“Antropologia giuridica” a cura di Antonio De Lauri

Antropologia giuridica, Antonio De LauriAntropologia giuridica. Temi e prospettive di ricerca
a cura di Antonio De Lauri
Mondadori Università

«L’antropologia giuridica è un ambito di ricerca che, pur rimandando alle origini stesse dell’antropologia culturale e sociale, è stato generalmente trascurato negli studi antropologici italiani conoscendo, invece, ampi margini di dibattito in paesi come l’Inghilterra, la Francia, gli Stati Uniti o l’America Latina. In Italia, laddove interesse vi è stato nei confronti di tale campo di ricerca, la tendenza è stata quella di privilegiare l’approccio filosofico-giuridico o giuridico-comparatistico (con riferimento alle macroanalisi del diritto comparato) attingendo in maniera sporadica (e talvolta imprecisa) alla ricca letteratura antropologica e, ancor meno, al variopinto bacino di indagini etnografiche. Il volume mira anzitutto a rimettere in primo piano la natura interdisciplinare dell’antropologia giuridica oscillando tra la «tensione generatrice» del comparativismo, la microlente etnografica e le nuove forme di conoscenza e partecipazione pubblica. Dopo aver fornito un’introduzione storico-tematica con il primo capitolo, il libro discute e sviluppa temi di rilevanza socio-normativa arricchendo il campo di studi sia per ciò che concerne il dibattito teorico sulle dimensioni della normatività, sia per quanto riguarda la riflessione sugli usi dell’antropologia nei terreni di elaborazione e applicazione del diritto, sia, infine, per l’approfondimento di temi e prospettive di studio particolarmente rilevanti nello scenario attuale.

Alcuni saggi si richiamano e si intrecciano. Altri si somigliano ma si respingono. Non sono, infatti, l’unità d’intenti e l’omogeneità dei punti di vista a tenere insieme un così ampio orizzonte di indagine quanto, piuttosto, la capacità degli scritti, nella loro lettura complessiva, di generare un approccio non legalistico sui fenomeni di rilevanza normativa. Il volume nella sua interezza, dunque, avvicina il lettore a un ambito di riflessione articolato e frammentato (per quanto dominato dai «professionisti del diritto») offrendo strumenti analitici, ipotesi interpretative e spunti metodologici in grado di tenere insieme il molteplice (le differenti forme che la normatività assume) e di contrapporre al legalismo tecnicizzante uno sguardo umanista e plurale sui valori, le parole, le istituzioni, le politiche, le pratiche che rimandano alla sfera della giustizia e dell’ingiustizia, al cambiamento sociale e ai modi di usare il diritto.

L’interdisciplinarietà che caratterizza il volume e la pluralità di prospettive in esso incluse, com’è intuibile, producono effetti anche in termini metodologici. Nel libro è evidente una predilezione degli autori – almeno nella maggior parte dei casi – per l’approccio etnografico e, in particolare, per l’intervista in profondità, l’osservazione partecipante e l’analisi delle fonti primarie focalizzata sia sui contenuti sia sul contesto di produzione dell’elemento narrativo (un video, una testimonianza, un verbale, un atto giudiziario, e così via). Tuttavia, questa raccolta di saggi non restituisce un profilo univoco riguardo tali «tecniche». L’etnografia stessa non emerge quale metodo specificodisciplinare rigidamente inteso. Appare, al contrario, come una «postura» qualitativa e situazionale plasmabile sulla base delle esigenze della ricerca nonché delle competenze e possibilità del ricercatore. Uno strumento elastico, un «metodo indisciplinato» verrebbe da dire utilizzando un ossimoro, che – ormai da qualche decennio, in verità – non può più essere considerato «attrezzo da lavoro» esclusivo dell’antropologo durante il suo lungo (preferibilmente lunghissimo) periodo di ricerca «sul campo». L’etnografia cui gli autori di questa raccolta di saggi fanno riferimento è tanto legata all’antropologia culturale quanto alla sociologia del diritto; è esperita in maniera fisica (l’incontro, le strette di mano, la condivisione, gli sguardi…) e/o virtuale; ritrova i propri parametri di intellegibilità tanto nella letteratura antropologica di matrice nord-americana quanto nel diritto comparato, nella filosofia, nella demologia o nell’etnologia europea.

