
Anzitutto le fonti, poiché – come specifica il titolo – al centro di questa ricerca c’è un racconto, non la ricostruzione di un fatto. Ed è il racconto dell’incontro tra Francesco d’Assisi e una presenza divina, in seguito al quale sul corpo del santo apparvero i segni della passione di Cristo: le stigmate. Così narrano le fonti, a partire da quelle scritte. «Apparuit» si trova nella lettera con cui Elia annunciò la presenza delle stigmate sul corpo di Francesco. «Apparuit» ricorre là dove si descrivono le stigmate come privilegio del tutto speciale, come nel Tractatus de miraculis di Tommaso da Celano, primo biografo ufficiale del santo. In sintesi, «apparuit» segna il palesarsi della visione divina in tutti i racconti, fino a diventare parola chiave con cui Bonaventura da Bagnoregio segna i vari momenti di irruzione del trascendente nella vita di Francesco. Il culmine è nella descrizione della visione del serafino nella Legenda maior, dove si legge: «fra le ali del serafino apparve l’immagine di un uomo in croce» («apparuit inter alas effigies hominis crucifixi»).
L’altra parola, «effigies» ha un interessantissimo ventaglio di significati: effigie, rappresentazione, ritratto, ombra, esemplare, copia, imitazione. L’ultimo aspetto è nodale: le stigmate si mostrano come ‘vera’ imitazione del Cristo crocifisso. La comune radice di ‘imitare’ e ‘immagine’ risuona nell’effigie, che qui risponde al presentarsi «a immagine e somiglianza» del Dio incarnato.
Oltre alla corrispondenza con i testi, l’altro motivo della scelta è nella densità espressiva di questa irruzione del divino nella finitezza umana: l’apparire improvviso di una presenza che è al cuore tanto dei racconti testuali quanto di quelli figurativi.
Il libro è ricco di estese citazioni latine. La conoscenza del latino incide sulla possibilità di seguire le sue argomentazioni?
Sono convinta che un’analisi dei testi sia fondamentale per una ricerca come questa, che scandaglia appunto un racconto. Nel libro ogni citazione è sempre accompagnata da dettagliate spiegazioni il cui scopo è esattamente quello di approfondire ogni parola o locuzione nelle sue sfumature di significato. Evidenziare i ventagli semantici che, come fasci di luce, si aprono nei testi comporta una discussione che rende chiari i passaggi anche a chi non conosce il latino. Spero che, al tempo stesso, giunga al lettore il fascino di una lingua la cui ricchezza ha reso possibile intessere una rete narrativa così ricca e corale come quella del racconto delle stigmate.
Le stigmate sono un tema molto studiato. Cosa c’è di nuovo nel suo libro?
Sempre ci si appoggia sempre sulle ricerche precedenti, che nel campo francescano sono di una ampiezza tale da intimorire. Dunque documentarsi sul tema comporta un viaggio esegetico di lungo tragitto, con svariate diramazioni.
In questo libro ho cercato di restituire da una parte il percorso entro gli studi esistenti e dall’altra la miccia iniziale della ricerca, che ne ha acceso il filo conduttore: la scoperta di una struttura dei racconti, siano essi in parole o in immagini. Dunque credo che nuova sia la proposta di una lettura (da intendere in senso ampio) che fa emergere l’impalcatura narrativa medievale.
Non si tratta solo di un modo di tramandare ricordi e di comporli in racconti, ma – più in profondità – di una percezione del mondo diversa dalla nostra. Per quanto mi riguarda, questa distanza tra noi e il passato è uno spazio di indagine di formidabile interesse.
La figura di san Francesco è sempre attuale, ma ciò significa anche sempre a rischio di fraintendimento. È possibile per la ricerca restituire un Francesco autentico?
Lo studio delle fonti francescane dell’ultimo secolo ha messo in evidenza un solco pressoché incolmabile tra un Francesco della storia e un Francesco storico, ossia tra quello che ci appare nei racconti su di lui tramandati e quello realmente esistito, nella sua vicenda umana. Da quest’ultimo punto di vista, tuttavia – non si tratta di sottigliezze filosofiche – ciascuna persona mantiene un margine di irraggiungibilità ed è sempre fraintendibile.
Piuttosto, va messo in luce che spesso si chiede allo storico di restituire “come è andata davvero” ossia una presunta verità che invece come tale non esiste. In modo più o meno esplicito, egli si trova sempre a indagare entro le vie di memorie e racconti. È però essenziale evitare di sovrapporre desideri, aspettative e dubbi della nostra contemporaneità alla ricerca sul passato. Si può dire di più: non dovremmo ingenuamente avvicinarci a un mondo cronologicamente lontano attribuendogli il nostro sistema di conoscenza della realtà.
