
A tal proposito dirò allora che sin dalla fine del XIX secolo taluni archeologi dotati di una mentalità “interdisciplinare” (virtù invero non posseduta da tutti gli archeologi) si erano accorti del fatto che molti allineamenti architettonici in templi o monumenti megalitici puntano verso direzioni astronomiche notevoli (i quattro punti cardinali, il sorgere o tramontare del sole al solstizio d’estate o d’inverno o altre direzioni definite dal moto apparente della luna e delle stelle). Più tardi si scoprì che negli stessi reperti archeologici talvolta si riscontra un simbolismo astronomico (tipico esempio sono i “calendari” lunari del Paleolitico inferiore). Si scoprì dunque che nei manufatti di una data civiltà sono spesso codificate le conoscenze astronomiche della civiltà stessa e nacque quindi la scienza archeoastronomica.
Va detto che per le civiltà preistoriche l’analisi dell’orientamento e/o simbolismo astronomico dei manufatti è l’unico modo che si ha per poter dare uno sguardo alle conoscenze astronomiche di tali civiltà. Per le civiltà classiche, per le civiltà protostoriche (le civiltà che non praticavano o praticavano saltuariamente la scrittura ma delle quali ci parlano gli autori classici) e per l’astronomia di epoca storica, invece, l’archeoastronomia si affianca alla storia dell’astronomia, le cui fonti sono i manoscritti o le opere a stampa.
Va detto che in archeoastronomia, purtroppo, è forte il rischio di trovare ciò che si vuole trovare, attribuendo alle civiltà antiche conoscenze astronomiche che esse non possedevano. A differenza dei pionieri dell’archeoastronomia, che a volte “presero lucciole per lanterne”, oggi si dispone degli strumenti (tecnologici, matematici, statistici) per compiere misure il più possibile precise, valutando poi la probabilità che un dato insieme di allineamenti archeoastronomici eventualmente riscontrati in un dato sito sia dovuto al caso. Entro i limiti dell’imperfezione umana, quindi, un archeoastronomo onesto (si suppone tutti lo siano) e preparato (taluni dilettanti purtroppo peccano di “ingenuità del neofita”) è in grado di distinguere tra allineamenti veri e allineamenti dovuti al caso.
Nel nostro Paese, quali siti hanno rilevanza archeoastronomica?
Spero di non scandalizzare qualcuno (si tratta di una semplice constatazione) dicendo che anche nell’archeoastronomia le Italie sono almeno tre (quattro se, come è scientificamente giusto, si consideri la Sardegna quale mondo a sé rispetto al nord, centro e sud Italia). Va poi detto che più che di singoli siti archeologici si deve parlare di categorie di siti (templi, edifici residenziali, chiese, megaliti e quant’altro); si constata infatti che se una civiltà antica soleva dare orientamento astronomico ad una certa categoria di edifici, la maggior parte di tali edifici era astronomicamente orientata. Elenchiamo dunque le categorie di siti archeoastronomicamente orientati, procedendo per macroregioni.
Per quanto riguarda l’Italia settentrionale, sono i Celti a dominare; tra i siti astronomicamente orientati si trovano infatti i nuclei celtici di Milano e Como, il Cerchio dei Tre Camini (presso Como, di epoca celtico-golasecchiana), gli oppida (cittadelle fortificate celtiche), i nemeta (recinti sacri celtici), i cromlech (cerchi di pietre, in alcuni casi celtico-golasecchiani, in altri casi megalitici), talune necropoli di epoca celtica, altre necropoli (del Priamar a Savona, di Mel presso Belluno) che pur non essendo celtiche presentano allineamenti tipici del mondo celtico cisalpino. Vanno poi considerate la Valcamonica, con la simbologia astronomica nell’arte rupestre per la quale la valle è famosa nel mondo, e il megalitismo alpino (il caso valdostano del sito di Saint Martin de Corléans, Aosta, è stato particolarmente ben studiato). A tutto ciò vanno aggiunti i siti (chiese e necropoli) di fondazione longobarda e le chiese romaniche.
Per quanto riguarda l’Italia centrale, sono gli Etruschi a dominare, anche se l’Italia centro-orientale è piuttosto caratterizzata dalla civiltà picena, la cui archeoastronomia non mi sembra però sia giunta ad un sufficiente grado di sviluppo. La stessa archeoastronomia etrusca è una disciplina ancora in pieno sviluppo. Orientamenti astronomici si riscontrano nei templi etruschi e nella pianta delle città di fondazione etrusca. Ha poi ricevuto l’attenzione degli archeoastronomi il Fegato di Piacenza, un modello bronzeo di fegato di pecora i cui bordi sono divisi in caselle, ciascuna intitolata a un dio del pantheon etrusco e corrispondente a una data orientazione archeoastronomica. Parlando di Etruschi, in realtà, ci si riferisce anche a parte dell’Italia settentrionale: l’Emilia e il Mantovano pre-celtici, infatti, furono abitati da popolazioni di cultura (se non sempre di etnia) etrusca.
