
Quali grandi questioni animano l’idea fortiniana di una pedagogia generalizzata?
Per rispondere alla domanda occorrerebbe ricapitolare tutte le principali questioni con le quali Fortini si è confrontato, spesso con asprezza, mai con condiscendenza: l’esercizio del dissenso e la rivendicazione di un’autorità che, privata di legittimazione sociale, è sostenuta dalla testimonianza dell’esperienza; la funzione mediatrice dell’intellettuale-insegnante e l’opposizione alla prepotenza dell’industria culturale; la critica come attività al servizio del discorso comune; l’insorgere del surrealismo di massa; la dialettica tra memoria e oblio, e tra dato naturale e dato storico; la disposizione anti-idillica e la pratica di un’ecologia della lettura e della scrittura. Sono temi che trovano una cornice ermeneutica nella costante attenzione al limite. Sono i «limiti oscuri» con cui il marxismo fatica a fare i conti, come la «vecchiaia difficile» dell’operaio a cui Fortini guarda nella sua visita in fabbrica. Sono i limiti delle esperienze individuali, che per diventare eredità trasmissibile devono essere mediati dal linguaggio. Sono i limiti, anzi «i confini della poesia», dialetticamente in urto con l’esistenza, «fra un passato formato che si propone/oppone a un futuro da formare», come ebbe a dire nel 1978 a proposito dei Confini della poesia. Due episodi possono essere richiamati. Nel 1963 si interrompe il rapporto di lavoro con Einaudi e Olivetti e Fortini comincia a insegnare negli istituti tecnici della provincia di Milano, esperienza che definisce di «regressione sociale e promozione morale»: vive dall’interno dell’universo scolastico le agitazioni che preparano il ’68, conosce ragazze e ragazzi delle periferie come il diciottenne Angelo Branduardi, al quale consegnò un foglietto con su scritto «non perdetelo il tempo ragazzi», poi messo in musica dal cantautore in Domenica e lunedì, prima traccia dell’omonimo album del 1994. Nel 1971, quando inizia a insegnare Storia della critica letteraria all’Università di Siena, sorprende gli studenti dedicando il corso monografico alla poesia di Manzoni, quasi in controtempo rispetto alle istanze che agitavano i dibattiti di quegli anni. L’impegno per una pedagogia generalizzata, uno dei maggiori lasciti gramsciani, vede stringere in un nesso di corresponsabilità insegnanti e studenti, padri e figli, intellettuali e cittadini, ribadendo sempre la necessità che l’insegnamento non sia disgiunto da una forma di autorità.
Come si sviluppa il confronto fortiniano con la tradizione biblica ed ebraica?
Nel 1976 Fortini presentava a Jean-Marie Straub in questi termini il personaggio dei Cani del Sinai, il suo scritto più autobiografico, da cui il regista aveva ricavato Fortini-Cani: «esso è (o sarà) un intellettuale quasi sessantenne, con tutte le caratteristiche di classe e di cicatrici storiche che ha un intellettuale europeo e italiano e halb-Jude vissuto fra il 1930 e il 1970». Impietosamente incideva il proprio scorticato ritratto di intellettuale che espone le «cicatrici storiche» che lo attraversano, la persecuzione fascista contro il padre, quella razziale del ’38, i grandi eventi esistenziali del ’45. Mettendo a nudo la ferita maggiore, il suo essere halb-Jude, “mezzo-ebreo”, all’anagrafe Franco Lattes, nato da padre ebreo e da madre cattolica, battezzato secondo il rito valdese nel 1939, cresciuto alla scuola di (san) Paolo, di Barth e di Noventa, rivela la matrice delle contraddizioni successive di cui accetta di essere segno. È dal conflitto con la tradizione biblica ed ebraica che Franco Fortini eredita quella configurazione apocalittica del tempo su cui innesterà, attraverso continui aggiustamenti e faticose compensazioni, gli altri rami della sua Bildung, in primis il «marxismo […] col suo non comunismo».