Certo questa «elasticità» sembrerebbe giocare a sfavore di un riconoscimento rigorosamente scientifico dell’etnografia nel contesto accademico attuale che sembra aver riscoperto – sulla spinta di politiche poco lungimiranti – la passione per l’assolutismo e la necessità di una illusoria «coerenza». Ma tant’è. La moltiplicazione e l’interconnessione di mondi vissuti e immaginati (attraverso l’astrazione e la comparazione) sono strettamente legate alla ricerca di mondi da conoscere (attraverso il metodo). L’elasticità appare allora irrinunciabile giacché le modalità mediante le quali esploriamo le differenti realtà della normatività condizionano profondamente il punto di vista che saremo in grado di proiettare su queste ultime. Per indagare la sfera sociale cercando di cogliere la prospettiva dei soggetti coinvolti e, allo stesso tempo, tentando di spiegare la relazione tra le condizioni latenti e le forme esplicite della normatività, è necessario avere a disposizione strumenti adatti. […] Rinunciando a qualche «regola» e non cedendo alle lusinghe della ripetitività, l’etnografo, foss’anche per mancanza d’altro, abbraccia un metodo difficilmente descrivibile in maniera sistematica, un metodo per certi aspetti controverso e che non tutti riconoscono allo stesso modo ma che – proprio per la sua malleabilità e polivalenza – sembra adeguato per dare fondamento a una comparazione antropologica che nel suo complesso possa restituire (almeno in parte) l’irriducibilità e l’effettiva incoerenza dell’agire sociale.

Il titolo scelto per questa raccolta di saggi originali richiede comunque alcune precisazioni. La prima è relativa al fatto che, da un punto di vista storico-umanistico, l’antropologia giuridica – in Europa, per lo meno – ha avuto una storia complessa così come sottile e, al tempo stesso, densa di implicazioni è stata la distinzione tra le espressioni «antropologia giuridica» e «antropologia del diritto». Lo spazio di riflessione cui tali espressioni rimandano è relativamente vasto e include la filosofia, la sociologia, la filosofia del diritto, il diritto comparato, la storia, l’antropologia sociale e culturale. Nel ricostruirne percorsi di studio e genealogia bisognerebbe quindi far riferimento tanto a Immanuel Kant quanto a Marcel Mauss, a Émile Durkheim come a Karl Marx, e così via. Già nell’opera di Montesquieu1, a ben vedere, era rintracciabile un barlume di quella congiunzione tra diritto e antropologia che avrebbe preso forma verso la metà del XIX secolo costituendo una chiave di svolta per gli sviluppi dell’antropologia sociale e culturale. Nondimeno resta arbitrario il criterio con cui si privilegiano certi ambiti disciplinari piuttosto che altri (la teologia, l’economia, l’ecologia sociale…). A dispetto di quanto possano pensare certi «puristi», infatti, le arti e le scienze si contaminano e si intersecano al punto da rendere qualsiasi criterio di distinzione arbitrario e provvisorio. Questo libro riflette in maniera esplicita la natura spuria e contaminata del sapere. Di là da ogni pretesa onnicomprensiva, comunque, esso ha come riferimento primario un’importante sezione all’interno di una tradizione di studi continuamente rinnovata (e pur sempre, ovviamente, arbitrariamente delimitata): quella dell’antropologia sociale e culturale. Non ce ne vorranno, si spera, coloro che, al richiamo «antropologia giuridica», rispondono con esclusivo riferimento alla più «anziana» antropologia filosofica o al più «istituzionalizzato» (quantomeno in Italia) diritto comparato.

Se, dunque, l’interdisciplinarietà può ormai essere intesa quale indispensabile approccio alla conoscenza, è altrettanto evidente quanto politiche accademiche sempre più schiacciate sulle esigenze di carriera, unitamente a un’editoria piegata alle vicissitudini del mercato e progressivamente privata di motu proprio, spingano insistentemente studiosi e ricercatori a rintanarsi in iperspecialismi. Questo testo non rivendica alcuna autonomia subdisciplinare. Al contrario, pone in rilievo l’importante contributo che deriva dall’intersezione tra sfere del sapere, laddove si aprono importanti spazi di indagine capaci di far convivere il particolare e il generale, il relativo e l’universale. Antropologia e diritto, in una vitale e continua dinamica di opposizione e attrazione, generano non solo nuovi orizzonti teorici (Greenhouse 2006), ma anche nuovi modi di vivere il diritto stesso. Collegato a questo aspetto, peraltro, si rileva un ulteriore (e cruciale) elemento. All’interno della relazione antropologia/diritto assume infatti particolare rilevanza la questione morale. Lo scorrere inarrestabile dei processi transazionali, fatti di mutue dipendenze e di vulnerabilità reciprocamente indotta, per dirla con Bauman (2003), richiede un costante interrogarsi circa la formulazione di un’antropologia critica morale (Fassin 2012). Nei campi di elaborazione e applicazione del diritto, nell’incontro tra «culture giuridiche» e prassi normative, come mostrano anche i saggi di questo volume, si gioca in maniera attiva e diretta la relazione tra forme della conoscenza, dialettica morale e critica politico-culturale.

Pensato come strumento per esplorare, più che sintetizzare, l’ambito di studi dell’antropologia giuridica, questo volume mette in relazione temi «classici» con prospettive di ricerca attuali discutendo criticamente questioni quali vendetta, strategie di risoluzione dei conflitti, onore, cultural defense, politiche migratorie, usi e discorsi relativi alle categorie di giustizia e diritto, antropologia in tribunale, contenzioso strategico, neurolaw, censura e uso politico e culturale della Rete.

