spazio ai suoi avversari ariani dichiarando di aver fatto portare alla luce i resti dei santi Gervasio e Protasio e con tale inventio mise fine alla faccenda accomodandola proprio com’era nei suoi propositi.
Il compito della ricerca archeologica è, invece, quello di offrire agli studiosi dati da interpretare, non già quello di “provare” qualcosa, specialmente se di carattere religioso e intimo. A fronte degli utilizzi impropri della disciplina si sono determinate reazioni, tuttora ben diffuse, le quali sono giunte a negare la legittimazione, e pertanto l’esistenza, dell’archeologia biblica alla quale fu rinfacciato un carattere confessionale. Mentre comprendiamo i motivi che ispirano tal genere di reazioni non siamo però disposti a gettare con l’acqua sporca anche il bambino. La situazione presenta aspetti di affinità ai discorsi che furono fatti a proposito dell’archeologia cristiana. Questa disciplina, in particolar modo a studiosi che ritenevano i meccanismi dell’economia le strutture portanti delle società, appariva ritagliata secondo un criterio “ideologico”. Essa, dunque, doveva necessariamente ridursi a un capitolo dell’arte della tarda antichità. Dal canto nostro ci limitiamo a rilevare che chi ha una sia pur sobria frequentazione di realia christianorum non fa fatica a cogliere in questi un’anima peculiare la quale, per ricchezza di contenuti specifici e per novità di significazione, determina il disegno di un’articolazione disciplinare autonoma anche se non separata dal ben più ampio contesto dell’archeologia tout court. Dunque se sembra legittimo parlare di archeologia cristiana distinguendola da altri settori d’indagine, come siamo soliti fare per la letteratura cristiana (greca o latina), senza essere contestati, si parli pure di archeologia biblica o d’interesse biblico a patto che si sia consapevoli che non possiamo permetterci di separare questo specifico ambito delle discipline antichistiche dal suo più ampio contesto che consiste nello studio della storia, della civiltà, dell’arte del mondo antico.
Va ora fatto un preliminare doveroso chiarimento a chi ci legge: in questa sede con l’espressione “archeologia del Nuovo Testamento” intendiamo lo studio delle antichità relative alla storia narrata da questa parte della Bibbia e ai manoscritti che tale narrazione ci consegnano. Il termine ἀρχαιολογία, dunque, non è da intendersi come riferito esclusivamente alla disciplina preposta al reperimento di monumenti o manufatti in prevalenza tramite operazioni di scavo, bensì come “studio delle antichità”, proprio come figura nei titoli delle opere di Flavio Giuseppe o di Dionigi di Alicarnasso. Parleremo, dunque, di antichità sia pubbliche che private, come una volta si usava dire, le quali poiché in qualche modo riguardano il mondo biblico servono così a meglio intendere cosa quest’ultimo sia realmente stato. Insomma, si tratta di studiare la storia e l’archeologia pertinenti ai ventisette libri che compongono il Nuovo Testamento. Per comodità espositiva questo volume è suddiviso in tre parti.
La Parte prima offre una cornice storica all’età del Nuovo Testamento, iniziando con un’essenziale ma indispensabile premessa sui rapporti tra il potere romano e l’etnia giudaica, che prenderemo in considerazione a far data dall’epocale scontro tra Antioco IV Epifane, re di Siria, e la resistenza giudaica animata dai fratelli Maccabei nel II secolo a.C. Poi l’ingresso della Palestina nella più diretta sfera d’influenza romana con il passaggio del vittorioso Pompeo Magno nel 63 a.C. I principati di Augusto, Tiberio, Caligola, Claudio, Nerone, afferenti alla dinastia giulio-claudia, faranno da cornice, principalmente, alla predicazione di Gesù e alle missioni di Paolo. Questa prima sezione si conclude con la dinastia dei Flavi (69-96: Vespasiano, Tito, Domiziano), durante la quale ebbe luogo la fase finale della guerra giudaica del 66-70, la composizione dell’Apocalisse di Giovanni e di altri scritti del corpus neotestamentario che proprio allora s’iniziarono anche a raccogliere.
La Parte seconda prende in esame analiticamente i libri neotestamentari e si sofferma su alcune loro pagine o, addirittura, su alcuni termini che meglio s’intendono alla luce di eventi o fonti documentarie dell’epoca. Si dimostra qui come la comprensione anche teologica di un testo può giovarsi del ricorso ai realia.
Nella Parte terza, l’ultima, si dà una sorta di elenco essenziale di questi realia, distinti per tipologia (epigrafi, manoscritti e papiri, monete).
L’esperimento che qui si tenta consiste nel restituire la seconda parte della Bibbia alla storia e alla letteratura antica; esso sembra opportuno in Italia, dove per molto tempo queste pagine sono state considerate patrimonio esclusivo dei teologi, poiché si tratta di materiale che appartiene pienamente alla vicenda storica dell’antichità e che solo alla luce di questa può essere correttamente inteso. […]
Lontani da ogni pretesa di completezza (del resto inimmaginabile) ci auguriamo di offrire un approccio alternativo all’usuale lettura della Bibbia. In conclusione si spera che il lettore comprenda non solo come al biblista sia indispensabile il ricorso alla storia antica, ma anche come allo storico del mondo ellenistico e romano la lettura del Nuovo Testamento sia imprescindibile per una compiuta comprensione dell’epoca che desidera studiare. Le pagine del Nuovo Testamento costituiscono il documento che più vivacemente ci attesta la vita delle province romane del Mediterraneo orientale nel I secolo: ci accingiamo a rileggerle restituendole alla “città antica” da cui provengono.»