Il Francesco che possiamo conoscere è sempre una presenza che si specchia in forme narrative, dunque una figura sfaccettata, una sorta di linea melodica cantata da voci diverse per timbro, altezza e colori espressivi – di cui fanno parte anche i silenzi. L’autenticità di Francesco, pertanto, è insieme l’autenticità di un’immagine plurale con cui la ricerca storica deve sempre confrontarsi.
Nel suo lavoro Bonaventura da Bagnoregio occupa un posto importante. Che rapporto c’è tra Francesco e il più influente tra i suoi biografi?
Quando Bonaventura scrisse le legendae su Francesco, l’esperienza del santo era trascorsa da più di trent’anni e forti tensioni si muovevano all’interno dell’ordine francescano. Senza dubbio la riscrittura biografica bonaventuriana mirò a smorzare tali fuochi, ma non ne consegue necessariamente che essa abbia tradito Francesco e la sua memoria.
Nel 1259 Bonaventura saliva alla Verna, luogo di eremitaggio di Francesco, seguendone le orme. Tutta la sua scrittura è tesa a restituire una via francescana che non separi ma unisca, guardando all’imitazione di Cristo e, infine, alle stigmate. Ma era una meta impossibile da tener salda. Da un lato, mediando tra i suoi contemporanei Bonaventura non soddisfò nessuna delle componenti in gioco; dall’altro, venne a tessere un racconto finissimo secondo strutture medievali, perciò più difficile da dipanare per i lettori del XX e del XXI secolo.
Ecco che su di lui grava l’accusa di aver manipolato il ricordo dei frati, incupita dal fatto che la sua Legenda maior fu scelta dal capitolo francescano di Parigi del 1266 come biografia ufficiale del fondatore per l’ordine. Ma proprio lo scandaglio dei suoi testi rivela profonde consonanze strutturali con le altre fonti, dalle più precoci a quelle seguenti. La sua voce, innamorata del santo di Assisi, si accordò sulla risonanza del riconoscere che Dio è «impresso in ogni mente razionale», così come impresse erano le stigmate in Francesco. Siamo oggi molto lontani da uno sguardo simile.
Nella quarta di copertina si legge che il saggio è un viaggio nel passato, ma anche un’esplorazione del rapporto tra fonti e studiosi. La ricerca include dunque riflessioni sul lavoro dello storico?
Spesso si pensa che sia solo lo storico a far domande al passato, invece è l’incontro con le fonti a porlo in discussione. Non dobbiamo dimenticare che, prima di essere costruttori di memorie, gli autori espliciti o anonimi dei racconti testuali e figurativi medievali furono osservatori di un mondo dotato di coordinate esperienziali e rappresentative differenti da quelle attuali. Detto in altro modo, in quei secoli era attivo, nell’approccio alla realtà, uno sguardo che oggi non ci è più familiare.
La forma dei racconti diventa allora un oggetto di indagine interessante, se non fondamentale. Se al termine ricostruzione storica sostituiamo quello di restituzione di un contesto o, più sfumato ancora, di avvicinamento al passato la prospettiva cambia. Quel margine di irraggiungibilità dei fatti, di cui parlavo all’inizio, diventa indagabile come spazio in cui prendono forma altre autentiche coordinate di esperienza che sono anch’esse campo di esplorazione per lo storico.
Tutto il libro è percorso da questa tensione di avvicinamento al passato, che del passato accoglie una prospettiva includente la ‘meraviglia’ come architettura vitale e strumento di studio. Bisogna chiedersi non solo che cosa stiamo cercando, ma anche quali strumenti interpretativi adottiamo come leciti e quali invece escludiamo poiché non appartenenti al nostro orizzonte culturale – e la meraviglia è spesso tra questi ultimi.
Accogliere l’incanto, o almeno non cercare di eliminarlo dalla bottega di lavoro dello storico, cambia concretamente le possibilità di sguardo della ricerca.
Adelaide Ricci, medievista, insegna Storia medievale presso il Dipartimento di Musicologia e Beni Culturali dell’Università di Pavia. Tra le sue pubblicazioni: Carta e penna. Piccolo glossario di paleografia (Viella, 2014) e (a cura di) Donne e sacro. Forme e immagini nel cristianesimo occidentale (Viella, 2021).