Nell’Italia meridionale l’archeoastronomia è dominata dai templi magnogreci che, come quelli della Grecia propria, in molti casi esibiscono orientamenti astronomici che peraltro, dopo un’attenzione forse eccessiva loro riservata tra fine ‘800 e inizi ‘900, sono stati rapidamente dimenticati e solo nell’ultimo venticinquennio si sono ricominciati a studiare. Parlo di “attenzione eccessiva” intendendo il fatto che molte delle orientazioni astronomiche attribuite ai templi greci e magnogreci dai pionieri dell’archeoastronomia, e conseguenti datazioni, si sono purtroppo rivelate inconsistenti. Parlando di sud Italia, non si possono poi dimenticare i megaliti del Salento (la cui archeoastronomia non mi sembra però sufficientemente sviluppata) e i castelli federiciani, tra cui spicca il ben noto Castel del Monte.
Venendo infine alla Sardegna, occorre parlare della civiltà nuragica e della cultura megalitica che nell’isola assume caratteristiche peculiari rispetto al megalitismo nel resto d’Europa (parziale eccezion fatta per la Corsica). I nuraghi si rivelano spesso astronomicamente orientati, così come i megaliti, in special modo le tombe e i pozzi sacri. La mia impressione è che l’archeoastronomia sarda non sia ancora sufficientemente sviluppata; del resto il problema è comune all’Italia centrale e meridionale ed era ancor peggiore in Italia settentrionale, se non fosse stato per l’opera di archeoastronomi quali Giuliano Romano, Guido Cossard e (mi si perdoni la classifica) soprattutto Adriano Gaspani, mio mentore e amico, da cui molto ho imparato.
In che modo è possibile datare archeoastronomicamente?
Scherzando (ma non troppo) potrei rispondere a una tale domanda affermando che per molti archeoastronomi datare archeoastronomicamente non è proprio possibile! Come scrivevo più sopra, infatti, i pionieri dell’archeoastronomia di fine ‘800 e inizi ‘900 tentarono di datare templi greci, templi egizi e megaliti, con risultati che, col senno di poi ma anche col senno degli archeologi di allora, “gridano vendetta davanti a Dio e agli uomini”! Collaborando con Adriano Gaspani, ho messo a punto una metodologia di datazione archeoastronomica che ha dato interessanti risultati nello studio di un santuario rupestre di epoca celtica sito in Val Brembana e a tale metodologia mi riferisco qui di seguito.
In sintesi, per datare astronomicamente un sito si parte dal principio (purtroppo ignoto agli archeoastronomi di un secolo or sono) che un manufatto orientato a caso, inevitabilmente e proprio a causa della casualità dell’orientamento, presenterà un certo numero di allineamenti a direzioni astronomicamente significative; tale numero è calcolabile con formule piuttosto semplici. Utilizzando quindi un software di simulazione astronomica si calcola, anno per anno, il numero di allineamenti astronomici che il sito realizza. Per la maggior parte degli anni il numero di allineamenti riscontrati sarà essenzialmente costante e approssimativamente dato dal valore prima menzionato; qualora il sito sia stato intenzionalmente allineato in una data epoca, in corrispondenza di tale epoca si avrà un numero di allineamenti superiore a quello dato dal caso e ciò permette di datare il sito.
Come si articolavano le conoscenze astronomiche degli Etruschi?
Le conoscenze astronomiche degli Etruschi riguardavano il moto del sole e della luna ma soprattutto il (preteso) rapporto tra direzioni celesti, divinità e fenomeni atmosferici come i fulmini, o meglio fenomeni che oggi noi sappiamo essere atmosferici e che gli Etruschi consideravano celesti. Non si trattava quindi di un’astronomia scientifica, dunque speculativa, nemmeno nel senso che il termine assunse nell’antica Grecia o nel mondo celtico cisalpino, centroeuropeo e britannico. Le analisi del già citato Fegato di Piacenza (una probabile sopravvivenza etrusca in un ambiente ormai celtizzato quale l’Emilia del II sec. a.C.), e delle narrazioni di autori di epoca tardoromana quali Marziano Capella (V sec. d.C.), ci permettono di delineare, se non altro approssimativamente, le conoscenze astronomiche degli Etruschi.