Che forme assume la configurazione apocalittica del tempo propria di Fortini?
L’attesa dell’adempimento del tempo, che non nega ma invera la rivoluzione, ha per Fortini la stessa funzione che l’Apocalisse aveva avuto per i primi cristiani: un dispositivo che libera l’impegno dell’uomo nella storia, lo sottrae dallo spettacolo raggelante della catastrofe, e nello stesso respinge la visione storicista del tempo come continuum omogeneo senza crolli e fratture. Con il balzo della tigre di Benjamin, il poeta recupera dal passato qualcosa che dovrà essere divorato nel futuro. L’ardente aspettativa della rivelazione (Rm 8,19) ha per Fortini il volto dei «gravi uomini ardenti avvenire» del Tributo di Masaccio e le parole della poesia (Italia 1942, da Foglio di via e altri versi) con cui si presenta la visione della ‘nuova umanità’ emersa dalle macerie della guerra. Macerie che sono anche la lingua, da liberare dalle superfetazioni della retorica fascista, e la tradizione letteraria della poesia, da riguadagnare in un classicismo spesso virato verso un manierismo consapevolmente esposto. In Foglio di via ed altri versi ne vediamo l’esordio, che è già la strenua ricerca di una forma – intesa come anticipazione, promessa, modello – che possa contenere le contraddizioni. Il riuso dei materiali della tradizione, però, avviene sempre in una funzione allegorica e in una prospettiva straniante, in modo da evitare qualsiasi adeguamento sterile sul presente. Allo stesso modo in Giovanni e le mani, il suo primo e unico romanzo pubblicato tra «I coralli» Einaudi nel 1948 con il titolo Agonìa di Natale, leggiamo una intensa e sofferta rappresentazione di una possibile convivenza umana, che assume la malattia e la sofferenza come spazio della condivisione e della partecipazione. Su questa complessione aperta e fratturata del tempo, Fortini incardina la propria dizione (e postura) profetica. Come Giona è un profeta riluttante, in aperto conflitto con la parola che porta. Non cerca facili approvazioni, il suo messaggio è difficile, e spesso è reso più arduo dalla sovrapposizione di più schermi tra sé e le comunità a cui si rivolge: gli amici spesso avversari, i compagni con cui condivide un pezzo di strada nelle riviste e nelle istituzioni letterarie, gli studenti, i lettori delle poesie e dei saggi. Nel conflitto tra potestas e auctoritas, egli incarna la contestazione del potere politico da una posizione esterna e di rottura, svela i meccanismi di dominio e di sfruttamento, esorta a indagare i rapporti di produzione, prova a leggere i segni dei tempi per ritrovare nell’avvenire le parole della promessa.
Qual è l’eredità di Franco Fortini?
È un’eredità difficile, ma possibile, anzi necessaria. È l’eredità che si trasmette, in maniera conflittuale e dialettica, dai padri ai figli e che Fortini ricorda polemizzando con un articolo di Calvino, Il fischio del merlo, apparso sul Corriere della sera il 1° agosto 1975. Intervenendo sullo stesso giornale il 22 agosto, Fortini afferma che il fondamentale compito dei padri non consiste nel trasmettere ai figli il ricordo delle esperienze vissute ma nel servirsi «della interpretazione […] del contesto culturale in cui le avevo vissute e proporlo ad essi perché lo confrontino col proprio». L’operazione è resa più ardua in un tempo definito con lessico pasoliniano «regime di grandi mutazioni», ma è inderogabile: occorre lavorare «a mutare i rapporti di produzione; e così facendo anche l’indicibile delle esperienze vitali verrà circuito, ridotto, ritualizzato, grammaticalizzato. La “civiltà” potrebbe non essere altro che questo: il discorso ininterrotto sull’indicibile e la sua trasmissione».
Giuseppe Palazzolo è Professore associato di Letteratura italiana contemporanea presso il Dipartimento di Scienze Umanistiche dell’Università degli Studi di Catania