
di Elias Canetti
traduzioni di Renata Colorni, Gilberto Forti, Furio Jesi e Ada Vigliani
Adelphi
Uno stile genuinamente aforistico, quello di Elias Canetti, in cui fanno capolino i temi fondanti della poetica dello scrittore Premio Nobel per la letteratura nel 1981: la guerra, soprattutto negli anni del secondo conflitto mondiale, ma anche la morte e la religione. Intuizioni fugaci di scrittura, abbozzi che rivelano un’incessante e certosino labor limae, appunti a tutto tondo che negli anni si fanno sempre più lapidari, trasformandosi in «aforismi dalla dissoluzione del silenzio.»
Sono vere e proprie illuminazioni, quelle di Canetti, che scandagliano i più reconditi anfratti della sua anima e ne portano a galla le intime manifestazioni, generando «pensieri che non si sfiorano mai» e con i quali l’Autore stesso contravviene alla propria intimazione: «Che ciascuno tenga segreto il suo dolore più profondo» cedono spesso il passo a riflessioni più articolate.
Vi trovano spazio ampi resoconti di letture, delle quali è affascinante cogliere l’intertestualità sottesa, come nel caso della figura di Daniel Paul Schreber, a cui Roberto Calasso ha dedicato il suo libro L’impuro folle: «Da una settimana mi occupo di un libro che mi turba profondamente: si tratta delle Memorie di un malato di nervi di Schreber, presidente di Corte d’Appello, un libro che apparve quasi cinquant’anni fa, nel 1903, a spese dell’autore, fu comprato in blocco dai suoi parenti, ritirato dal commercio e distrutto, cosicché ne rimasero soltanto pochi esemplari. Uno di questi mi capitò tra le mani per strane circostanze nel 1939 e da allora lo ho con me. Sentivo, prima ancora di leggerlo, che sarebbe diventato importante per me. Come altri libri, ha aspettato il suo momento, e ora che sto raccogliendo i miei pensieri sulla paranoia, lo ho tirato fuori e l’ho letto subito tre volte. Non credo che mai un paranoico, internato per anni in una casa di cura, abbia esposto il suo sistema in modo così completo e convincente.
Che cosa non ho trovato in lui! Conferme per alcuni pensieri che mi occupano da anni! per esempio l’indissolubile connessione tra paranoia e potere. Tutto il suo sistema è la descrizione di una lotta per il potere, in cui Dio stesso è il vero antagonista. Schreber è vissuto a lungo nell’idea di essere l’unico uomo sopravvissuto nel mondo; tutto il resto erano anime di morti e Dio in varie sue manifestazioni. […] Ma Schreber portava anche già pronta dentro di sé come delirio l’ideologia del nazionalsocialismo. Egli considera i tedeschi il popolo eletto e vede minacciata la loro esistenza da ebrei, cattolici e slavi. Si definisce spesso il « campione » che deve salvarli da questo pericolo. Una simile anticipazione di quanto accadde più tardi nel mondo dei « sani di mente » costituirebbe già da sola un motivo sufficiente per occuparsi delle sue memorie. Ma Schreber ha escogitato anche molte altre cose. Il pensiero della fine del mondo lo perseguita, ne ha grandiose visioni, che non si dimenticano. È inutile elencare tutto quanto accade in lui, me ne occupo in tutti i particolari in una sezione di Massa e potere. Tuttavia voglio qui menzionare alcuni aspetti che mi interessano in relazione a Auto da fé. Infatti la descrizione di un periodo di immobilità ricorda il capitolo corrispondente di Auto da fé, che si intitola « L’irrigidimento ». Anche i colloqui con personaggi immaginari potrebbero essere tratti da Auto da fé.» (p. 167)
Emerge una continua tensione verso il sapere: «È già quasi insopportabile pensare a quanto sapere non si riuscirà mai a far entrare nella propria vita. Ma è assolutamente impossibile procedere da soli all’esclusione di questo sapere.» cristallizzato in una regola di vita: «Pensa molto. Leggi molto. Scrivi molto. Di’ la tua opinione su tutto, ma tacendo.» E l’amore per i libri: «I libri mi sono sacri, ma questo non ha nulla a che fare con la letteratura, tanto meno con quella che scrivo io. Molte migliaia di libri sono per me più importanti dei pochissimi che ho scritto. Di fatto, ogni libro è per me la cosa più importante, in un modo fisico, che mi è difficile spiegare.» (p. 220)
«Ci sono libri che si posseggono da vent’anni senza leggerli, che si tengono sempre vicini, che uno si porta con sé di città in città, di paese in paese, imballati con cura, anche se abbiamo pochissimo posto, e forse li sfogliamo al momento di toglierli dal baule; tuttavia ci guardiamo bene dal leggerne per intero anche una sola frase. Poi, dopo vent’anni, viene un momento in cui d’improvviso, quasi per una fortissima coercizione, non si può fare a meno di leggere uno di questi libri d’un fiato, da capo a fondo: è come una rivelazione. Ora sappiamo perché lo abbiamo trattato con tante cerimonie. Doveva stare a lungo vicino a noi; doveva viaggiare; doveva occupare posto; doveva essere un peso; e adesso ha raggiunto lo scopo del suo viaggio, adesso si svela, adesso illumina i vent’anni trascorsi in cui è vissuto, muto, con noi. Non potrebbe dire tanto se per tutto quel tempo non fosse rimasto muto, e solo un idiota si azzarderebbe a credere che dentro ci siano state sempre le medesime cose.» (p. 44)
Canetti si iscrive a pieno titolo in una tradizione secolare: «Leggendo i grandi autori di aforismi, si ha l’impressione che si conoscessero tutti bene fra loro.» Con una consapevolezza: «Tutto ciò che si registra contiene ancora un piccolo seme di speranza, per quanto grande sia la disperazione da cui nasce.»