In sintesi, pare esistessero due distinte suddivisioni della sfera celeste, una riferita agli dèi del locale pantheon, l’altra ai fenomeni atmosferici. Gli aruspici etruschi, infatti, traevano auspici non solo dalla presenza ma anche dalla direzione dei fulmini che correlavano appunto alla “casa celeste” nella cui direzione i fulmini erano scorti. D’altra parte, sembra che i templi dedicati ad una certa divinità etrusca fossero spesso allineati nella direzione che (a quanto risulta dal Fegato di Piacenza e dalle fonti scritte) in cielo competeva a quella divinità. Nel mondo etrusco erano orientate astronomicamente anche le città e va detto che i criteri etruschi di orientazione astronomica delle città furono ereditati dai Romani. Anche riguardo al calendario, i Romani furono almeno parzialmente debitori degli Etruschi.
Quale importanza rivestiva l’astronomia per i Romani?
La risposta che si sarebbe tentati di dare è: “ben poca, se non per il calendario, essendo gli antichi Romani un popolo dall’indole eminentemente pratica”. Come in genere accade per gli stereotipi, una tale risposta contiene un fondo di verità ma va articolata, perché una caricatura ci dice qualcosa del soggetto che la caricatura subisca ma, appunto, caricatura è.
Dirò allora che l’astronomia romana – che comunque, come quella etrusca, non può ritenersi “scientifica”, nemmeno in senso lato – aveva due distinti aspetti, uno eminentemente pratico e l’altro religioso. Ricadono nella prima categoria il calendario romano, nel senso della sua struttura (non dimentichiamo che il sistema di suddivisione in anni, mesi e giorni è ancora quello elaborato con la riforma del calendario promossa da Cesare, si parla infatti di “calendario giuliano”) e l’orientazione degli abitati romani (le città, qualora fondate ex novo, ed i castra). Ricade invece nella seconda categoria il calendario romano, nel senso della data per le feste che in gran copia scandivano l’anno nell’antica Roma.
A quanto risulta dagli studi fin qui compiuti, sembra che i templi romani non fossero orientati astronomicamente. Va infine detto che, come sottolineato più sopra, l’astronomia romana dovette molto all’influsso etrusco. La struttura a feste del calendario, poi, è probabile abbia origini etrusche e mesopotamiche, e che seguisse criteri – alquanto raffinati – che archeoastronomi come Leonardo Magini vanno progressivamente decifrando.
Quale rilevanza archeoastronomica ha l’orientamento dei templi greci?
Premesso l’archeoastronomia greca – intesa in senso moderno e fatta quindi la tara a certe esagerazioni di fine ‘800 o inizi ‘900 – è un campo di studi ancora in pieno sviluppo, allo stato attuale degli studi si può affermare che per i Greci l’orientamento astronomico dei templi avesse una duplice importanza, in quanto da un lato rifletteva il legame tra l’uomo, la sfera del divino e i cicli cosmici, dall’altro rispondeva alla necessità pratica di stabilire la data in cui sarebbero iniziate le celebrazioni legate al dio a cui un determinato tempio era dedicato.
Si poteva ottenere una tale indicazione sulla base del giorno in cui, lungo l’asse del tempio, una data stella si vedeva sorgere in levata eliaca. Si dice che una stella è in levata eliaca quando essa sorge all’orizzonte appena prima di essere sommersa dalla luce solare dell’alba. Una stella sorge eventualmente in levata eliaca una volta all’anno, e sempre alla stessa data (almeno la data non cambia su un arco di tempo dell’ordine dei secoli) e da ciò deriva l’utilità pratica delle levate eliache. Levate eliache, incidentalmente, che il poeta greco Esiodo ci insegna essere state fondamentali per l’agricoltura, essendo impiegate per scandire, appunto, l’anno agricolo.
Quali conoscenze astronomiche aveva Dante Alighieri?
Le conoscenze astronomiche (e cosmologiche e matematiche) di Dante erano molto raffinate, in rapporto ovviamente al livello scientifico del Medioevo occidentale che (a differenza di quanto ritengono certi denigratori di un’epoca ancora troppo denigrata) non era affatto trascurabile, specie nel tardo Medioevo e nelle scienze matematiche. Non dimentichiamo che l’astronomia e la cosmologia, non solo nel Medioevo ma fino alle soglie dell’epoca moderna, erano considerate scienze matematiche più che scienze empiriche.
