
Antroposcenari. Storie, paesaggi, ecologie è uno dei primi tentativi, in ambito italiano, di affrontare il discorso sull’Antropocene da una prospettiva umanistica. Il termine «Antropocene», come sappiamo, fu coniato da alcuni scienziati dell’Unione Sovietica alla fine degli anni Sessanta del secolo scorso; Eugene F. Stoermer, biologo presso l’Università del Michigan, cominciò a usarlo negli anni Ottanta per riferirsi all’impatto delle attività umane sul pianeta, ma acquistò popolarità nel 2000 grazie a Paul Crutzen, premio Nobel per la chimica, il quale dimostrò come l’umano (“anthropos”) si sia trasformato in una vera e propria forza geofisica che agisce al pari di fiumi, uragani, terremoti, vulcani… Se il momento preciso del passaggio dall’Olocene all’Antropocene è ancora oggetto di dibattito tra gli esperti, ciò che sappiamo con certezza è che il sistema atmosferico, geologico e idrologico della Terra sono alterati dalle nostre azioni, e che questi cambiamenti sono talmente radicali, ampi e onnipresenti da giustificare l’ipotesi di una nuova era geologica. A mo’ di esempio: la composizione chimica dell’atmosfera, dei mari, degli oceani e del suolo; le perturbazioni dei cicli degli elementi; il riscaldamento globale; la desertificazione; il violento comprimersi della biodiversità; l’acidificazione e la diffusione delle cosiddette «dead zones» degli oceani; i cambiamenti climatici… sono tutte conseguenze di un agire umano scellerato e fuori controllo, ma l’elenco è molto più vasto e vario di così.
C’è un aspetto della domanda, però, su cui vorrei soffermarmi. Mi viene chiesto «in che modo l’antropizzazione si ripercuote sull’ambiente circostante», ma così formulata la domanda implica una falsa separazione tra l’umano e il non umano. L’ambiente, per le scienze umane ambientali e per l’ecocritica, è ciò che ci circonda ma anche ciò che noi circondiamo, è ciò che ci abita ma anche ciò che noi abitiamo, ed è proprio questa dimenticanza – che noi stessi siamo natura – a rappresentare, a mio parere, il vero problema del nostro tempo. All’inizio di ogni nuovo corso di letteratura americana e environmental humanities, ai miei studenti chiedo di fornire una definizione di «natura». Nella maggior parte dei casi, le risposte che ricevo indicano una certa confusione di fondo: la natura è, per i più, quella cosa verde lì fuori, lontana dalle nostre vite quotidiane e nostalgicamente rimpianta perché ormai perduta. Del resto, non è questo il messaggio che riceviamo in continuazione, per esempio dalla pubblicità? Dai biscotti di mulini incantati ai SUV dalle proprietà quasi magiche, i prodotti più «sostenibili» sono quelli che ci conducono in templi di immortale purezza, che ci ricollegano a una natura incontaminata e rigenerante, ma in definitiva distante e separata da noi.
Quali sfide pongono alla nostra epoca le scienze umane ambientali?
I geologi ci insegnano che la storia del mondo è scritta sulle rocce dal passaggio del tempo. I diversi strati della materia – per esempio anche nelle carote di ghiaccio – accumulano materiali ormai diffusi globalmente: il cemento, la plastica, il carbone, l’alluminio, le particelle nucleari sono tracce indelebili che raccontano le storie di tutte le specie viventi, quella umana in primis. Appare evidente, allora, che in quest’ottica anche il concetto di «testo» necessita una rivalutazione. Come scrivono Serenella Iovino e Serpil Oppermann nell’introduzione a un volume sull’ecocritica della materia (Material Ecocriticism, 2014), «i fenomeni materiali del mondo sono i nodi di una vasta rete di forze che possono essere ‘letti’ e interpretati nella loro formazione di narrative e storie. Sviluppandosi in forme corporee e in formulazioni discorsive che si rivelano in paesaggi coevolutivi di nature e segni, le storie della materia sono onnipresenti: nell’aria che respiriamo, nel cibo che mangiamo, nelle cose e negli esseri di questo mondo, nei perimetri del regno umano e oltre. Tutta la materia, in altre parole, è materia narrante perché porta inscritta in sé una storia». Ciò significa che le storie degli umani sono registrate in testi molto vari e che tali narrazioni, per essere interpretate, richiedono competenze, lingue, strategie discorsive e retoriche diverse e diversificate. Non è difficile comprendere, allora, come l’inter-disciplinarità (o persino la post-disciplinarità) sia non solo un requisito, bensì una conditio sine qua non. Non è un caso, infatti, che il Gruppo di Lavoro sull’Antropocene[1], una sezione della Commissione Internazionale di Stratigrafia che opera dal 2009, si avvalga delle competenze di geologi, di specialisti delle scienze dure ma anche del lavoro degli umanisti proprio perché gli esseri umani non sono semplici creature isolate, bensì interconnesse a tutte le altre forme viventi e non viventi del pianeta. Questa la sfida più difficile per la nostra epoca: superare una visione atomistica del mondo e dei saperi ormai cristallizzata ovunque (e l’università non fa certo eccezione).