Il primo capitolo introduce e contestualizza le categorie di diritto e pluralismo attraverso la chiave di lettura dell’antropologia giuridica. Ripercorrendo momenti salienti dello sviluppo del settore di studi, il capitolo giunge a discutere i concetti di giustizia e ingiustizia nonché le condizioni di affermazione del diritto nella contemporaneità decostruendo e interrogando alcuni cardini della normatività.

Attraverso la comparazione diacronica e l’analisi linguistica, il saggio di Valerio Fusi si focalizza sulla semantica e sulla valenza «giuridica» di alcuni importanti concetti del vocabolario maori. Proiettando l’analisi nel frangente storico in cui i maori furono costretti a confrontarsi, oltre che con la violenza, anche con l’universo culturale dei colonizzatori inglesi (e viceversa: quando, oltre a conquistare, i colonizzatori si preoccuparono anche di interpretare «il mondo dei nativi»), Fusi restituisce il concetto di giustizia alla sua dimensione «relativa» – e, pur tuttavia, in continua relazione con l’universale (o forse meglio, con l’intrinsecamente umano). E ci ricorda, in fondo, quanto le drammatiche esperienze coloniali abbiano gravato sui processi planetari di trasformazione culturale predeterminando, in maniera pressoché irrimediabile, nuovi modi di convivenza e di ricerca di valori comuni.

I capitoli scritti da Franscesca Scionti e Maria Rita Bartolomei affrontano i temi della faida e della vendetta, storicamente di interesse per l’antropologia giuridica. Pur muovendo da prospettive differenti, i capitoli offrono elementi utili per problematizzare in termini etnografici fenomeni ancora associati – al di fuori degli approfondimenti antropologici – a letture evoluzionistiche incapaci di afferrarne la contingenza storica e le risignificazioni contemporanee. Se Bartolomei orienta il suo studio verso l’ipotesi di uno schema esplicativo integrato che si propone come modello di analisi transculturale, Scionti discute la rifunzionalizzazione della vendetta nella logica della faida garganica e, attraverso la categoria di «pratica giuridica», osserva l’intreccio di diverse forme della giuridicità nonché il loro simultaneo respingersi in un contesto attuale governato dall’incertezza.

Il saggio di Daria Settineri affronta il tema della normativa sull’immigrazione e della costruzione dell’illegalità a partire da un lavoro etnografico condotto a Ballarò (Palermo). Storie di marginalità, usi della legge e strumenti di esclusione sociale si intrecciano in un’analisi che mette in risalto non solo la gerarchia sociale che le istituzioni tendono a reiterare, ma anche la distanza tra i modi del diritto e i sentimenti di giustizia.

Lo scenario creato dai flussi migratori fa da sfondo anche al capitolo di Paola Sacchi, dedicato al tema dei «delitti d’onore» e delle strategie legittimanti e/o accusatorie (in ogni caso «culturalizzanti») utilizzate in sede giudiziaria. Il caso osservato concerne una ragazza di origine pakistana, Hina, uccisa dal padre con il concorso di altri parenti. Attraverso la trama di stereotipi, meccanismi di distanziamento e incomprensione, Sacchi riflette sulle possibili implicazioni dei processi di essenzializzazione culturale.

Un altro caso giudiziario particolarmente rilevante sta al centro dello studio di Barbara Berardi Tadié. Il contenzioso strategico da lei analizzato diviene l’occasione per una rinegoziazione di elementi cruciali quali l’accesso alla terra, il sistema dell’eredità, il principio di uguaglianza, le distinzioni di «genere». Tra mutamento sociale e confronti giuridico-interpretativi (relativi ai diritti umani, al diritto statale, alla consuetudine…) si dispiega un processo storico-culturale che ha energicamente interessato la società nepalese negli ultimi anni ma che, più in generale, è caratteristico di una contemporaneità in cui modelli di giustizia (e di società) differenti si confrontano con intensità crescente e il cui risultato, peraltro, è raramente vantaggioso per i gruppi marginalizzati.

Nei tribunali, come spiega Barbara Faedda, anche le forme del sapere giocano un ruolo cruciale. Lo sviluppo delle scienze (in particolare, racconta l’autrice, delle neuroscienze) rimette continuamente in discussione limiti e possibilità del diritto. Di conseguenza, l’antropologia giuridica stessa si ritrova non soltanto a ribadire il proprio carattere interdisciplinare, ma soprattutto ad ampliarne gli orizzonti, in un confronto dagli esiti non scontati.

Sara Beretta porta la riflessione sul terreno dell’analisi mediatica e delle nuove forme di comunicazione. Censura, produzione video, relazione tra ufficialità e non ufficialità e uso della Rete in Cina vengono discussi a partire da un ricerca basata sull’osservazione partecipante e l’etnografia dei media. Stressando vincoli normativi e meccanismi di rappresentazione dell’autorità, i modi di usare la (e di stare nella) Rete, suggerisce Beretta, compongono un orizzonte sociale di esperienza in cui si incrociano partecipazione politica, forme di critica culturale e nuove relazioni tra cittadini e istituzioni statali.»

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