Che poi le conoscenze astronomiche di Dante (e, più in generale, dell’uomo medievale) non abbiano retto l’urto del tempo è una constatazione che non dovrebbe impedirci di apprezzarne il valore, così come riconosciamo il valore delle conoscenze astronomiche di Aristotele o Tolomeo, sebbene il sistema astronomico tolemaico – derivante da quello aristotelico – sia stato superato da quello copernicano e dagli sviluppi dell’astronomia moderna che in ultima analisi discendono dal sistema copernicano.
Fatte tali precisazioni, dirò che il sistema cosmologico dantesco – che altri non è che il sistema astronomico del Medioevo europeo occidentale, che molto dovette all’astronomia araba medievale ma anche all’eredità classica custodita nelle biblioteche dei monasteri – è sostanzialmente un sistema tolemaico cui si aggiunsero le sfere angeliche. Per quanto riguarda l’astronomia di posizione, molti passi della Divina Commedia attestano l’alto livello delle conoscenze di Dante: ad esempio egli trattò in maniera precisa della suddivisione del globo terrestre, e della sfera celeste, in cerchi astronomici e di fenomeni quali la precessione degli equinozi.
Si sa poi, grazie alle geniali intuizioni di Mark Peterson, che il modello geometrico che meglio descrive l’universo secondo Dante è quello di una 3-sfera. Non posso qui spiegare in dettaglio cosa sia una 3-sfera ma qualche indicazione posso darla. La sfera ordinaria (o 2-sfera) di raggio unitario si definisce come l’insieme dei punti dello spazio tridimensionale che distano meno di uno dall’origine degli assi; analogamente, si definisce 3-sfera di raggio unitario l’insieme dei punti nello spazio quadridimensionale che distano meno di uno dall’origine degli assi. Per quanto ciò possa sembrare incredibile, quindi, Dante descrisse l’universo come una struttura quadridimensionale, anticipando, in un senso che qui non posso meglio precisare, le intuizioni di Einstein!
Come si sviluppò l’astronomia leonardesca?
Con tutta la simpatia e ammirazione che provo per Leonardo, devo dire che il livello delle sue conoscenze astronomiche mi sembra francamente più basso di quello di un Dante Alighieri. Leonardo fu sommo artista, visionario tecnologo (anche se molte delle sue realizzazioni meccaniche rimasero “sulla carta” perché mai avrebbero potuto funzionare) ma scientificamente egli fu un autodidatta che ebbe geniali intuizioni ma che – come spesso accade agli autodidatti – più di una volta rese palesi le lacune nella sua formazione.
Tra le intuizioni astronomiche leonardesche che si dimostrarono più che intuizioni vi è ad esempio la (corretta) spiegazione del fenomeno della luce cinerea, la debole luce, cioè, che illumina la parte della Luna non direttamente illuminata dal Sole e che è dovuta alla luce solare riflessa dalla Terra verso la Luna. Tra le intuizioni che si rivelarono non corrette possiamo citare la spiegazione dell’origine della forza di gravità che sarebbe stata dovuta all’azione magnetica della Terra, vista come grande magnete. La Terra è in effetti un grande magnete ma il magnetismo terrestre non ha nulla a che vedere con la forza di gravità. Possiamo poi citare la teoria leonardesca sull’origine dei cosiddetti “mari lunari” che sarebbero stati mari nel senso proprio del termine. Si tratta invece di formazioni geologiche di colore più scuro rispetto alla rimanente superficie lunare.
Riguardo poi all’ottica, una tecnologia che ovviamente ha molto a che fare con l’astronomia, Leonardo ne intuì, meritoriamente, la possibile applicazione agli studi astronomici. Purtroppo però, in ottica come in altre discipline ingegneristiche, egli aveva “idee piuttosto confuse” riguardo ai fondamenti teorici delle stesse e ciò limitò la portata delle sue intuizioni.
Stefano Spagocci è nato a Milano nel 1966. Si è laureato in fisica all’Università degli Studi di Milano, svolgendo la tesi presso il CERN di Ginevra. Ha poi conseguito un MSc alla Edinburgh University e un PhD a University College London e si occupa dello sviluppo di modelli matematici per applicazioni scientifiche e tecnologiche. Nutre da sempre un forte interesse per l’archeologia (in particolare “barbarica”) e la storia antica che nel nuovo millennio si è congiunto con quello per l’antropologia, dando origine a una serie di ricerche sull’archeologia cisalpina ed archeoastronomia europea, lette in chiave antropologica.