L’altra sfida più significativa consiste nel riconoscere che la materia – persino gli oggetti, le cose della nostra quotidianità – non sono così inerti come noi umani supponiamo. In Vibrant Matter (2010), per esempio, la teorica della materia Jane Bennett scrive che l’Antropocene è «un’occasione per gli umani di ripensare le cose» e nella categoria «cose» inserisce temporali, metalli, alimenti, materie prime, ecc., tutte dotate di «agency», ovvero di una forza agente, nonché di «vitalità». L’esperimento epistemologico che questa teorica propone è fondamentale per l’Antropocene perché riallinea l’umano al non umano e incoraggia un approccio etico alla materia proprio a partire da questa configurazione del mondo che non è più verticale e gerarchica, bensì circolare e inclusiva. Ecco dunque che anche il ruolo della narrativa cambia drasticamente. La letteratura (categoria che include tutte le forme artistiche ed espressive) racconta storie che non si limitano a descrivere i disastri ambientali, ma contribuiscono al contrario a diffondere valori etici. Il mondo stesso, infine, si fa libro aperto perché riporta, inscritte nelle pieghe delle colline, nelle onde del mare, nei paesaggi urbani, gli intrecci di Storia e storie di esseri umani e non umani, di tradizioni e canti popolari, di ricette locali e suoni etnici, di gesti dimenticati e utensili immortali, di pratiche e affetti, di un patrimonio «naturalculturale», come direbbe Donna Haraway, che non possiamo permetterci di perdere.
Di quale approccio critico ai problemi ambientali c’è bisogno?
Come si diceva prima, è l’interdisciplinarità la chiave di questo necessario sguardo sul mondo propugnato dalle scienze umane ambientali. La teorica statunitense Ursula Heise sostiene che la stessa dicitura «environmental humanities», emersa come alternativa ai vari «-ismi» del secolo scorso, rappresenta il tentativo di assemblare sotto uno stesso grande ombrello concettuale varie discipline – dalla geografia culturale all’ecocritica, dalla semiotica alla filosofia ambientale, dalla traduttologia agli studi sulle migrazioni – con l’intento di promuovere un dialogo tra varie aree di studio al fine di rispondere alle grandi sfide ambientali globali. Le cosiddette «stem disciplines» (scienze, tecnologia, ingegneria e matematica) hanno dimostrato che la scienza da sola non è in grado di affrontare i problemi più cogenti del nostro pianeta vista la ristretta concettualizzazione dell’agentività dell’umano, dei suoi valori culturali, delle idee politiche, dei credi religiosi. Occorre, in breve, riconoscere l’intersezionalità (termine ormai sancito dalla sociologia e dalla giurisprudenza) delle scienze umane. Di recente, si è riscontrato un consenso sempre maggiore rispetto all’urgenza di una prospettiva multipla che favorisca una pollinazione tra i vari ambiti di studio e i vari linguaggi. Il gergo talora asciutto ed eccessivamente specialistico delle scienze dure, infatti, non sempre riesce ad appassionare la gente comune. E allora, come scrive George Monbiot su «The Guardian»: «Invece di arrogarsi il diritto d’inventare nomi, gli ecologisti dovrebbero assoldare poeti, linguisti, amanti della natura per farsi aiutare a trovare parole più adatte per proteggere ciò che hanno a cuore».
Cosa ci attende, a Suo avviso, dopo l’Antropocene?
Ci sarà un «dopo-Antropocene?». Quali (antropo)scenari immaginiamo per il nostro futuro? Quali strumenti avremo a disposizione, noi umanisti, per comprendere i fenomeni che ci assillano e ci tolgono il sonno? Quali discorsi, quali storie, quali strategie narrative saremo in grado di inventarci e di implementare in questo (autoimposto) cambiamento globale? Saremo in grado di formulare le storie della Terra in una narrativa comprensibile e scevra di risonanze antropocentriche? E come riusciremo a sviluppare un concetto più giusto – ovvero di pari opportunità e pari vulnerabilità – dell’Antropocene? Naturalmente il libro Antroposcenari. Storie, paesaggi, ecologie non fornisce le risposte a tutte queste domande. Semmai, ne genera altre. Ma spero che questa discussione sui vari processi di ibridizzazione del pianeta possa favorire una visualizzazione della nostra condizione ibrida e, soprattutto, un’azione collettiva che, indubbiamente, non possiamo più permetterci di rimandare.
Daniela Fargione insegna Letterature anglo-americane all’Università di Torino
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[1] Cfr. https://quaternary.stratigraphy.org/workinggroups/anthropocene/. [Ultima visita: 22 marzo 2018]